Il più grande disastro ferroviario della storia della Lombardia, a pochi giorni dalla morte di Fausto Coppi e Albert Camus. Il bilancio di 17 morti e oltre 100 feriti. Il dolore di Buzzati: «Cosa fai, 1960? Sei appena nato e ci procuri già così tanti dispiaceri»
La morte entra soprattutto dai finestrini. In fondo le carrozze sono proletarie ma solide. Dalle ambizioni liberty quelle di prima classe, squallide ma tutto sommato robuste quelle di seconda, e chissà come sarebbe andata a finire se le vetture fossero state più leggere. Dopo lo schianto la coda del treno rimane intatta ma questo non garantisce protezione a Elio Sangiorgio, proiettato fuori dal convoglio con ancora in mano il libro – le pagine segnate con cura, i passi più importanti sottolineati – sul quale studiava per le lezioni serali, lui che ogni mattina si recava a Milano per lavorare.
La morte entra dai finestrini alle 8.05 del 5 gennaio 1960, a Monza, in un martedì brianzolo più nebbioso di altri, irrompendo nel diretto 341 partito da Sondrio alle 5.05 e atteso a Milano per le 8.10, a poche centinaia di metri dall’ultima fermata monzese prima di portare a destinazione universitari e lavoratori.
Il «treno operaio»
Sul «treno operaio», come lo avevano soprannominato gli 800 pendolari – alcuni stipati persino nel bagagliaio del convoglio – la maggior parte dei quali attesi da una giornata di fabbrica nella Stalingrado d’Italia di Sesto San Giovanni, gli argomenti principali riguardano l’eredità economica del testamento di Fausto Coppi, scomparso tre giorni prima a causa della malaria, e quella culturale dello scrittore Albert Camus, ucciso da poche ore in un incidente d’auto in Borgogna («Cosa fai, 1960? – lamenta sul Corriere Dino Buzzati –, sei appena nato e ci procuri già così tanti dispiaceri»).
Poi un boato riduce tutti al silenzio. Arrivato all’altezza del cavalcavia di viale Libertà, il treno deraglia e precipita per otto metri, andando a sfondare un capannone di un vicino stabilimento industriale. Il locomotore e due vagoni penetrano all’interno della storica fabbrica monzese Borghi, sbriciolandone il muro di cinta e rovesciandosi. Doveva transitare a passo d’uomo, è arrivato a novanta all’ora.
Lo studente lavoratore, il parroco, la mamma vedova
Il bilancio è una sentenza. Quindici morti – poi diventeranno 17, altre due persone spireranno in ospedale – e centotrenta feriti, il più grave disastro ferroviario della storia della Lombardia, in grado di fare impallidire anche il disastro di Codogno del 1957, quando a perdere la vita nello schianto contro il pilone di un ponte furono in quattordici e i feriti «soltanto» 38. Ai soccorritori la scena che si presenta è apocalittica, le pareti delle carrozze sono macchiate del sangue dei pendolari sballottolati all’interno delle vetture e dai tuorli delle uova che i contadini brianzoli stavano portando ai mercati di Milano.
Il dramma non risparmia nessuno. Accanto allo studente Sangiorgio giace il cadavere del parroco di Dervio, Don Giuseppe Caffulli, partito dal piccolo comune lecchese e diretto a Gaggiano per vedere la mamma morente. Ha ancora la stola dorata al collo. Pochi minuti dopo la tragedia, anche la mamma si spegnerà. C’è Alessandra Mazzola, madre di due bambini, diretta alle acciaierie Falck per il suo primo giorno di lavoro, che aveva chiesto e ottenuto di essere assunta al posto di suo marito Luigi Colombi, scomparso appena un mese prima.
E c’è anche il macchinista Pierino Vacchini, 59enne milanese, trovato stritolato, ancora al posto di comando forse nel tentativo di un’ultima disperata manovra, l’unico in grado di dire perché la locomotrice abbia continuato a marciare anziché rallentare in corrispondenza del cavalcavia, quando molti dei passeggeri si erano alzati per mettersi il cappotto, trovandosi ormai in prossimità della stazione di Monza.
Sangue e tuorli d’uovo
La scena che si presenta ai primi soccorritori è agghiacciante. Sul posto accorrono polizia, carabinieri, vigili del fuoco, un centinaio di medici, quaranta infermieri con cinquanta autolettighe. Volontari, tanti. Il viadotto è crollato, ovunque sono disseminati i resti dei vagoni, la nebbia rende la scena ancora più desolante. La maggior parte delle vittime è concentrata nella carrozza attaccata alla motrice, là dove inspiegabilmente le luci all’interno dei portalampade liberty funzionano ancora, rischiarando le riviste popolari, le lamiere accartocciate, i calcinacci e le schegge di legno, le valigie sparpagliate e il velluto grigio dei sedili macchiato di rosso.
I passeggeri superstiti a gridano aiuto e piangono i compagni di viaggio scomparsi. «Eravamo in sei, ogni mattina venivamo a Milano a lavorare – racconta la superstite Margherita Radaelli, ragazza di Usmate, al giovane cronista e futuro direttore del Corriere della Sera Alberto Cavallari -, come ogni giorno si chiacchierava e si leggeva. Poi d’un tratto si è sentito lo strattone della franata, siamo finiti gli uni contro gli altri. Poi un gran fracasso, odore di gas, vapore. Si sentiva urlare da ogni parte. Io ho solo capito di essere viva».
Tutti, i vivi e i morti, vengono trasportati all’ospedale di Monza, trasformatosi in una sorta di infermeria da campo; il viavai delle ambulanze prosegue fino alle quattro del pomeriggio. Parte la conta dei morti, uno, due, tre, all’inizio si teme una strage, i primi bollettini parleranno di oltre trenta vittime, alla fine saranno poco più della metà. Mancano sangue e plasma, servono trasfusioni, dall’ospedale monzese giunge l’appello a tutti i donatori della zona. La notizia nel frattempo giunge a Milano, sul posto arrivano il prefetto Vicari, il questore Lo Castro. Il presidente della Repubblica Gronchi non si vede, è a letto con l’influenza che lo ha costretto ad annullare la sua visita moscovita a Nikita Kruscev e affida le sue condoglianze a un telegramma, al pari del premier Antonio Segni. Il cardinale Montini, non ancora papa Paolo VI, benedice morti e feriti. Anche Giovanni XXIII invita tutti a pregare per le vittime dell’incidente.
La nebbia e l’errore del macchinista
Le cause dell’incidente all’inizio sono un mistero ma i sospetti convergono subito sull’errore umano. Il convoglio, che avrebbe dovuto procedere sul viadotto a passo d’uomo, vi è transitato invece all’insensata velocità di 90 chilometri orari, come rilevato dall’ago del tachimetro sequestrato nel locomotore semidistrutto. Ma, come testimoniato tra gli altri dagli operai del vicino pastificio Ausonia, a pochi passi dal luogo della tragedia, quella mattina c’era nebbia, fitta, fittissima. Una coltre che – delibererà l’inchiesta affidandosi alla più plausibile delle spiegazioni – induce in errore il ferroviere, che pure era uomo di esperienza, facendogli perdere la cognizione dello spazio e impedendogli di vedere il segnale di rallentamento in prossimità dello scambio sul quale vengono dirottati i binari di corsa prima del cantiere, che modifica la traiettoria dei convogli facendogli imboccare una strettissima curva a «S» del raggio di poco più di cento metri. Quando il macchinista Vacchini capisce che qualcosa non torna è troppo tardi, e la frenata di emergenza non fa altro che sbilanciare il treno ancora di più. Il convoglio vola via.
Pochi giorni prima, sempre a causa della nebbia, un altro treno era transitato a velocità sostenuta sullo scambio, ma in quel caso il conducente aveva avuto l’accortezza di non azionare la frenata rapida, riuscendo a superare indenne il cavalcavia. Questa volta no.
«Voglio morire», racconterà agli inquirenti l’aiuto macchinista Andrea Giuliano, sopravvissuto all’impatto. Sostiene di aver detto più volte a Vacchini di rallentare in vista dello svio, dice di averlo spinto via dal posto di guida una volta superata la vela di segnalazione della stazione di Monza, e solo lui e Dio possono sapere se il racconto corrisponde al vero, Vacchini è morto, stritolato dalle lamiere, lui di certo non può replicare. Quel che è certo è che in cabina di manovra erano tutti sobri, gli esami tossicologici escludono che i ferrovieri avessero bevuto prima di compiere quell’assurda manovra.
Cinquantamila sfilano davanti alle bare
I funerali vengono celebrati la mattina del 7 gennaio, a spese del Comune di Monza. La camera ardente viene allestita nel salone d’onore della Villa Reale – finestre e lampadari di cristalli velati a lutto -, in poco più di 24 ore davanti ai feretri sfilano 50mila persone, le 15 bare di noce allineate a due metri dall’altra con i coperchi bruniti, sormontati da un crocifisso e da una targa di bronzo con una sola scritta, un nome e un’unica data, «Monza, 5 gennaio 1960», attuale ora come allora, eppure già sessantacinque anni fa.
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