i 10 anni che hanno cambiato l’automobile

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L’inizio della fine ha un nome, ma anche una data e un luogo. Nell’ordine: Dieselgate, Settembre 2015, Salone dell’Automobile di Francoforte. Con una coincidenza probabilmente non casuale, proprio il tempio dove si celebrava il rito pagano del motorismo mondiale fece da sfondo alla deflagrazione dello scandalo più clamoroso della storia dell’auto.

Alle accuse dell’Epa (Environmental Protection Agency) provenienti dagli Stati Uniti, il Gruppo Volkswagen rispose spiegando la discrepanza tra le emissioni registrate in fase di omologazione e quelle misurate in corso di marcia ammettendo di aver inserito nel software delle sue vetture un meccanismo che in fase di test consentiva di abbattere i livelli di ossidi di azoto (NOx). In pratica, avevano “truccato” la centralina dei loro motori a gasolio per rientrare nei limiti di emissioni consentite.

Scoppiava il cosiddetto “Dieselgate”, la tempesta che travolse Volkswagen ma anche tutta l’industria automobilistica mondiale (e soprattutto europea) perchè di fatto mise fuori gioco uno dei propulsori considerato più inquinante, ma nella realtà anche più efficiente e meno impattante dal punto di vista c lima-alterante. Accelerando così, e in maniera scriteriata, una transizione energetica certamente necessaria, ma costosissima. Per i costruttori e ancora più per il pubblico, spinta ossessivamente dal governo europeo che non si accorse dei danni che stava provocando a se stesso puntando esclusivamente sulla tecnologia elettrica – in mano alla Cina – e annientando i motori termici che avevano portato l’industria del nostro continente a livelli di eccellenza e di occupazione mai raggiunti prima.

Il bersaglio: non un motore ma l’auto stessa

Dieci anni dopo, si può ragionare con basi più solide sul fatto che la tempesta perfetta che si è abbattuta sull’automobile abbassando la produzione, aumentando i prezzi medi a livelli insostenibili per molti, causando la perdita di migliaia di posti di lavoro e mettendone a rischio altrettanti in futuro, è l’effetto di più ragioni. E non solo della svolta elettrica frettolosamente imposta dall’alto con lo stop alla commercializzazione di vetture nuove con motore tradizionale a partire dal 2035, scadenza al momento ancora in vigore nonostante molti ripensamenti che potrebbero farla slittare.

Come è anche più chiaro che la scintilla che ha scatenato l’incendio avrebbe dovuto chiamarsi “Volkswagen-gate” limitando le responsabilità ai colpevoli di quello che era e resta un reato industriale, anziché scaricarle su una tecnologia e sulla supremazia dei motori europei. In questo, sono stati bravi i “mandanti” occulti o (nella migliore delle ipotesi) chi ne ha approfittato. Come la Cina. E il partito anti-auto, formato da ecologisti integralisti che ha infierito su un settore fiaccato dallo scandalo, indebolito dal senso di colpa, abbandonato dalla politica e incapace di reagire se non accelerando addirittura la corsa verso l’elettrico, nonostante il mercato non abbia accettato il passaggio a una tecnologia più costosa, “faticosa” ed elitaria dal punto di vista della sua fruibilità.

Dal Covid l’automobile non è mai guarita

Il lockdown causato dal Covid del 2020 è stata la mazzata successiva. La crisi e l’immobilità determinate dalla pandemia hanno spinto a far ritardare l’acquisto di auto nuove, anche e soprattutto da chi già un’auto la possedeva e non ha ritenuto indispensabile cambiarla.

Dopo il panico e le misure d’emergenza, anche l’offerta è calata a causa della mancanza di alcuni componenti elettronici (i cosiddetti chip), e i costruttori hanno scelto di rimediare alla mancanza di volumi di vendita con l’aumento della redittività, alzando i prezzi. Una situazione paradossale che ha congelato il mercato, reso ancora più difficile dalla crisi dei trasporti marittimi internazionali e dai blocchi della componentistica cinese causata dalla prolungata chiusura delle fabbriche locali fino al 2021 inoltrato.

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Una linea di produzione di auto in Cina

Una linea di produzione di auto in Cina – IMAGOECONOMICA

A febbraio dell’anno successivo l’Ucraina invasa dalla Russia fece scoprire al mondo dell’auto che proprio da quella nazione arrivavano un buona parte dei cavi elettrici utilizzati nelle vetture. Terribile l’equazione successiva: meno auto disponibili uguale produzione sbilanciata sui modelli più costosi, quelli cioè che garantiscono più margini a chi li costruisce. Quindi fine (o quasi) delle city-car, mercato più popolare per i clienti privati ma che per i costruttori erano prodotti quasi in perdita, eliminazione degli sconti, e vetture a “km zero” quasi introvabili.

La congiunzione di questi fenomeni ha fatto lievitare il costo delle auto. Se nel 2019 il prezzo medio di una vettura era di 21.000 euro, nel 2023 ha sfiorato i 29.000. Con la scomparsa di modelli sotto i 14.000. Così il noleggio ha sostituito l’acquisto di proprietà in percentuali esponenziali, mentre le aziende hanno allungato i tempi dei cicli di sostituzione delle loro flotte, a causa degli aumenti dei listini e dell’incertezza relativa alle motorizzazioni imposte dall’Europa.

Lo spettro delle multe e i calcoli sbagliati

Già nel 2018 infatti, l’Unione Europea aveva stabilito che a partire dal 2020 ogni Gruppo automobilistico avrebbe dovuto contenere le emissioni di CO2 medie delle auto vendute entro il tetto di 116 grammi al km, limite che si abbasserà ulteriormentnel 2025 (94g/km) e ancora nel 2030. Per ogni grammo in eccesso, la Commissione avrebbe comminato una multa di 95 euro moltiplicati per il numero di vetture immatricolate. Secondo calcoli verosimili, ogni Gruppo avrebbe dovuto vendere almeno 4 auto 100% a batteria (e quindi a zero emissioni allo scarico) ogni 10 per soddisfare questi parametri. Nella prospettiva dello stop alla produzione di veicoli termici dal 2035, la Case sbagliarono clamorosamente i loro calcoli accettando questi limiti senza reagire e confidando che i clienti le avrebbero assecondate nell’acquisto. Cosa che non è avvenuta, visto che oggi le elettriche pure hanno raggiunto solo il 17,5% in Europa e il 4,1% in Italia sul totale.

Lo scenario per il 2025: occupazione a rischio

Quello che si è appena aperto è dunque un anno decisivo e cruciale. Se le multe fossero confermate, quasi tutti i Costruttori saranno obbligati a comprimere le vendite di vetture termiche per raggiungere in modo artificioso quel 22-25% di immatricolato elettrico necessario a scansarle. Con un prevedibile e drammatico calo delle immatricolazioni a livello europeo che gli analisti stimano in 3 milioni di unità. E con ovvie conseguenze a livello di occupazione nel settore in stabilimenti che già ora marciano al rallentatore, con chiusure già avvenute ed altre preventivate.

Alla mancata produzione di valore, di Pil e di gettito fiscale si aggiungerebbe dunque una forte crisi occupazionale, con l’automotive del Vecchio Continente stritolata tra il protezionismo americano e l’espansionismo cinese sempre più marcato.

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Ma le conseguenze sono diventate fatti anche prima del verificarsi di questi scenari negativi, con una decisa sterzata industriale verso le aggregazioni e il consolidamento, come testimonia quanto sta accadendo in Giappone. Nissan e Honda infatti sono sul punto di unirsi, con lo scopo di creare (assieme alla Mitsubishi) il secondo polo automotive giapponese dopo quello guidato dalla Toyota.

In Italia invece si attende di vedere in pratica quanto annunciato recentemente da Stellantis con il suo progetto industriale presentato al governo da Jean-Philippe Imparato dopo l’addio di Carlos Tavares. C’è fiducia da parte degli operatori ma le basi su cui ripartire sono comunque negative, visto che Stellantis ha immatricolato in Italia nel 2024, secondo le elaborazioni di Dataforce, 452.615 auto (-9,9% sul 2023) e la quota di mercato si è attestata al 29%, in calo del 3% rispetto al 2023.

«Invece di erogare multe miliardarie, l’Unione europea – sostiene Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor, che analizza l’andamento per i concessionari – dovrebbe prevedere aiuti alle case automobilistiche, tali da compensare i danni prodotti dalla politica adottata dall’Unione nella transizione energetica». Una prospettiva che resta tuttavia ancora aleatoria.





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