Il 2025 è già iniziato da alcuni giorni, ma sarà da domani che, per la maggioranza degli italiani, comincerà davvero il nuovo anno. Domani, infatti, per tanti le vacanze finiranno e si tornerà a una vita più regolare fatta di traffico e scrivanie, scuole e fabbriche, mezzi e uffici pubblici. Sarà allora che a molti il nuovo anno comincerà davvero a somigliare a quello precedente – e, per molte persone, anche a diversi altri prima ancora.
Immagino che, leggendo queste righe, non pochi abbiano provato un certo disagio; per non dire una sensazione di tristezza o persino di angoscia. D’altronde, pare che addirittura un lavoratore italiano su quattro odi il proprio lavoro, mentre due su tre lo mal sopportano. E, a pensarci bene, rimane stupefacente quanto poco tutto questo ci sorprenda e ci preoccupi: quasi che un così diffuso disagio non abbia anche serie conseguenze sulla società tutta, dalla politica all’economia, dalla cultura alla salute.
Forse non ci curiamo di tutto questo disagio perché ci appare scontato: è il lavoro che, salvo eccezioni, è intrinsecamente faticoso, tedioso, ostile all’umano. E quindi non c’è tanto da discutere: se le persone sono scontente di lavorare è per via di quello che sono costrette a fare per ottenere una remunerazione che gli consenta di vivere. Il problema, quindi, è cosa si fa al lavoro – e, eventualmente, in che modo. E infatti il dibattito sul lavoro è quasi completamente centrato su aspetti come la sicurezza o gli stipendi; oppure sullo smart-working e sull’impatto delle nuove tecnologie.
Concentrandosi tanto sul cosa facciamo e sul come lavoriamo rischiamo però di trascurare altri due fattori, probabilmente anche più importanti. Il primo è il perché, ovvero le motivazioni profonde che ci spingono a lavorare – oltre a portare a casa uno stipendio, ovviamente. Ma di questo, bisogna dire, dalla pandemia in poi si è cominciato a ragionare con più assiduità – anche su questo blog, e a più riprese. Un aspetto però forse ancora più trascurato è un altro: con chi lavoriamo.
Il lavoro, d’altronde, è soprattutto un fenomeno collettivo: tutti dobbiamo far affidamento sul lavoro di altri per svolgere il nostro. E questo è tanto più vero in un sistema economico e produttivo incredibilmente complesso come quello odierno, in cui a quasi tutti noi viene chiesto di svolgere un pezzettino di lavoro in catene del valore lunghissime e in mercati che oramai hanno i confini del globo.
Tuttavia, essere in relazione in un processo produttivo non vuol dire esserlo come persone. Partecipare alla creazione di valore economico non significa necessariamente creare valore sociale. E anzi, più il progresso tecnologico avanza, e più il modello capitalistico si diffonde e si impone, più le due cose si vanno scindendo. Oggi siamo in grado – e anzi, sta diventando la normalità – di produrre prodotti e servizi estremamente avanzati e sofisticati senza il bisogno di aver poi molto a che fare l’uno con l’altro.
La tecnologia e i processi industriali a ben vedere sono anche e soprattutto filtri per le relazioni; sono strumenti e metodi che si frappongono tra le persone, rendendo per loro più semplice produrre risultati ma anche più difficile confrontarsi. Allo stesso tempo, il capitalismo spinge naturalmente verso l’atomizzazione sociale, l’indebolimento dei corpi intermedi, l’individualismo dei consumi e dei comportamenti, perché è in questo modo che diventa sempre più produttivo ed efficiente.
Il vero dramma è che tutto questo ci sembra funzionale, per non dire desiderabile. Perché promette di alleviarci da problemi e conflitti; ci illude di poter evitare il confronto e aggirare le sfide; o quanto meno di poterle ridurle e confinare, per poi consolarci avvolgendoci in una coltre di piaceri fisici e di intrattenimento – e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno in un mondo così complicato e spaventoso.
Viviamo in un’epoca in cui, tra social e AI, ci viene promesso di poter produrre un report senza fare alcuna ricerca; di svolgere un progetto senza tenere alcuna riunione; di fare amicizie senza stringere alcuna mano; di ordinare una pizza senza dover nemmeno parlare o incrociare lo sguardo; di trovare e mollare un partner senza incontrarlo. E tutto questo è suadente, perché relazionarsi con i problemi – ma soprattutto con le persone, che sono ben più complesse – è faticoso. Anzi, di più: è spaventoso.
Sartre diceva che “l’inferno sono gli altri”. Perché ci mettono in difficoltà, ci fanno sentire inadeguati, ci fanno arrabbiare e ci deludono. L’altro è alienante, disturbante, conturbante. È paralizzante perché ci costringe ad essere una sola persona per qualcun altro, mentre noi vorremmo essere o sentiamo di essere molto di più. Ma proprio per questo l’altro è prezioso: perché ci obbliga a metterci in discussione.
Questo però è sempre stato vero: cosa c’è di diverso oggi? Appunto che le relazioni sono meno obbligate, e quindi più fastidiose. Se qualcosa di faticoso e impegnativo diventa evitabile, infatti, è più difficile tollerarlo. Perché devo confrontarmi con gli altri se posso fare da solo? Perché devo impegnarmi se la macchina può fare per me? Le persone e le sfide diventano un fastidioso orpello; ciò che ci impedisce di dedicarci a cose più piacevoli e produttive.
Tutto questo diventa più evidente nel lavoro che, come abbiamo visto, è già considerato di per sé un ambito spiacevole della vita. E quindi ecco la diffusa insofferenza verso le riunioni, la spinta crescente verso lo smart-working, il fastidio dilagante verso colleghi e soprattutto superiori che ci costringono ad avere un confronto, o persino un conflitto. Se proprio dobbiamo lavorare – ci viene da pensare – almeno ci venga consentito di farlo in santa pace.
Ma la pace non è la serenità. La felicità non è il piacere. E una vita semplice, senza sforzi o problemi, senza conflitti o sfide, non è una vita realizzata. Perciò il lavoro, lo sforzo, la relazione, è sì anche sgradevole, ma è necessario per stare bene – e non solo per sopravvivere. Anzi, se fatto insieme e per una buona causa, il lavoro diventa un potente motore di senso e soddisfazione. Anche quando è materialmente sgradevole e penoso.
Si pensi a quando, dopo un’alluvione, tutti – o quasi – scendono in strada per spalare fango; a quanto, anche nella tragedia e nella disperazione, nel sudore e nella polvere, nelle imprecazioni e nelle discussioni, ci si possa sentire bene. Oppure a quando c’è un’emergenza in azienda o in fabbrica, e per un breve periodo tutti si danno una mano e si ingegnano per cercare di risolvere un problema che coinvolge tutti.
La nostra grande forza, come specie, è proprio la capacità di collaborare – specie nelle situazioni difficili e pericolose. L’anno che abbiamo davanti si preannuncia, per tanti aspetti, molto difficile: non possiamo pensare di affrontarlo “da soli”. Abbiamo assoluto bisogno di riscoprire e rivalutare la dimensione sociale del lavoro: anche se costa fatica e provoca fastidio; anche se se sembra “l’inferno”. Dobbiamo tornare a collaborare davvero, cioè a lavorare insieme. Altrimenti, il rischio è trovarci non solo più a rischio come collettività, ma anche più soli come individui.
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