Geograficamente, sì, Pechino è lontana. Ma sogni e ambizioni accomunano i popoli più distanti. Ospite dell’annuale conferenza State of Asia, organizzata da Asia Society, la giornalista e podcaster cinese Qing Wang ci ha parlato di come opinioni e interessi dei giovani di Pechino siano cambiati negli ultimi anni – sull’onda di grandi eventi politici e conflitti – pur mantenendo tanti punti di contatto con la società occidentale.
Giornalista indipendente, podcaster e social media influencer, Qing Wang è nata nel 1989 nella provincia sudoccidentale di Guizhou, una delle più povere della Cina. Sbarcata a Pechino grazie a una borsa di studio, dal 2018 al 2024 ha lavorato come capo corrispondente internazionale per il grande portale d’informazione cinese Jiemian News. In questa posizione, Wang ha seguito diversi eventi internazionali come i vertici COP e il WEF di Davos. È co-fondatrice e co-conduttrice di «The Weirdo Podcast», uno dei podcast più popolari in Cina, nel quale affronta temi d’attualità – dalla parità di genere al clima – con un taglio progressista. Con un milione di abbonati, il programma ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui «il più grande nuovo programma» (2020) da Apple Podcast. Nel corso della sua carriera Wang ha intervistato personalità quali Noam Chomsky, Bill Gates, Svetlana Alexievich and Slavoj Zizek. Attualmente, Wang risiede nei Paesi Bassi, ma viaggia spesso nel resto d’Europa e in Cina: non a caso, tra i suoi obiettivi c’è quello di «aiutare il mondo a capire meglio la Cina e la Cina il mondo, soprattutto l’Europa».
The Weirdo Podcast. Lo Strambo Podcast. Un nome interessante per un prodotto così impegnato.
«Sì è un nome un po’ strano per le persone di lingua inglese, è difficile prenderlo sul serio se si bada solo a questo. Ma credo che ascoltandolo, prendendo in considerazione gli argomenti di cui parliamo, il podcast sia in realtà piuttosto serio. Si va dai fenomeni culturali all’attualità, dalla politica alla società: fondamentalmente tutto ciò che riguarda i giovani cinesi di oggi. Con il nome di The Weirdo non ci prendiamo troppo sul serio e ci rivolgiamo in modo autoironico a persone che in Cina amano avere un pensiero indipendente e che vorrebbero avere una visione diversa del mondo. Questa è l’origine del podcast, dedicato a chi parla cinese in tutto il mondo e per questo, attualmente, diffuso solo in lingua cinese. Anche se stiamo pensando di introdurre, in futuro, contenuti in inglese…».
Perché proprio un podcast?
«Da giornalista, trovo interessante tutti i vari formati media, dal testo al multimedia. Penso che i podcast abbiano un sapore, una texture speciale che viene trasmessa tramite la voce. Ed è per questo che eravamo un po’ indecisi se iniziare il canale inglese, perché il cinese è la nostra lingua madre. E anche se credo che gran parte del nostro pubblico sia in grado di parlare e capire l’inglese, il legame con la propria lingua madre è profondo. Un po’ come in Svizzera, dove la lingua gioca un ruolo importante per i differenti audience».
Che cosa significa essere giornalista in Cina?
«Un po’ come per i giornalisti di tutto il mondo, in Cina questo lavoro ha i suoi alti e i suoi bassi, momenti eccitanti e interessanti e altri di grande difficoltà. È un’epoca, questa, in cui fare giornalismo è particolarmente difficile, perché si devono affrontare tante sfide diverse. Prendiamo ad esempio l’elezione di Trump negli Stati Uniti: la disinformazione ha giocato un ruolo molto importante. E in Cina, ovviamente, anche noi abbiamo le nostre sfide. Una di cui non si parla spesso, in un contesto internazionale, è l’ascesa dei self-media: content creator che pubblicano sulla propria piattaforma invece di passare attraverso un protocollo giornalistico completo. È comune che non si impegnino in un fact-checking di tipo giornalistico. Ma hanno comunque un’enorme influenza e producono una grande quantità di contenuti che parlano di problemi attuali, a volte anche con argomentazioni valide. Il problema? Il confine tra content creator e giornalisti sta diventando sempre più ambiguo: una nuova sfida sempre più importante anche per il giornalismo cinese».
Uno dei principali obiettivi del vostro podcast è far conoscere la Cina al mondo occidentale e il mondo occidentale alla Cina. Tra i temi principali che hanno tenuto banco negli scorsi mesi, ovviamente, le presidenziali americane e la vittoria di Trump. Si tratta di argomenti che interessano i giovani cinesi?
«Sì, credo che le elezioni americane abbiano attirato l’attenzione dei cinesi, soprattutto dei giovani cinesi, per tre motivi. In primo luogo, si tratta di un appuntamento importante per il mondo intero, e quindi sempre presente nei titoli dei media. In secondo luogo, per rispondere ad alcune domande sui valori occidentali. Molti giovani cinesi erano soliti ammirare gli Stati Uniti: l’America era considerata il faro della democrazia. Ma questa percezione si è deteriorata nell’ultimo decennio, in parte già con la prima vittoria di Trump nel 2016. Se il sistema statunitense porta all’elezione (la seconda) di un personaggio simile – la cui storia di misoginia e abusi sessuali, fra gli altri problemi legali, è ben documentata – si tratta davvero di un sistema a cui guardare? È un problema che va al di là dell’appartenenza politica, e che nasce da una domanda fondamentale: una persona che ha simili precedenti è davvero eleggibile? Ma soprattutto, i giovani cinesi hanno seguito le elezioni americane per capire che cosa cambierà nelle relazioni bilaterali fra Pechino e Washington, in particolare per quanto riguarda i permessi di studio, lavoro e viaggio. Sono tantissimi, ancora, i giovani interessati a recarsi negli Stati Uniti, temporaneamente o in pianta stabile».
A proposito di valori: il caos degli ultimi anni, la gestione delle due grandi guerre in corso, ha influenzato il modo in cui i cinesi guardano all’Occidente?
«Direi che le guerre stanno portando i giovani a riflessioni più profonde su quali siano, effettivamente, i valori occidentali. Sembra, al riguardo, che non ci sia una logica coerente. Come si fa a sostenere l’Ucraina contro la Russia e, al tempo stesso, non porre regole sulle armi che Israele ha usato anche per bombardare gli ospedali di Gaza? Si tratta solo di un gioco di narrative?».
Ma sono numerosi i temi, anche sociali, che affrontate nel vostro podcast. Femminismo, cambiamento climatico e tanti altri. Come li affrontate? Si tratta di argomenti che, a differenza di quello politico, avvicinano la Cina all’Occidente?
«Avvicinano certi gruppi, ne allontanano altri. Prendiamo come esempio il femminismo. Nell’ultimo decennio ha rappresentato uno dei fenomeni sociali più evidenti in Cina. Le giovani donne cinesi sono molto attente ai problemi riguardanti il genere, dai diritti riproduttivi alle molestie sessuali sul posto di lavoro, alla parità di retribuzione, alla divisione del lavoro con la cura dei figli. E credo che discutere di queste tematiche nel contesto cinese metta, contemporaneamente, in contatto queste donne con ciò che accade a livello internazionale. Basti pensare che al #MeToo americano seguì, poco dopo, un movimento analogo in Cina. Temi simili, però, creano anche un contraccolpo: la mobilitazione di gruppi opposti e altrettanto agguerriti. Lo si è notato anche nelle elezioni americane, quando quello di genere è diventato un argomento importante. Sono, insomma, tematiche che avvicinano e, contemporaneamente, dividono».
Un discorso che vale anche per il clima?
«La questione climatica in Cina ha una sua particolare traiettoria. Credo che se chiedessimo al popolo cinese se vuole o no proteggere l’ambiente, la maggior parte risponderebbe positivamente. E non a caso la protezione dell’ambiente fa parte delle politiche del governo stesso. Tuttavia la lotta al cambiamento climatico va oltre il solo ambientalismo, è qualcosa che richiede uno sforzo collettivo anche se il suo impatto non è immediatamente misurabile nella vita di tutti i giorni. E l’opinione prevalente, fra la popolazione cinese, è che questa sia una responsabilità da attribuire maggiormente ai Paesi sviluppati, all’Occidente, che non ai Paesi in via di sviluppo. Una certa resistenza può essere riscontrata, ad esempio, per quanto riguarda l’industria della carne. In questo momento, in Occidente, diversi movimenti chiedono di ridurre l’impronta di carbonio personale mangiando meno carne. Nel contesto cinese, tuttavia, il tema è delicato. Se penso alla generazione dei miei genitori, che per sopravvivere ha dovuto affrontare alcuni cicli di carestia nella storia recente della Cina, il pensiero è chiaro: “Abbiamo lavorato così duramente per molti anni. Ora che, finalmente, possiamo permetterci di mangiare carne a ogni pasto, venite a dirmi che dovremmo smettere perché mangiarla fa male all’ambiente?”. Se messa in questi termini, la narrazione risulta difficile da elaborare e da digerire per i cinesi comuni. Tuttavia, sebbene Cina e Occidente presentino differenze culturali e sociali, credo che quello climatico rappresenti un punto di partenza molto promettente per collaborazioni future. Soprattutto, credo che l’elezione negli Stati Uniti di un negazionista del cambiamento climatico come Trump spingerà Cina ed Europa a lavorare più strettamente sulla questione».
In un Paese come la Cina, caratterizzato dalla bassa natalità e dal rapido invecchiamento della popolazione, le differenti opinioni fra giovani e anziani saltano ancor più all’occhio. Siamo di fronte a una spaccatura generazionale?
«Credo di sì. Differenze di pensiero fra diverse generazioni esistono anche in Europa, ma in Cina il fenomeno è accentuato dai grandi cambiamenti vissuti nel giro di poche generazioni. Tornando all’esempio dei miei genitori: la loro generazione ha vissuto una Cina che soffriva ancora della mancanza di mezzi di sussistenza. Per loro, a contare, è la sicurezza alimentare e lavorativa. Con il miglioramento del tenore di vita registrato in Cina negli ultimi due o tre decenni, oggi le priorità sono cambiate e le persone, probabilmente, tengono di più alla propria libertà. La politica del figlio unico ha contribuito nello scavare differenze: la generazione dei miei genitori avrebbe voluto avere più figli, ma non poteva a causa dei vincoli politici. Oggi che, al contrario, Pechino vuole aumentare i tassi di natalità, il governo sta avendo difficoltà nel persuadere le giovani donne cinesi istruite ad avere più figli. Credo che il desiderio di libertà personale stia diventando sempre più dominante e che, rispetto ai più anziani, i giovani vogliano dare priorità alla propria indipendenza, perseguendo il tipo di felicità che ritengono importante».
Culture distanti non facilitano la comunicazione. Che consigli darebbe a chi vuole avere una comprensione più profonda e meno pregiudiziale della Cina e dei cinesi?
«L’informazione è potere. Il modo in cui raccogliamo le informazioni e ne scegliamo le fonti definisce, fondamentalmente, che tipo di persona siamo. Il consiglio principale è quello di trovare piattaforme media che producano buone informazioni di prima mano sulla Cina. Credo sia molto importante scegliere media che abbiano corrispondenti in Cina e che non si basino su reportage sulla Cina dall’estero. Ma il giornalismo ha i suoi limiti. Per capire la Cina bisogna imparare a conoscerla, ad esempio guardando i film cinesi, andando a visitarla, facendo amicizia con chi la abita. Ma credo, soprattutto, che la Cina non vada trattata in modo diverso dagli altri Paesi. Come ogni nazione, ha le sue peculiarità. Ma se chiediamo a qualsiasi europeo che speranze abbia per il proprio futuro, che tipo di persona vorrebbe diventare, credo che la risposta non sarebbe molto diversa da quella che otterremmo chiedendo a un cinese. Bisogna capire, insomma, come nel XXI secolo fra i Paesi ci siano più somiglianze che differenze».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link