“L’ Africa non è un Paese”

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Ci sono due immagini diametralmente opposte che affiorano alla mente quando pensiamo all’Africa: gente seminuda e allegra che balla felice tra animali e primitiva bellezza, oppure una distesa di terra arida in cui cresce soltanto miseria. “Povertà o safari, e in mezzo niente”: questo scrive nell’introduzione Dypo Faloyin, il giornalista nigeriano nel suo ultimo saggio L’Africa non è un paese. Istruzioni per superare luoghi comuni e ignoranza sul continente più vicino (Il Post, 2024, 472 pp, 22 €), dove si prefigge di smontare con intelligenza, irriverenza e precisione, le idee confezionate e superficialmente condivise di un enorme continente che viene però trattato e descritto dall’Occidente come un unico enorme paese, senza considerare le profonde differenze economiche, sociali e storiche di ciascuna nazione.

Ma l’Africa non è un Paese, ricorda l’autore, bensì un continente enorme di 54 Paesi, 2.000 lingue e quasi 1.5 miliardi di persone, “un ricco mosaico di esperienze, di comunità e di storie diverse, non un monolite compatto di destini predeterminati”. Con il doppio intento di scrivere un libro che parli di identità, svelando il sottotesto ed i paradigmi culturali che hanno determinato le narrazioni e gli stereotipi di cui siamo, nostro malgrado, tutti portatori e, parallelamente, di mostrare quale sia invece il lato più intrigante, vivace e luminoso del “continente nero”, Dypo Faloyin ci accompagna in un viaggio tra passato e presente per conoscere, con una prosa ironica e piccante, le tante sfaccettature dell’Africa moderna.

“Ho iniziato a scriverlo nell’estate del 2020, durante le discussioni che si stavano sviluppando in Europa per il movimento Black Live Matter, intorno al razzismo, al colonialismo e volevo capire e spiegare perché, quando si parla d’Africa, si oscilli sempre tra questi due estremi: il safari o la povertà”, racconta Lafoyin.  “Quando a 13 anni sono arrivato a Londra per studiare, ero eccitato di poter parlare della città incredibile dov’ero cresciuto, Lagos, della mia famiglia e della mia cultura, invece tutti volevano solo sapere se avessi tigri o leoni come animali domestici in giardino”. Ed infatti scrive nell’introduzione: “per quanto mi sforzi di spiegare che sono cresciuto in una metropoli tentacolare con tutti gli imprevisti di una metropoli tentacolare, troppe persone riescono ad immaginarsi solo quello che sono state programmate per credere”. 

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Il libro, diviso in diverse sezioni, parte da Lagos, la capitale non ufficiale della Nigeria dove l’autore è cresciuto: la città “più popolosa del continente e più nera del mondo”, con una popolazione di 21 milioni, pari agli abitanti di Londra, New York e dell’Uruguay messi insieme. Un enorme contenitore dove è possibile trovare qualsiasi cosa, e dove tutto è negoziabile, anche quello che non dovrebbe esserlo. Una città con cui l’autore sente un forte legame perché prima di essere genericamente africano, Dypo Faloyin precisa di essere, prima di tutto, nigeriano.

“Per il potere conferitomi vi dichiaro un Paese”: con questa frase si potrebbe riassumere quanto accadde durante la Conferenza di Berlino del 15 novembre 1884, quando le potenze coloniali europee si spartirono un continente che apparteneva ad altri e, per non farsi la guerra, seduti sotto una grande mappa alta quasi cinque metri, iniziarono a tracciare i confini arbitrari di quelli che sarebbero poi diventati gli attuali Stati moderni. Quattordici nazioni si spartirono illegalmente un intero continente, giustificando l’azione come una missione civilizzatrice che avrebbe portato a selvaggi privi di governo le famose “TRE C”, commercio cristianesimo e civiltà, mentre per i magnanimi colonizzatori, che generosamente si impegnavano ad interrompere la tratta degli schivi, i benefici sembravano essere poco più che fortunati effetti secondari.

Mentre con il righello venivano tracciati confini arbitrari creando nazioni dal nulla, nessun africano fu invitato al tavolo delle trattative sebbene in quei dieci giorni venisse elaborato il documento che avrebbe sancito la fine del diritto dell’Africa all’autodeterminazione e che avrebbe dato il via alla totale occupazione del Continente. “La cosa peggiore di un confine arbitrario è un confine arbitrario invisibile”, scrive Faloyin, e quando Francia, Gran Bretagna e Belgio, ma anche Portogallo, Germania e Italia progettarono l’Africa, si crearono assetti rimasti in gran parte invariati e responsabili di molte future tensioni.

In seguito, durante i moti indipendentisti degli anni ’60, quando i Paesi dovettero decidere se mantenere gli stessi confini coloniali o cambiarli disgregandosi, fu  chiaro che era impossibile farlo senza innescare effetti a catena potenzialmente devastanti per tutti, perché’ il riassetto di un Paese influiva necessariamente su tutti gli altri. Purtroppo però, ricorda l’autore, “i Paesi con confini non naturali e comunità divise tendono ad avere maggiori problemi economici e conflitti politici” ed infatti “nove dei tredici stati più arbitrari del mondo si trovano in Africa”.

Quanto sono importanti i contenuti delle campagne di raccolta fondi per diffondere l’idea di un’Africa dove fame, carestie, miseria e rassegnazione sono endemiche e solo l’azione caritatevole che viene dall’esterno sia in grado di fare la differenza? Quali effetti collaterali hanno avuto iniziative lodevoli e sinceramente altruiste quali quelle di artisti impegnati a fronteggiare emergenze e carestie? Dypo Faloyin fornisce vari esempi. Analizza, per esempio, l’impatto che due hit planetarie hanno avuto sull’opinione pubblica negli anni 80 e che inaugurarono il filone degli artisti attivisti impegnati sui fronti umanitari, come Do they know it’s Christmas del 1984 e Weare the world del 1985.

La prima sorse per volontà del cantante inglese Bob Geldof, motivato a scrivere una canzone per raccogliere fondi dopo essere rientrato da un viaggio in Etiopia. Scrisse una canzone, radunò le maggiori star dell’epoca in Band Aid ed il successo del brano fu travolgente: Do they know it’s Christmas vendette oltre 13 milioni di copie e raccolse più di dieci milioni di sterline in pochissimo tempo. Un anno dopo, questa volta negli Stati Uniti, quarantacinque musicisti si riunirono una notte in uno studio di Los Angeles e registrarono We are the world, questa volta sotto la bandiera di USA for Africa, e anche loro raccolsero più di 100 milioni di dollari per fronteggiare la carestia africana.

Il fine aveva giustificato i mezzi, ma a quale prezzo? Queste campagne di raccolta fondi non solo contribuirono ad influenzare l’immaginario di più di una generazione,  diventando rappresentative di un intero continente, ma anche le società stesse per cui il denaro era stato destinato. Anche se aveva contribuito a raccogliere milioni di sterline, la canzone di Geldof aveva evocato solo pietà, non certamente il desiderio di visitare l’Africa, tantomeno di trasferirsi a vivere o di investire sul territorio.

I social media, e prima ancora il cinema, la letteratura, la musica, attraverso le immagini, le parole e le rappresentazioni che scelgono per descrivere la società, influenzano la nostra percezione della realtà. Il cinema è uno dei più potenti produttori di contenuti e alle diverse modalità con cui la macchina hollywoodiana genera stereotipi sull’Africa e li diffonde nell’immaginario collettivo, l’autore dedica molte delle sue pagine più brillanti. “Ho voluto un capitolo su Hollywood perché mi ha sempre interessato come sceglie di rappresentare l’Africa. Hollywood ci ripropone sempre con gli stessi cliché anche perché i registi ed i professionisti africani non sono quasi mai coinvolti nella realizzazione dei film”.

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Persino in un film come Indipendence day del 1996, dove tutti i continenti sono costretti ad allearsi per difendersi da un attacco alieno, a nessuno viene in mente di coinvolgere l’Africa, indubbiamente “una strana svista, considerando che il continente è quasi sempre rappresentato nelle mani di signori della guerra e sanguinari dittatori militari” con sicuramente molta esperienza in materia bellica.

Binyavanga Wainaina, lo scrittore ed attivista keniota scomparso nel 2019, lo aveva già analizzato vent’anni fa in Come scrivere sull’Africa e Faloyin ritiene che da allora sia cambiato ben poco nel modo in cui il continente viene ritratto nella cultura popolare. Quando si acquista familiarità nell’individuare stereotipi e luoghi comuni, diventa poi impossibile ignorarli. Per cambiare narrazione c’è solo una strada: bisogna raccontare storie e personaggi più complessi, come è successo per esempio con Black Panter, il film del 2023 che ha avuto un successo planetario in tutta l’Africa diaspore comprese, dove il team creativo del film era composto prevalentemente da neri e “la difesa dell’identità dei personaggi non si è limitata a garantire che non sembrassero inglesi” ma “ha evitato anche la trappola di pensare che dovessero sembrare africani”. 

La versione originale in inglese del libro ha due edizioni: una britannica ed una statunitense. Entrambe condividono lo stesso titolo, Africa is not a Country, l’Africa non è un Paese, ma il sottotitolo all’edizione statunitense è diverso: Notes on a Bright Country, cioè “note sul continente luminoso”, per contrastare il modo di chiamare l’Africa Dark Continent, il “continente scuro”. In cosa consista oggi quella luminosità, si interroga l’autore. “Vorrei accendere una luce sul continente. Vorrei che dopo aver letto il libro la gente sentisse il desiderio di conoscere di più per andare al di là degli stereotipi. Vorrei che questo libro potesse aumentare la curiosità per tutta l’Africa e per la sua diversità culturale e che la gente ne fosse sorpresa. Io stesso non conosco tutte le sfumature dell’Africa e continuo a scoprirne sempre e molto diverse”.

Il libro accende una luce sicuramente sulle nuove generazioni, capaci di organizzarsi per cambiare i governi e le norme sociali dal basso, in movimenti senza leader come avvenuto in Nigeria nel 2020 con il movimento #EndSARS, sorto spontaneamente per protestare contro la brutalità della polizia che ha portato a moltissime riforme e che ha rappresentato “il più grande movimento sociale nella storia della Nigeria”, supportato a livello logistico, giuridico e mediatico da un gruppo di giovani femministe e attiviste, Fem Co, dove le donne “hanno costruito una nazione nella nazione, dimostrandosi più capaci di quanto la classe dirigente nigeriana sia riuscita a fare in decenni” scrive Faloyin.

È importante poi parlare del Botswana come esempio di paese virtuoso, “la più longeva democrazia del continente che ha goduto di una crescita economica più rapida di quasi tutti i paesi del mondo”, aiutato certamente da un passato coloniale meno ingombrante e dall’avere l’80%  della popolazione appartenente allo stesso gruppo etnico, dai giacimenti di diamanti che sono stati indubbiamente di grande aiuto ma dove “i governi che si sono succeduti hanno gestito in modo intelligente le risorse del paese prendendo decisioni per il progresso dell’intera nazione”, investendo soprattutto in istruzione e sanità.

O ancora ricordare che in Nigeria esiste Nollywood, la seconda industria cinematografica del mondo, i cui film da decenni hanno una grandissima risonanza in tutto il Continente e nella diaspora nera per l’autenticità con cui rappresentano la realtà di un paese africano; una macchina creativa che produce ogni anno oltre duemila film, generando circa 600 milioni di dollari e dando lavoro ad un milione di persone.

Questi solo alcuni tra i tanti esempi forniti dall’autore, per dimostrare che c’è tanto da scoprire in ogni singolo Paese e che è possibile andare oltre alle Olimpiadi o la Coppa del Mondo che spesso rappresentano “alcune delle rare occasioni in cui i paesi africani vengono riconosciuti singolarmente per il loro talento”, se si vuole. La parola d’ordine sembra essere sempre la stessa: capire il contesto, l’unico da cui è necessario partire per non generalizzare. E tenere alta la curiosità.

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