Terra di martiri. Vivere in Sicilia, tra mafia e rassegnazione”

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“In Sicilia il dolore è follia, l’amore è follia, la morte è follia. E la follia ha una sua logica che non è una logica, e che nella sua illogica è anche lucida, geometrica, inflessibile”. (Leonardo Sciascia)

PALERMO. Palermo splende sotto il sole implacabile, le sue chiese barocche e i palazzi liberty sono i testimoni silenziosi di una tragica storia. Qui, in Sicilia, la bellezza si intreccia indissolubilmente con il dolore, l’eroismo quotidiano si scontra con l’omertà secolare. È la terra dei martiri della legalità, da Peppino Impastato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi per aver osato sfidare il potere mafioso che avvolge quest’isola come un sudario.

E cosa dire di chi, in questa terra “maldetta”, decide di non piegarsi, di non cedere alla rassegnazione, di rimanere fedele a un ideale di onestà e giustizia? Deve rassegnarsi al “martirio”, come tanti prima di lui, o è costretto ad andarsene per salvarsi l’anima e la vita?

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La Sicilia ha sviluppato nei secoli una sua particolare “grammatica del potere”, come la definiva Gesualdo Bufalino. Un sistema di regole non scritte ma ferree, dove il confine tra lecito e illecito sfuma in una zona grigia di favori, raccomandazioni e silenzi complici. Una “mafiosità” che permea il tessuto sociale, molto più della semplice organizzazione criminale.

“La mafia non è affatto invincibile”, scriveva il giudice Giovanni Falcone. “È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Ma per chi vuole contrastare questo sistema, il prezzo da pagare è spesso altissimo. Come denunciava il giornalista Nino Amadore, “in Sicilia essere onesti significa spesso essere considerati degli idioti, dei Don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento”.

L’onestà diventa una forma di “handicap sociale”, un ostacolo alla “normalità” delle relazioni quotidiane. Chi osa rimanere e sfidare il sistema viene inesorabilmente schiacciato dalla macchina del potere corrotto. E per coloro che decidono di andarsene, l’esilio diventa spesso l’unica via per salvare se stessi e la propria integrità morale.

Eppure, in questa terra di rassegnazione e omertà, ci sono ancora voci che si levano in difesa della legalità e della dignità. Come scriveva Roberto Alajmo, “la Sicilia non è una terra disperata che attende il salvatore di turno. È una terra dove migliaia di persone ogni giorno fanno semplicemente il loro dovere”.

Sono i piccoli eroi quotidiani, come l’insegnante che rifiuta raccomandazioni, il funzionario che non accetta scorciatoie, l’imprenditore che denuncia il pizzo. Sono le associazioni antiracket che creano reti di supporto tra persone oneste, gli insegnanti nelle scuole di frontiera che si impegnano nell’educazione delle nuove generazioni.

È la resistenza di chi sceglie di fare impresa in modo etico, dimostrando che è possibile avere successo senza compromessi. Come diceva Giuseppe Fava, “a che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”.

Ma quanti possono permettersi il lusso dell’eroismo in questa Sicilia irrorata dal sangue dei suoi martiri? Quanti sono disposti a sfidare la fatalità di un destino segnato, a rifiutare il compromesso e a pagare il prezzo della loro onestà?

Forse l’unica via d’uscita è arrendersi, piegare la testa e accettare le regole del “sistema”, come fanno tanti per mera sopravvivenza. Ma a quale prezzo? Quello della propria dignità e della propria umanità. Un prezzo troppo alto da pagare, anche per chi non vuole essere travolto dalla violenza e dalla sopraffazione.

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E allora, cosa resta? Il “martirio” come unica scelta possibile? Come scriveva Sciascia, “la Sicilia offre ancora uno spettacolo fosco”, e nulla sembra in grado di cambiare questa triste realtà. Quante vite distrutte, quanti sogni infranti, quanti innocenti devono ancora essere sacrificati sull’altare di questa terra “maldetta”?

“La Sicilia ha bisogno di una rivoluzione culturale prima ancora che economica”, sosteneva Antonino Caponnetto. Una rivoluzione che parta dalla consapevolezza che l’onestà non è debolezza, ma forza e coraggio. Che credere in un “altro modo di vivere” è possibile, e che lavorare ogni giorno per renderlo reale è l’unica vera sfida.

Come scriveva Andrea Camilleri, “la Sicilia è una metafora del mondo, e come tale va letta”. La sfida dell’onestà in Sicilia è la stessa che si presenta, in forme diverse, in ogni società dove il potere tende a corrompere e il silenzio diventa complicità.

Ma forse il cambiamento non arriverà in fretta. Forse i martiri della legalità continueranno a cadere, travolti dalla fatalità di un sistema che sembra immodificabile. E allora, quale futuro attende questa terra “benedetta e maledetta”? La rassegnazione, l’esilio, o la speranza di un riscatto che sembra, a volte, così lontano?

Come diceva Peppino Impastato, “se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. Ma quanti in Sicilia hanno ancora la forza di credere in questa “bellezza”? Quanti sono disposti a pagare il prezzo della loro onestà, a morire una volta sola pur di non piegare la testa?

L’onestà in Sicilia non può essere solo una scelta individuale di eroismo o di martirio. Deve diventare un progetto collettivo, una rete di resistenza quotidiana, una strategia di cambiamento graduale ma inesorabile. Come diceva Giovanni Falcone, “chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”.

In questa terra “maldetta” ma anche benedetta, irrorata dal sangue dei martiri ma anche dalla linfa vitale di chi ogni giorno sceglie di resistere, essere onesti significa soprattutto questo: credere che un altro modo di vivere è possibile, e lavorare ogni giorno per renderlo reale. Sopravvivere o morire con dignità: questa è la scelta che attende chi decide di non abbandonare questa “oasi di legalità” in un deserto di omertà e sopraffazione.

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Davide Romano



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