la lezione che arriva dal Sahel

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Mai come oggi è evidente l’affanno delle diplomazie nell’affrontare crisi regionali che sono solcate da guerre sanguinose: conflitti armati che continuano ad alimentarsi, approfondirsi ed espandersi. In questo contesto di escalation che pare generalizzata, emerge una riflessione sempre più urgente: a nessuna latitudine la retorica della vittoria e le risposte militari stanno portando alla pace, mentre i combattimenti preparano il terreno per nuove ondate di radicalizzazione ed estremismo. Ovunque si guardi, l’impiego massiccio della forza, anche quando sostenuto dall’innovazione tecnologica, non ha fermato la violenza.

In Africa occidentale a settembre è stato sferrato un duro attacco armato nella capitale del Mali, Bamako. Era dal 2015 che non accadeva: sono stati assaltati l’aeroporto internazionale Modibo Keita e una scuola della gendarmeria non lontana dalla capitale. Il gruppo jihadista Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimin (Jnim) appartenente alla galassia qaedista ha rivendicato l’attacco che, secondo l’organizzazione, ha provocato almeno 77 morti e oltre 255 feriti.

I limiti dell’approccio militare

L’attacco è stato una dimostrazione di forza del gruppo insorgente che, così come lo Stato islamico nel Sahel, controlla un ampio territorio in Mali, Niger e Burkina Faso. Da più di un decennio, gli sforzi locali e internazionali per rispondere alla sfida jihadista nel Sahel sono stati di carattere puramente militaristico e coercitivo, con un successo a dir poco limitato.

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Infatti, le operazioni di controterrorismo sponsorizzate da Francia, Unione Europea e Stati Uniti, non hanno contenuto l’espansione jihadista, generando forte frustrazione da parte dei militari locali. Anzi, hanno ottenuto l’effetto opposto: generando simpatia per la Russia, che ha trovato spazio per inviare proprie truppe mercenarie (Wagner, poi diventata Africa Corps) al fianco delle giunte militari instauratesi nella regione saheliana fra il 2020 e il 2023.

In Mali e in Niger le risposte militari all’insorgenza jihadista hanno alimentato sentimenti di vendetta e risentimento verso quello stesso stato le cui forze armate hanno colpito indiscriminatamente civili. In Burkina Faso, le milizie governative hanno preso di mira specifici gruppi etnici, come i Peul, accusati di sostenere i jihadisti, intensificando conflitti che hanno spinto i membri delle comunità a unirsi ai gruppi armati per protezione o vendetta.

Le operazioni militari hanno portato anche alla distruzione di infrastrutture aggravando la crisi umanitaria e rendendo alcune aree più vulnerabili al reclutamento da parte di gruppi jihadisti, che sfruttano la mancanza di servizi e sostegno da parte dello Stato per guadagnare consenso locale. La percezione di sottostare ad un’occupazione straniera o ad operazioni militari sponsorizzate da attori esterni ha legittimato la narrazione jihadista secondo cui l’insurrezione è una forma di resistenza contro invasori stranieri e governi collaborazionisti.

In questo contesto, i russi sono stati salutati come genuinamente interessati a riportare l’ordine, e prevedibilmente hanno perseguito a loro volta un’agenda di controinsorgenza che, dopo qualche sporadico successo tattico, ha finito per esacerbare ulteriormente le tensioni e aumentare la violenza nei confronti della popolazione civile, come testimoniato da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch.

Le dinamiche del conflitto con formazioni jihadiste nel Sahel hanno una rilevanza che va al di là della regione africana. Quanto di quello che succederà in Medio Oriente è già stato scritto? Se il controterrorismo storicamente tende a creare più terroristi di quanti ne elimina, possiamo aspettarci delle recrudescenze.

Sono 1700 i combattenti o simpatizzanti di Hezbollah evirati o amputati. Più di 95mila i feriti tra Gaza e Cisgiordania, che hanno perso un braccio, una gamba, ma soprattutto qualche parente, amici, affetti. Che tipo di risentimento potranno nutrire dopo anni di guerra percepita come ingiusta, asimmetrica e totale?

Una scelta pragmatica

In un contesto come questo, aprire al dialogo allora potrebbe essere non solo una scelta umanitaria ma anche quella più pragmatica.

E infatti, nonostante il mantra pubblico sia sempre stato quello del «coi jihadisti non si dialoga» e «al terrorismo non si concede niente», molto spesso con i jihadisti si è dialogato e al terrorismo è stato concesso, anche se all’ombra, anche se lontano dai riflettori pubblici. Negli ultimi dieci anni, vari tentativi di dialogo con i gruppi jihadisti sono stati portati avanti, riducendosi poi di intensità dopo l’ascesa delle giunte militari.

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Nel Sahel centrale, i tentativi di dialogo con i gruppi jihadisti affondano le radici nel 2012, quando il Mali ha esplorato più vie di negoziazione con Ansar al-Din, capeggiato da Iyad ag Ghali, ora leader di Jnim. Tra gli sforzi più significativi, quelli dell’imam salafita Mahmoud Dicko, che viaggiò nel nord del Mali, e l’iniziativa di Blaise Campaoré, allora presidente del Burkina Faso, che riuscì a incontrare personalmente ag Ghali. Nel frattempo, l’Algeria ospitò una delegazione di Ansar al-Din, culminando negli Accordi di Algeri del 2015, che misero fine alla ribellione tuareg nel nord del paese.

Nonostante nessun cessate il fuoco definitivo, questi tentativi di dialogo divisero il movimento jihadista e portarono al recupero di alcuni dei suoi membri moderati. Il 2020 ha visto nuovi sviluppi: colloqui tra il gruppo jihadista Katiba Macina e milizie locali hanno portato a un accordo di pace, mentre discussioni con l’esercito maliano hanno facilitato uno scambio di ostaggi.

Anche il Burkina Faso ha ammorbidito la sua posizione sul dialogo con i jihadisti nel 2022, sebbene non si sia mai giunti a un negoziato formale ma, nel breve termine, i funzionari aprono linee di comunicazione dirette con gli insorti e ottengono un cessate il fuoco temporaneo in vista delle elezioni presidenziali di quell’anno. In Niger, lo stesso anno, l’ex presidente Mohamed Bazoum ha liberato prigionieri e inviato emissari nelle zone più colpite, una mano tesa per indicare la disponibilità e l’apertura al dialogo del suo governo.

Impossibile poi non citare “modello mauritano”: tra il 2009 e il 2011, la Mauritania ha avviato un processo di dialogo religioso con i jihadisti nelle carceri per comprendere le ragioni alla base della radicalizzazione e reintegrare i detenuti nella società, che si è rivelato fondamentale per arginare la minaccia terroristica nel paese.

E si potrebbe poi andare avanti, al di là dei confini dell’Africa occidentale, e citare la recente apertura del governo somalo ad avviare un dialogo con al-Shabaab, mediato dal Qatar, secondo un modello simile a quello che ha ispirato i negoziati con i Talebani in Afghanistan. O si potrebbe tornare indietro nel tempo, e citare il dialogo che nel 1997 contribuisce a porre fine alla guerra civile in Algeria e che, pur non includendo attori chiave come il Gruppo Islamico Armato o il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, permette di “recuperare” un alto numero di ex-combattenti, contribuendo così alla pace.

Un’alternativa da cercare 

Ci potremmo allora chiedere cosa ne sarebbe oggi delle insorgenze jihadiste nel Sahel se alle prospettive di dialogo fosse stata data più fiducia. E ci potremmo anche chiedere cosa ne sarà domani di Hezbollah e di Hamas, del Medio Oriente nel complesso, se la violenza bruta rimarrà il canale esclusivo di engagement con il terrorismo.

È evidente come nel contesto delle recrudescenze violente sia in Medio Oriente che nel Sahel, gli approcci militari non abbiano portato a soluzioni durature, alimentando spesso nuove ondate di radicalizzazione e risentimento. Il dialogo, per quanto complesso e spesso ostacolato, potrebbe rappresentare un’alternativa indispensabile per delineare percorsi di stabilità.

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Riconoscere il valore e la possibilità di un ingaggio che vada al di là della violenza, anche con attori considerati spesso irrecuperabili, potrebbe essere non solo una scelta più etica, ma anche una chiave più pragmatica per uscire dall’impasse di una serie conflitti che, per ora, rimangono irrisolti.

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