No Meloni, no. Perché non bisogna andare all’insediamento di Trump

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Se il Mr. Smith del classico film di Frank Capra, andando a Washington, si redimeva, Mrs. Meloni, volando nella capitale statunitense, si perderebbe. Mi riferisco all’invito informale, ricevuto pare da Donald Trump in persona, a partecipare alla sua cerimonia di insediamento, e che la premier sembrerebbe ancora incerta se accettare. Benché io sia convinto che queste righe non saranno neppure lette, mi permetterei però di consigliarle di restare a Roma.

Prima di tutto per l’onore dell’Italia, a voler utilizzare un termine tipico del lessico politico della destra. Se Meloni si recasse da Trump in incognito, indossando un impermeabile, pesanti occhiali scuri e una parrucca corvina, nulla quaestio. Ma l’invito è di presenziarvi in quanto presidente del Consiglio, quindi a rappresentare l’Italia. Meloni sarebbe l’unico premier della Ue presente, assieme a Viktor Orbán. Ora, sedere fianco a fianco a un leader che gli studiosi e tre quarti di opinione pubblica occidentale sono solo indecisi se definire illiberale, autoritario, autocratico o pienamente dittatoriale, e che è appena stato pesantemente sanzionato dalla Ue per violazione dello Stato di diritto, sarebbe uno schiaffo in pieno volto all’Italia e alla sua storia. Che ha inventato il fascismo, d’accordo, ma che è anche il paese di Cesare Beccaria, dell’illuminismo, del Giuseppe Mazzini dei diritti (e dei doveri) dell’uomo, della grande tradizione giuridica liberale, oltre ad essere uno dei fondatori della Comunità Europea.

Assieme a Orbán, fungeranno quel giorno da majorette del trumpismo figure non ancora (e si spera, mai) al governo, come Nigel Farage, Marine Le Pen e, in un posto d’onore, Alice Weidel la leader del partito nostalgico del nazismo, Allianz für Deutschland (Afd). Oltre a essere tutti  personaggi che apertamente simpatizzano per Vladimir Putin (alcuni dei quali, i francesi ad esempio, addirittura  finanziati dalla Russia), si tratta della riunione di famiglia della destra radicale antieuropea. Meloni è  sicura che il prestigio dell’Italia sarebbe assicurato,  sedendo accanto ai nostalgici di Adolf Hitler e a quelli il cui obiettivo principale è lo scardinamento della Unione europea, quella senza la quale noi saremmo messi peggio dell’Argentina?

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Senza dimenticare le ragioni estetiche: la cerimonia si prefigura come come una triviale cafonata, una specie di Super bowl del nazionalismo a stelle e strisce, persino con una statua di Trump alta sei metri. L’apogeo del kitsch, anche se un kitsch di lusso, visto come i miliardari Usa si sono precipitati a finanziarla: l’Italia, la patria della bellezza e della eleganza, stonerebbe ancora di più.
Ma Meloni alla kermesse trumpiana tradirebbe anche la storia della propria tradizione politica. Nonostante il Msi avesse votato a favore nella Nato, è stato però in larga parte un partito anti americano : basti ricordare che Gianni Alemanno, leader del Fronte della Gioventù, finì in galera nel 1989 per aver cercato di bloccare il corteo del presidente George Bush in visita ufficiale in Italia. Proprio la corrente in cui Meloni è cresciuta, tra Msi e An, poi, si era sempre caratterizzata per una critica, originale e non sempre nostalgica, del modello americano.

Vi sono tuttavia ragioni anche più prossime a noi. Mi sembra chiaro che Meloni non abbia nessuna intenzione di diventare conservatrice. Anche perché il conservatorismo democratico, quello dei De Gaulle e degli Adenauer, dei Reagan e delle Thatcher, è ormai morto da tempo, e al suo posto ha preso piede un nazional conservatorismo reazionario; non una destra moderata ma una destra radicale, una famiglia che si troverà riunita appunto a Washington.

Meloni è, culturalmente, certo più vicina alla destra radicale che al defunto conservatorismo, tuttavia, da quando si è insediata, ha cercato di ibridare il nazionalismo con le esigenze e soprattutto i valori dell’Unione europea. Se invece si recasse a Washington, immergendosi di nuovo nel mare nero di cui ha fatto parte fino al 2022, perderebbe questa sua specificità e, in quanto premier di un media potenza come l’Italia, passerebbe immediatamente in seconda fila, rispetto ai leader della destra radicale di Francia e Germania – non a caso Elon Musk ha ora molte più attenzione per Weidel, perché la Germania ha un peso assai superiore all’Italia.

Non bisogna poi dimenticare che Trump non vuole alleati, ma solo vassalli, se non servi, come ha scritto giorni fa un quotidiano non certo di estrema sinistra come Le Figaro. Se un paese obbedisce ai suoi ordini, o dichiara di obbedirvi, diventerà amico, anche se ostile alla Nato e retto dalla peggiore dittatura – vedi gli incontri con Putin e con il satrapo comunista della Corea del Nord. La partecipazione all’Internazionale nera di Washington rischia di trasformare Meloni in una semplice valvassina degli Usa.

Ora, proprio lei, soprattutto nel suo libro con Alessandro Sallusti, critica più volte il Pd per essere stato troppo prono agli Stati Uniti. E non senza ragione: tutti ricordiamo la cena di gala dell’ottobre 2016 del premier Matteo Renzi e del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, accompagnati da Roberto Benigni e da Paolo Sorrentino, offerta da un Barack Obama a fine mandato, pochi giorni prima del voto americano e a poche settimane dal referendum italiano. Uno spettacolo di dubbio gusto, ma anche di dubbia efficacia reciproca, e peraltro tutt’altro che ben augurante, visto che, pochi giorni dopo, la candidata di Obama, Hillary Clinton, perse, e cosi pure Renzi il referendum e il potere. Ora Meloni vuole imitarlo, con un presidente mille volte più intrusivo – chiedere, su questo, a un suo predecessore, cioè a Giuseppe Conte – come Trump? E le vicende di questi giorni, attorno a Cecilia Sala, dimostrano che gli Stati Uniti sono molto esigenti dai paesi che essi ritengono amici, ma con Trump sarebbe assai peggio, per lui esistendo solo la fedeltà assoluta. Mi paiono buone ragioni affinché Mrs Meloni non prenda l’aereo. Anche se, purtroppo, qualcosa mi dice che lo farà.



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