A proposito del XVII centenario del Concilio (325) – Nicea, un Concilio di tutti i cristiani

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Nell’anno appena iniziato, cade il xvii centenario del Concilio ecumenico di Nicea, celebrato nei primi mesi del 325. Il Credo sancito da quel concilio costituisce il dato di fede che accomuna i cristiani di tutte le Chiese: sia le Chiese storiche — Cattolica, Ortodossa, Luterana, Calvinista, Anglicana — sia le varie denominazioni che vanno sotto il nome di Chiese “Evangeliche” e “Pentecostali” (1). Di qui l’importanza ecumenica della celebrazione del centenario. Esso ci offre una occasione unica — che solo a questo punto della storia siamo in grado di cogliere — per prendere atto e per celebrare insieme la fede che accomuna tutti i credenti in Cristo.

L’evento ci offre anche un’altra opportunità, non meno importante della prima: quella di attuare un volo di ricognizione della fede in Cristo nel mondo moderno e post-moderno e vedere a che punto siamo oggi con la fede di Nicea. All’indomani di un concilio locale dominato dagli oppositori di Nicea (Rimini, anno 359), san Girolamo scrisse che il mondo intero, in quella occasione, «emise un gemito e si stupì di ritrovarsi ariano» (2). Dobbiamo domandarci se, per caso, noi non abbiamo oggi più motivo di allora di emettere un tale gemito.

1. Nicea e la divinità di Cristo

Il problema di fondo a Nicea era quello di definire il posto che il Verbo di Dio — e dunque la persona di Gesù Cristo — occupa sul piano dell’essere. Ario ragionava con lo schema filosofico greco del momento, che era quello del “Platonismo di mezzo”. Tale schema era tripartito. Prevedeva l’esistenza di un Essere supremo, di un essere intermedio (il dio-secondo, deuteros theos, corrispondente al demiurgo platonico del Timeo) e infine dell’essere creato. Nicea operò la catarsi di questa visione mitica, stabilendo una sola linea orizzontale sulla verticale dell’essere: quella che separa il Creatore dalle creature, ponendo decisamente il Verbo dalla parte del Creatore.

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Quello che Nicea esige ancora oggi, in forza del suo valore dogmatico, è che in ogni cultura e in ogni linguaggio, Gesù Cristo sia proclamato “Dio”, non in qualche senso derivato, ma nel senso più forte che la parola “Dio” ha in quella cultura, senza alcuno scarto, né ontologico, né cronologico, tra lui e un altro Dio al di sopra di lui, tra il Dio con l’articolo e il Dio senza articolo, tra “Dio” e “divino”. Questo è ciò che afferma, nel modo più chiaro, l’espressione del Credo «Dio vero da Dio vero».

La domanda che il centenario di Nicea costringe a porci è, dunque, questa: che posto occupa Gesù Cristo nella nostra cultura moderna e post-moderna? Lasciamo da parte il mondo della narrativa e dello spettacolo, dove Gesù Cristo continua a essere una “Superstar”. Diamo uno sguardo a ciò che avviene nei tre dialoghi più decisivi, in atto nella nostra società.

Gesù Cristo è rigorosamente assente nel dialogo tra le religioni, e non può che essere così. I temi discussi in questo ambito sono quelli della pace, della povertà, dell’ambiente e, in qualche caso, temi di etica.

Gesù Cristo è assente, in secondo luogo, nel dialogo tra scienza e fede. Questo si limita a discutere se il mondo abbia avuto, o no, un inizio e un creatore. La rivincita della teoria del Big Bang sull’iniziale scetticismo e l’affermarsi della teoria dell’espansione in atto dell’universo hanno reso gli scienziati meno allergici all’idea di Dio; ma Gesù Cristo e il problema della salvezza restano fuori del dialogo su scienza e fede.

Gesù Cristo è assente, infine, nel dialogo tra fede e ragione. Questa si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche e contingenti, come è Cristo nella sua incarnazione.

In tutti questi dialoghi, il cristianesimo entra a titolo di “religione” — e si sa quale facile vittoria “ragione” e “scienza” riportano quando hanno a che fare con la categoria “religione”. Voltaire, Hegel, Feuerbach, Marx, Freud: sono tutti usciti (o ritenuti tali) vincitori dal confronto. Finché è arrivato uno che ha capito che questa era una vittoria di Pirro, anzi una battaglia contro i mulini a vento, perché il nemico da battere non è la religione, ma Gesù Cristo! È ciò che si è proposto di fare Friedrich Nietzsche. A lui va riconosciuto il “merito” di non aver scelto un bersaglio facile — la “religione” — per i suoi attacchi, ma di aver chiaramente identificato il fronte sul quale si combatte la battaglia decisiva tra fede e ateismo, e cioè la persona e l’insegnamento di Cristo. Ha fatto, di ciò, lo scopo della sua vita, proponendo di sostituire alla figura di Cristo quella del dio greco Dioniso.

Il suo tentativo non è rimasto isolato, se qualcuno ha pensato di mettere Dioniso al posto di Gesù nella rappresentazione dell’ultima Cena alle recenti Olimpiadi di Parigi. Le critiche mosse da ogni parte a tale rappresentazione si sono concentrate sui simboli della teoria Queer, presenti nella scena. Non si è tenuto abbastanza conto di ciò che ha espressamente dichiarato l’ideatore della scenografia, e cioè che il personaggio centrale, sdraiato e troneggiante in primo piano, era il dio pagano Dioniso. L’intento dichiarato era quello di restituire alle Olimpiadi il suo originario carattere di festa pagana.

Il tentativo di Nietzsche di sbarazzarsi di Cristo nasconde, nonostante tutto, un elemento fortemente positivo. Fa cadere gli alibi speculativi; smaschera le scaramucce, simili a quelle che si fanno in guerra per distogliere il nemico dal fronte principale. Dimostra che la domanda centrale, oggi come a Nicea, anzi come intorno a Gesù stesso, è «Ma voi, chi dite che io sia?» (Matteo 16, 16). Non “Chi dite che è Dio?”, ma “Chi dite che sono io?” Su chi è Dio ci si può sbizzarrire e dire ciò che si vuole, non così su Gesù Cristo. Egli non è un’idea che si può manipolare come si vuole; è una realtà “in carne ed ossa”. Ha osato dire (per noi non ha importanza se da vivo con la sua bocca, o da risorto per bocca del suo Spirito): «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Giovanni 1, 18). Cristo non prende il posto del “Dio della religione”; solo ne rivela definitivamente il vero volto.

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Anche nell’anno appena terminato si è celebrato un importante centenario, quello della nascita di Immanuel Kant (22 aprile 1724), il filosofo della ragione pura e della ragione pratica. Egli esclude la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio dalle possibilità della ragione pura e assegna tale compito alla ragione pratica. Possiamo dirci d’accordo con lui, a patto di ritenere la persona di Gesù Cristo — e non “l’imperativo morale” — la vera e più forte “ragione pratica” (cioè, non speculativa!) per credere in Dio. La fede cristiana nasce dalla scoperta del dono, non dalla presa di coscienza del dovere. (E neppure, detto tra parentesi, dalla «coscienza del peccato», come riteneva Kierkegaard). La coscienza morale è certamente un argomento a favore della ragionevolezza del credere: l’unica cosa che interessava, evidentemente, a Kant, come filosofo; non è però ancora l’inizio di esso. «La coscienza morale dentro di sé» (insieme con il “il cielo stellato sopra di sé”), riempiva l’anima stessa di Kant di «sempre nuova e crescente ammirazione e venerazione» (3). Non ancora, però, di fede!

2. Nicea e la Trinità di Dio

Convocato per definire lo statuto ontologico di Cristo e il suo posto nella fede della Chiesa, il concilio di Nicea finì per conseguire un risultato, se possibile, ancora più importante e decisivo: quello di definire l’idea stessa del Dio cristiano. Nicea segna il passaggio dal rigido monoteismo veterotestamentario al monoteismo trinitario. Non segna il momento di nascita della fede nella Trinità: la formula battesimale di Matteo 28 e lo stesso simbolo apostolico anteriore a Nicea la contenevano. È solo il momento della sua presa di coscienza e della sua formulazione dogmatica. Non è stato necessario convocare, in seguito, un altro concilio per definire il dogma della Trinità: lo aveva fatto il Concilio di Nicea, esplicitato, per lo Spirito Santo, da quello di Costantinopoli del 381.

Divinità di Cristo e Trinità di Dio sono due misteri inseparabili, due porte che si aprono, o chiudono, insieme. Se Cristo non è Dio, da chi sarebbe formata la Trinità? Se ne ha la riprova nei fatti. Appena si mette tra parentesi la divinità di Cristo, cade anche l’orizzonte trinitario. Bultmann ha scritto: «La formula “Cristo è Dio” è falsa in ogni senso, quando “Dio” viene considerato come essere oggettivabile, sia essa intesa secondo Ario o secondo Nicea, in senso ortodosso o liberale. Essa è corretta se “Dio” viene inteso come l’evento dell’attuazione divina» (4). In parole meno velate: Cristo non è Dio, ma in Cristo c’è (o opera) Dio.

Proseguendo nel solco della demitizzazione da lui tracciato, negli anni ’70, un noto (e, per altro verso, benemerito) teologo cattolico ha scritto: «Le concezioni mitiche di allora intorno all’esistenza celeste, pre-temporale, oltre-mondana, di un essere promanato da Dio, intorno a un “teo-dramma” recitato da due (o addirittura tre) personaggi divini, non possono più essere le nostre… La fede monoteistica, ereditata da Israele e condivisa con l’Islam, non deve estinguersi in nessuna dottrina trinitaria. Non c’è altro dio all’infuori di Dio!» (5).

L’intenzione — favorire il dialogo interreligioso — era buona, il mezzo terribilmente sbagliato. Rigettando l’idea di un essere intermedio tra Dio e il creato, Nicea è stato, esso stesso, il primo e più illustre caso di demitologizzazione! Pensare di rendere il cristianesimo più accettabile mettendo tra parentesi la Trinità è come pensare che un atleta possa correre più veloce, se si rimuove la spina dorsale dal suo corpo!

Il mezzo che permise di conciliare la fede nella divinità di Cristo con l’irrinunciabile monoteismo biblico non fu il termine filosofico “consostanziale” (homoousios). Questo si affermò in un secondo momento della discussione, vedendo la paura che esso incuteva al partito di Ario. Sant’Atanasio ne farà, in seguito, un uso assai discreto, anche se, per la sua novità e precisione, esso divenne ben presto la “tessera” dell’ortodossia nicena. No, tale risultato fu ottenuto soprattutto facendo leva sul fatto che Cristo è, sì, il Verbo «per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte» (Gv 1, 3), ma è anzitutto il «Figlio di Dio» e, come tale, «generato, non creato» (“genitum non factum”). Arrivare a questa distinzione tra essere generato (gennetos) e essere creato (genetos: una sola lettera di differenza in greco!) fu la conquista più ardua e più decisiva della fede cristiana sul piano dell’essere. Contrariamente a ciò che pensava Adolf Harnack, Nicea non è l’ellenizzazione del cristianesimo nella sua fase più acuta, ma piuttosto la sua crisi e il suo superamento.

Da questo punto di vista, Atanasio e il partito ortodosso dovettero combattere su due fronti: non solo contro Ario e i suoi, ma anche contro l’imperatore. Chi conosce le vicende storiche che precedettero, accompagnarono e seguirono il concilio sa quanta resistenza Costantino e il suo teologo personale Eusebio di Cesarea opposero all’abbandono del rigido monoteismo veterotestamentario. Alcuni dei cinque esìli di Atanasio furono dovuti proprio a questa ragione. Il motivo soggiacente non era solo teologico, ma anche politico. Il rigido monoteismo vetero-testamentario forniva un modello e una giustificazione molto più forte al potere assoluto dell’imperatore! Erich Peterson ha scritto un saggio classico sull’argomento, intitolato Il monoteismo come problema politico (Leipzig, 1935).

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Anche il cristianesimo professa, dunque, l’unità di Dio. Non una unità numerica, ma qualcosa di infinitamente più bello. La si definisce di solito una “unità di sostanza”; ma il suo vero nome è unità d’amore, perché Dio “è” amore (1 Gv 4, 8). Essa è l’unica unità che può fare da modello all’unità, non solo della Chiesa, ma di ogni comunità umana, a cominciare da quella tra l’uomo e la donna nel matrimonio. Queste saranno sempre e necessariamente delle unità nella diversità, come è, appunto, l’unità della Trinità. Non è dunque vero, per citare di nuovo Kant, che «la dottrina della Trinità, presa alla lettera, non ha alcuna rilevanza pratica» (6). Ce l’ha ed è vitale! Il poeta “metafisico” John Donne aveva ragione: la Trinità è «osso duro per la filosofia, ma latte tenero per la fede» (7).

3. Conclusione

Tutte le innumerevoli iniziative storiche, teologiche ed ecumeniche che avranno luogo in occasione del centenario di Nicea saranno — per Dio e per la Chiesa — pressoché inutili, se non serviranno allo scopo a cui servì Nicea, e cioè a confermare e, dove è necessario, a ridestare nei cristiani la fede nella divinità di Cristo e nella Trinità di Dio.

Il corpo della Chiesa ha prodotto una volta uno sforzo supremo, con cui si è elevato, nella fede, al di sopra di tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze della ragione. In seguito è rimasto il frutto di questo sforzo. La marea si è sollevata una volta a un livello massimo e ne è rimasto il segno sulla roccia. Bisogna però che si ripeta la sollevazione, non basta il segno. Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è stato più l’eguale nei secoli.

Quello che ho cercato di mettere in luce ha importanti conseguenze per l’ecumenismo cristiano. Esistono due ecumenismi in atto: uno della fede e uno dell’incredulità; uno che riunisce tutti quelli che credono che Gesù è il Figlio di Dio, e che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo, e uno che riunisce tutti quelli che si limitano a “interpretare” queste cose. Un ecumenismo in cui, al limite tutti credono le stesse cose, perché nessuno crede più veramente a niente, nel senso forte della parola “credere”.

La fondamentale distinzione degli spiriti, nell’ambito della fede, non è più quella che distingue tra loro cattolici, ortodossi e protestanti, ma quella che distingue coloro che credono nel Cristo Figlio di Dio e coloro che non vi credono. Ci fu un momento in cui la fede di Nicea resisteva, si può dire, nel cuore di un solo uomo, Atanasio di Alessandria; ma bastò perché sopravvivesse e riprendesse vittoriosa il suo cammino. Anche oggi, pochi credenti, disposti a giocare la vita su questa fede, possono fare molto per ribaltare la tendenza in atto che è di ragionare su Dio «etsi Christus non daretur». O, peggio, di tentare, goffamente, di sostituire Cristo con Dioniso!

di Raniero Cantalamessa

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1 Si veda la raccolta di saggi Evangelicals and Nicene Faith. Reclaiming the Apostolic Witness, a cura di Timothy George, Grand Rapids, mi , 2011.

2 Dialogus contra Luciferianos, 19.

3 Kant’s Gesammelte Schriften, v , p. 161.

4 R. Bultmann, Glauben und Verstehen, ii, Tübingen 1938, p. 258.

5 H. Küng, Essere cristiani, Milano 1976, pp. 505 e 540.

6 Il conflitto delle facoltà, Appendice ii , 1, a..

7 John Donne, A Litany, 4: The Trinity (“bones to philosophy, but milk to faith”).

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