“GAZA NON ESISTE PIÙ: QUESTO È GENOCIDIO”
Intervista di Sabrina Provenzani a Amos GOLDBERG. (Da “Il Fatto Quotidiano”, 27/12/2024)
(Amos GOLDBERG è professore di Storia dell’olocausto presso il Dipartimento di Storia Ebraica e Studi Contemporanei dell’università Ebraica di Gerusalemme).
“Mi sono avvicinato allo studio del genocidio perché credo che, studiandolo, possiamo comprendere meglio i pericoli e le minacce che affrontiamo come individui, società e culture. Mettiamo da parte l’olocausto per un momento: quasi sempre i genocidi, per chi li perpetra, sono reazioni di autodifesa rispetto a una minaccia reale o immaginaria. Ora, ed è molto importante sottolinearlo: il 7 ottobre è stata una catastrofe. Un trauma profondo, un crimine atroce, che ha colpito persone a me molto vicine. Siamo rimasti tutti scioccati; l’abbiamo vissuta come una minaccia esistenziale. Non abbiamo nemmeno potuto elaborare il lutto. Ma anche quel crimine deve essere compreso – non giustificato – nel suo contesto: la Nakba, l’occupazione, l’assedio, l’apartheid… La risposta di Israele è stata completamente sproporzionata, e nessun crimine, per quanto atroce come quello del 7 ottobre, giustifica un genocidio”.
Ma come rientra nella definizione di genocidio?
“È un crimine difficile da identificare, ma la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 offre una definizione ampiamente accettata. Significa non semplicemente uccidere molte persone, ma avere l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso. E, lo indica il nome, include l’obbligo di prevenirlo. Quell’intento specifico di distruzione è chiaro a Gaza. Che, come società, non esiste più. Per mesi, in Israele, sono stati pronunciati pubblicamente, sui media e social media, incitamenti al genocidio, dall’alto al basso – da funzionari governativi, generali, celebrità dei media, rabbini, anche soldati. Questo è stato ampiamente documentato. Gli schemi di annientamento sono innegabili: uccisioni di massa, abbattimento della maggior parte delle abitazioni, distruzione sistematica di ospedali, infrastrutture, edifici religiosi, università e istituzioni; fame, cecchini che prendono di mira persone innocenti, bambini compresi. Queste azioni distruggono le condizioni che rendono possibile una società: annientano un collettivo mentre disumanizzano un’intera popolazione. 45 mila morti, oltre 100 mila feriti.
Molti altri muoiono a causa della mancanza di strutture e forniture mediche. L’intera popolazione è sfollata. Gaza non esiste più.
Ma il termine genocidio porta con sé un peso enorme. La sua associazione con l’olocausto continua a influenzare la Germania. Associare Israele, un paese in fondo nato dall’olocausto, a un genocidio è indicibile per molti. Sì, perché l’unico genocidio a cui pensiamo è l’olocausto. Quindi, se non è Auschwitz o Treblinka, non è un genocidio… Gli europei, e soprattutto i tedeschi, provano sensi di colpa e la responsabilità di proteggere Israele, anche se è lo stato più potente del Medio Oriente. Può superare la soglia del crimine più orrendo del diritto internazionale, ma se lo critichi troppo vieni subito considerato antisemita.
Prendiamo Tony Blinken, che nega il genocidio a Gaza e sostiene incondizionatamente Israele. Poco prima del 7 ottobre ha visitato il Museo dell’olocausto a Washington per riconoscere come genocidio le atrocità commesse in Myanmar. Nella sua dichiarazione basta cambiare le parole con Gaza e Israele per ottenere un’analogia quasi perfetta. Quindi si può attingere autorità morale dall’olocausto per parlare del genocidio in Myanmar, che fra l’altro è molto diverso dall’olocausto, ma per Israele saltano tutte le regole. Capisco la delicatezza di parole come Olocausto e genocidio, la condivido pienamente. Dobbiamo essere cauti e sensibili. Ma dobbiamo anche prevenire i genocidi. Il rischio non è solo violare la memoria, destabilizzare identità o ferire sentimenti. Qui ci sono persone che vengono uccise ogni giorno a decine, bambini che muoiono di fame. Dobbiamo fermare questo. Perché studiamo l’olocausto se non ne impariamo la lezione?”
Lei sta ponendo la questione dell’eredità dell’olocausto…
“Yehuda Elkana era un prestigioso studioso israeliano, sopravvissuto all’olocausto. Nel 1988, all’inizio della prima Intifada, scrisse: ‘Dall’olocausto si possono trarre due lezioni: ‘mai più’ e ‘mai più a noi’. Israele ha deciso di imparare la seconda e, di conseguenza, di non ricordare. La Germania in teoria ha appreso il ‘mai più’ per tutti, ma più passa il tempo più sembra che intenda: ‘Mai più dobbiamo sentirci in colpa’. Difendere Israele è diventato una parte importante della loro identità. Io apprezzo la loro cultura della memoria, ma non che sostengano un genocidio attuale in nome di un genocidio passato, più estremo, che hanno perpetrato. È diventata una scusa per essere razzisti: puoi essere razzista e sostenere un genocidio ma mantenere la superiorità morale giustificandoti con la ‘lotta contro l’antisemitismo’ “
Ma Israele è davvero in una posizione eccezionale, per la sua storia e per la polarizzazione che attrae…
“Sì, per molte ragioni. Ma anche perché gode di una protezione che nessun’altra nazione riceve. Ciò che è davvero eccezionale di Israele è che viola tutte le regole del diritto internazionale e la fa franca”.
Lei è uno dei molti ebrei che lo denunciano… si sente ancora, in qualche modo, parte di quella realtà?
“Non ‘in qualche modo’. Ne faccio completamente parte. È la mia società. Lo fanno a nome mio. Insegno all’università: sono le mie tasse. Siamo complici. Lasciamo che accada. Non lo abbiamo prevenuto. Ci ho messo sei mesi per capirlo: avrei dovuto capirlo prima. Protestare comporta un rischio personale, soprattutto per i palestinesi, anche quelli con cittadinanza israeliana. O tacciono del tutto o vengono arrestati, quindi in Israele sono quasi invisibili. Ma questo è il momento di insistere sulle voci palestinesi, anche se dicono verità molto dolorose per noi israeliani e anche per voi europei, anche voi complici. Il mio amico Alon Confino non smetteva mai di ricordarlo: uno degli imperativi morali e politici dell’olocausto è che dobbiamo sempre ascoltare la voce delle vittime”.
Il Manifesto – 29 Dicembre 2024
Ho cambiato idea, credo di essermi “radicalizzato”. Circa un anno fa ho scritto su queste pagine dei miei dubbi sull’opportunità di definire come «genocidio» la guerra condotta da Israele a Gaza. Dubbi, soprattutto, sul rischio che usare estensivamente un concetto così drammaticamente estremo, applicandolo a comportamenti che certo configurano crimini di guerra ma che sul piano giuridico sfuggono almeno in parte alla categoria canonica del genocidio, finisca per annacquare il senso, la percezione, la «sacralità» di una parola coniata per dare un nome al male più «indicibile»: alla Shoah.
Capisco le ragioni di chi rimane affezionato a questa disputa terminologica – crimini di guerra sì, genocidio no – ma oggi la trovo «distraente». I nomi, le parole sono importanti, però i fatti, le cose contano di più. I fatti sono che da più di un anno Israele – chi la governa, il suo esercito, le sue forze di sicurezza, senza una significativa opposizione politica e sociale nel mondo ebraico-israeliano – procede nella distruzione sistematica e indiscriminata dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, tollera e spesso spalleggia le persecuzioni continue contro civili palestinesi in Cisgiordania a opera di bande di coloni ebrei israeliani, rifiuta sistematicamente ogni richiamo di organismi sovranazionali alla palese illegittimità dei suoi metodi guerra.
ECCO, io penso che oggi dividersi tra quanti giudicano inaccettabili questi fatti, su come vadano nominati – genocidio? crimini di guerra? crimini contro l’umanità? – ne metta in ombra la gravità con pochi eguali nella storia recente e oscuri un fatto ulteriore che da essi consegue: Israele è ormai a tutti gli effetti un Paese «illegale», «criminale», altrettanto sprezzante del diritto internazionale e di quello umanitario dei Paesi e gruppi suoi nemici.
Lo è non più soltanto come governo, ma come entità giuridica che rivendica, con le sue istituzioni, il diritto di massacrare decine di migliaia di civili palestinesi per neutralizzare Hamas, di occupare per un tempo indefinito territori non suoi dominandone gli abitanti come sudditi di un potere assoluto, di trattare da cittadini di serie b milioni di arabi israeliani (è apartheid? Anche in questo caso preferisco concentrarmi sulla cosa più che sul nome).
Distraente da questa evidenza, particolarmente dolorosa per chi come me sente un legame profondo con le radici ebraiche dello Stato d’Israele, considero anche il dibattito su sionismo e antisionismo. Il movimento sionista nacque alla fine dell’Ottocento per dare speranza a milioni di ebrei d’Europa perseguitati e discriminati.
Indicando l’obiettivo concreto di costruire uno Stato ebraico in Palestina, fondava la sua visione su un valore – il diritto dei popoli ad autodeterminarsi – che ha conosciuto nella storia due declinazioni tra loro opposte: patriottismo democratico e nazionalismo esclusivista. Declinazioni, per guardare all’Italia, che si combatteranno ferocemente nella guerra civile tra Resistenza e fascismo.
IL SIONISMO è sempre stato abitato da entrambe queste «anime», e in più ha recato fino dai suoi inizi i segni di un «peccato» originale: disinteresse per i diritti nazionali di quanti, non europei, vivevano da secoli nella «terra promessa». Il movimento sionista vedeva il mondo con occhi «colonialisti»: ma almeno fino a tutta la prima metà del Novecento così lo vedevano anche pensieri e movimenti squisitamente progressisti.
Basti pensare a tanti socialisti rivoluzionari italiani che nel 1911 si entusiasmarono per la guerra coloniale in Libia, o alla sinistra socialista e comunista francese che alla fine degli anni ’50 sostenne con forza la repressione contro l’indipendentismo algerino.
Sarebbe bene, allora, lasciare il sionismo alle analisi e ai giudizi degli storici. Oggi Israele non è «sionista», è molto peggio: è uno Stato le cui élite politiche – fortunatamente non quelle intellettuali – condividono con rare eccezioni l’idea di un nazionalismo aggressivo ed esclusivista che, come dimostra plasticamente la figura di Netanyahu, ha bisogno di guerra per sopravvivere. È qui la prima e più micidiale minaccia esistenziale per Israele: è in quello che Anna Foa in un libro recente molto bello e molto sofferto ha chiamato il suo «suicidio».
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