Meloni alla corte di Trump tratta gli “interessi italiani” e dimentica l’Europa

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La politica internazionale, al tempo di Meloni, si fa così. Partire senza avvertire neppure il proprio ministro degli Esteri (che, pare, l’ha presa malissimo) né i partner europei né gli imbambolati responsabili di Bruxelles per andare a recitare tra le quinte pacchiane del palcoscenico di Mar-a-Lago la parte che il teatrino dei commentatori di casa le va scrivendo da quando Donald Trump è stato rieletto: Giorgia l’interlocutrice privilegiata, l’unica leader di questa vecchia e stanca Europa in grado non tanto di fare l’anello di congiunzione tra Bruxelles e Washington quanto di rimodellare le relazioni di ciascun paese del Vecchio (proprio vecchio) Continente con il nuovo Potere Americano.

Il succo della rapidissima missione in Florida della capa del governo italiano – cinque ore in tutto, compresa una cena senza dessert e la visione di un filmaccio di propaganda sulle nequizie dei “corrotti giudici democratici” – è tutto nella sua simbolica teatralità. Checché ne abbiano scritto il New York Times e i retroscenisti dei media amici in Italia, il destino di Cecilia Sala parrebbe proprio non essere stato il motivo vero del colpo d’ala con cui la premier ha preso in contropiede tutti, amici e avversari, imbarcandosi sull’aereo di stato destinazione Palm Beach. Se ne sarà parlato, certo, ma la delicatissima complicatezza della vicenda non è roba da trattativa amicale tra massimi leader.

Trump e Meloni a Mar-a-Lago

Secondo il giornale americano l’italiana avrebbe “premuto in modo aggressivo” per ottenere la promessa che l’interlocutore faccia qualcosa una volta entrato nello Studio Ovale, ma l’unico “qualcosa” al momento ipotizzabile sembrerebbe un atto presidenziale di rinuncia all’estradizione dell’ingegner Mohammed Abedini, sulla base magari di una mediazione con gli iraniani dell’onnipotente factotum Elon Musk, che ha già preso i suoi contatti con gli emissari di Teheran nella disprezzatissima (da lui e da Trump) sede dell’ONU. Ovvio, quindi, che prima del 20 gennaio non se ne possa fare nulla e intanto il dossier non può che restare oggetto di coperto lavorìo di servizi e diplomazie.

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Stando alle foto e alle scarse comunicazioni ufficiali alla cena, alla proiezione e quindi ai colloqui con Meloni ha partecipato, insieme con il futuro Segretario di Stato Marco Rubio, il consigliere alla sicurezza designato Mike Waltz, l’ambasciatrice italiana e il futuro ambasciatore statunitense in Italia, anche Scott Bessent, il miliardario mago degli hedge funds cui The Donald affiderà formalmente dopo il 20 gennaio la guida del Tesoro. Una presenza che avvalorerebbe le illazioni su un altro possibile scopo della mission a Mar-a-Lago di Meloni: cominciare almeno a discutere la spinosissima questione dei dazi con cui la futura amministrazione di Washington intenderebbe riequilibrare le bilance commerciali non tanto con l’Europa in quanto Unione quanto con ogni singolo paese europeo preso da solo.

La presidente del Consiglio ha evocato il dossier? Non lo sappiamo e probabilmente non lo sapremo. Come non sappiamo se la presenza di Rubio e di Waltz sia stata occasione di almeno un primissimo scambio di battute sull’altra fissazione del futuro presidente e del suo governo: l’aumento delle spese militari che Washington chiederà ad ogni alleato europeo della NATO fino alla fantasmagorica soglia del 5% dei bilanci nazionali.

Insomma, è inutile mettersi alla ricerca dei contenuti di questo secondo incontro – dopo quello informale avvenuto alla cerimonia per la riapertura di Notre Dame – tra la leader della destra italiana e il futuro presidente degli Stati Uniti. Il suo significato è tutto nel paradigma abbozzato all’inizio, il quale si fonda su due presupposti che sono apparsi piuttosto chiari nelle enunciazioni e nelle prime mosse politiche del presidente designato e del suo (per ora) fedele interprete pratico e ispiratore teorico Elon Musk.

Dimenticare l’Unione europea

Il primo è il non riconoscimento di fatto dell’Unione europea. Nella visione del futuro capo della Casa Bianca i rapporti politici ed economici vanno stabiliti su una base bilaterale con ogni singolo paese saltando del tutto il livello delle istituzioni di Bruxelles. La cosa, peraltro, sembrerebbe obbedire a un principio generale che, riconoscendo solo i livelli di sovranità nazionali, riguarderebbe tutte le entità sovranazionali, compresa l’ONU, l’OMS, gli organismi multilaterali per la tutela dell’ambiente e il clima e via elencando fino alla NATO, nella quale com’è evidente Trump considera una gerarchia di potere in cui gli Stati Uniti hanno una predominanza assoluta, ben più forte di quella consolidata fino ad oggi.

Ci si può chiedere se e fino a che punto questo assunto sia stato riconosciuto e accettato da Giorgia Meloni e, eventualmente, da altri capi di governo europei. Sta di fatto, comunque che, almeno finora, in nessun modo l’italiana ha coinvolto le istituzioni europee, Commissione, Parlamento e Consiglio, nel suo dialogo con Trump. Neppure la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che peraltro in questi giorni è chiusa in casa per una polmonite, sarebbe stata avvertita della visita in Florida. Questa circostanza contraddirebbe il luogo comune secondo il quale con i suoi “buoni rapporti” con Trump Meloni rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra Washington e Bruxelles. La realtà parrebbe essere una certa tendenza dell’inquilina di palazzo Chigi a considerare preminente nei rapporti con la futura amministrazione americana piuttosto la tutela degli “interessi nazionali” secondo il mantra cui obbedisce, notoriamente, anche nell’atteggiamento verso le istituzioni europee.

Il secondo presupposto, molto percepibile negli atteggiamenti di Musk, è la scelta degli interlocutori in Europa. Hanno fatto scandalo gli endorsement in favore dei neonazisti in Germania, talmente sfacciati da provocare non solo le proteste ufficiali del governo di Berlino per l’ingerenza nella campagna elettorale, ma anche una chiara (e si spera sincera e definitiva) presa di distanza da parte del capo della CDU, Friedrich Merz, il quale ha ottime chances di essere il futuro cancelliere dopo le elezioni del 24 febbraio. Ma le affinità elettive non riguardano solo il paese di Goethe, dove il padrone di X prepara una nuova mossa a effetto con una preannunciata intervista ad Alice Weidel, copresidente di Alternative für Deutschland.

A parte l’ungherese Viktor Orbán, precursore di Meloni tanto negli abbracci a Trump quanto nel praticarli in proprio senza curarsi dell’Unione europea di cui esercitava la presidenza di turno del Consiglio, il team del miliardario cura particolarmente i rapporti con altri leader dell’estrema destra come l’olandese Geert Winters e l’agitatore della Brexit Neil Farage, che negli ultimi giorni avrebbe però abbandonato a favore di un altro candidato alla guida del partito, Tommy Robinson, condannato e imprigionato per propaganda violenta anti-islam. Intanto, contro il premier britannico Keir Starmer è stata scatenata tutta la potenza di fuoco del social di Musk, con una serie di pesantissime accuse sul suo comportamento nei confronti di gang di immigrati quando era magistrato, e la pressante richiesta a re Carlo III di rimuoverlo.

Dietro questa sconcertante ricerca di una corte dei miracoli eversiva nella quale Meloni rappresenterebbe, per così dire, l’elemento “moderato” si intravede un disegno raffinato. Prese particolarmente di mira sono due democrazie parlamentari classiche, come quella della Repubblica federale e del Regno Unito. Quest’ultimo è fuori dall’Unione europea ma il modello della Rule of Law e dello stato di diritto che ne è a fondamento è anche la base dei valori e dei meccanismi istituzionali dell’Europa comunitaria. Gli uomini che si preparano a governare il più importante paese dell’occidente sembrano intenzionati a fare la guerra all’Europa e sarebbe importante capire da che parte si schiererà il governo dell’Italia.

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