«Da giudice antimafia a indagato per aver favorito i casalesi.Assolto, ma con tante ferite e una malattia autoimmune»
Rivelazione di segreto d’ufficio, aggravato dall’aver favorito il clan dei casalesi. «Leggevo l’avviso di garanzia e ridevo. Pensai: proprio a me che feci condannare all’ergastolo Sandokan, capo dei casalesi, ma che è uno scherzo?». Non lo era. Raffaele Marino, 73 anni, napoletano del Vomero, è un magistrato in pensione che porta sulla pelle i segni di dieci anni di traversie giudiziarie: «Ho un disturbo da stress postraumatico e ho sviluppato una malattia autoimmune». Nel 2013 quando iniziarono i guai con la giustizia era quasi all’apice della carriera: procuratore a Torre Annunziata, procuratore reggente a Napoli Nord. Un curriculum professionale che andava dalle inchieste di tangentopoli a quelle di camorra, indagini su omicidi di vittime innocenti come Silvia Ruotolo e Annalisa Durante, centinaia di anni di carcere chiesti e ottenuti per camorristi e assassini. Il profilo ideale per l’incarico di procuratore a Napoli. «Oggi mi viene il sospetto che non fossi gradito» si limita a commentare.
Dopo dieci anni di inchieste e nonostante l’assoluzione definitiva da tutte le accuse in Cassazione, il Csm non ha mai voluto reintegrarlo nel ruolo; così per la prima volta nella storia giudiziaria italiana, il Consiglio di Stato ha condannato i togati di Palazzo dei Marescialli a risarcire Marino con duecentomila euro, per demansionamento e danni materiali e morali.
Dottore Marino, la domanda nasce spontanea: crede ancora nella giustizia?
«Dopo anni di attesa è difficile sostenere che la giustizia funzioni. Ho avuto l’impressione di scontrarmi con un sistema, il sentore che bisognava in qualche modo colpirmi per eliminare un concorrente scomodo per certi posti di rilievo».
Si riferisce all’incarico di procuratore di Napoli?
«Certo, all’epoca della mia disavventura giudiziaria avevo 62 anni e tutte le carte in regola per diventarlo. Reggevo due procure: Torre Annunziata e avevo in pratica aperto da zero quella di Napoli Nord, un lavoro enorme».
Invece che accadde?
«Che i colleghi di Roma mi accusarono di aver favorito un imprenditore legato ai casalesi in base a una telefonata tra costui e un carabiniere. Ovviamente chiesi subito di essere interrogato, ma non servì a molto…».
La macchina giudiziaria che lei conosce benissimo si era messa in moto, stavolta contro di lei.
«Sì in base a quella telefonata tra due persone (tra l’altro poi assolte) vengo rinviato a giudizio, il Csm mi sospende subito dall’incarico di procuratore di Torre Annunziata e mi trasferisce immediatamente al tribunale di Pistoia».
Le sarà crollato il mondo addosso.
«Vero, anche perché purtroppo mio figlio è affetto da disabilità grave, ho dovuto lasciare qui la famiglia e correre a Pistoia. Nonostante tutto cercai di ambientarmi e di continuare nel mio lavoro come meglio potevo. Dentro di me ero tormentato, ma il peggio accadde un giorno che non potrò mai dimenticare…».
Che successe?
«Ero in udienza a Pistoia, un processo delicato con detenuti, non potevo allontanarmi per nessuna ragione. Mi chiamano sul cellulare “tuo figlio ha avuto un incidente stradale, è ricoverato in ospedale”. Ho dovuto riattaccare e continuare l’udienza come se nulla fosse. Solo dopo che è finita sono riuscito a correre alla stazione e prendere il primo treno per tornare a Napoli, dove arrivai con il cuore in gola».
Intanto c’era sempre l’inchiesta aperta sulla telefonata che l’aveva inguaiata.
«Tre anni di udienza preliminare, il rinvio a giudizio e il processo, nel 2017 vengo finalmente assolto dal favoreggiamento, ma resta in piedi la rivelazione di segreto d’ufficio al carabiniere. Rinuncio alla prescrizione, vado in Appello e vengo assolto ancora».
A quel punto avrà pensato: fine dell’incubo.
«Esatto, invece non era finita. Dopo l’assoluzione in primo grado, chiedo al Csm di rientrare nelle mie funzioni di procuratore a Torre Annunziata. Ma niente da fare. Mi ritrasferiscono, stavolta in Campania, vengo assegnato al tribunale di Salerno ma con intimazione al presidente che non dovessi occuparmi di materia penale. Così, dopo una vita professionale trascorsa a occuparmi di criminalità, mi mandano in una sezione civile con cinquemila cause assegnate. Io avevo lasciato il diritto civile quarant’anni prima quando ero pretore. Ho dovuto riprendere a studiare e ricominciare da zero, a 65 anni suonati. Comunque cercai anche lì di fare del mio meglio occupandomi di separazioni, divorzi e liti civili. Nel 2018 arriva l’assoluzione in Appello e a quel punto un nuovo trasferimento, chiesi ancora una volta ai miei colleghi del Csm di tornare a Torre Annunziata o a Napoli in Procura come aggiunto».
Invece cosa accadde?
«Mi mandano a Napoli ma alla Procura generale, poi quando è arrivata l’assoluzione definitiva in Cassazione avevo ormai compiuto i 70 anni e a quel punto era troppo tardi, mi sono ritrovato pensionato».
Con tante ferite nell’anima…
«Purtroppo sì, vede io da ex sessantottino entrai in magistratura con l’ambizione di cambiare il mondo, poi mi accorsi che potevo cambiare ben poco ma almeno dare una mano alla mia città che amo infinitamente. Perciò cercai con il mio lavoro di lottare contro la camorra. Ma sapere che ero finito sotto inchiesta con quelle accuse così infamanti per me è stata una mazzata troppo pesante, mi sono tenuto tutto dentro per anni perché mi sembrava una cosa talmente abnorme che non riuscivo a raccontarla nemmeno a me stesso. Purtroppo quei dieci anni non si dimenticano, i disturbi psicologici e la malattia autoimmune me li porto con me ogni giorno».
Qualcuno l’avrà aiutata, i suoi colleghi di Napoli?
«Devo dire che mi conoscono bene e mi sono rimasti accanto, tuttavia – potrebbe apparire un paradosso – mi sono stati più vicini molti avvocati penali con cui pure spesso mi scontravo in aula. Io non ho un carattere facile ed ero un magistrato duro, tuttavia mi ha dato conforto trovare la solidarietà di molti avvocati napoletani, a partire dai miei difensori Giuseppe Fusco, Alfonso Furgiuele e Gennaro Marasca. E poi Andrea Abbamonte per il giudizio amministrativo che abbiamo vinto contro il Csm. Sono stati anche dei veri amici. La sentenza che abbiamo ottenuto la dobbiamo alla capacità e caparbietà di Abbamonte».
Lei ha vissuto un calvario giudiziario che capita a migliaia di comuni cittadini. Per questi ultimi difendersi da innocenti è più complicato?
«Per un cittadino comune sarebbe stato molto più complesso, non ho difficoltà ad ammetterlo».
Non prova rabbia per ciò che le hanno tolto i suoi colleghi di Roma?
«Non sono una persona collerica, ma sicuramente provo una profonda delusione per come funziona un sistema in cui in passato credevo molto. Avrei potuto dare ancora un contributo importante alla mia città se non avessi dovuto impegnarmi a difendermi e a sostenere 15 giudizi. Ora sto cercando in qualche modo di recuperare il tempo perduto: svolgo attività di volontariato insieme con la fondazione Polis per le vittime innocenti della criminalità organizzata e intendo impegnarmi in futuro anche per dare una mano ai detenuti, i quali spesso sono costretti a vivere in condizioni inaccettabili».
Tornerebbe a fare il magistrato?
«Me la sono posta spesso questa domanda, onestamente oggi non so risponderle».
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