Il 42enne è morto nella notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019 a Spadafora, frazione del comune di Messina, nelle mani dello Stato. Era sotto casa della sua ex, che chiamò due volte i soccorsi. La ex moglie, però, oggi chiede ancora verità e giustizia. I dubbi sulle indagini archiviate
«Non mi interessa, non mi interessa». Queste le ultime parole che, con un ginocchio di un carabiniere in borghese sulla schiena che preme la sua faccia sull’asfalto, pronuncerà Enrico prima di morire. È la notte tra il 26 e il 27 ottobre del 2019 e a Spadafora, frazione del comune di Messina, il 42enne Enrico Lombardo bussa insistentemente alla porta della sua ex compagna con cui non conviveva più da tre anni.
Nonostante questo, i due erano comunque rimasti in buoni rapporti a beneficio dei figli. Lei, vedendolo nervoso, decide di chiamare i carabinieri che, arrivati sul posto, chiamano un’ambulanza. Dal verbale Enrico risulterà «vigile e collaborante» e dopo essersi tranquillizzato i carabinieri lo invitano ad andare a casa. A due ore di distanza, verso l’una di notte, torna sotto casa dell’ex che, spaventata, decide di chiedere nuovamente l’intervento dei carabinieri.
Enrico, come accerterà anche l’autopsia, quella sera aveva assunto cocaina. Sostanza di cui, di recente, era diventano dipendente. Una pattuglia giunge sul posto. Due agenti riescono a immobilizzarlo anche attraverso dei colpi ripetuti di manganello. «Vedi che ti carico un colpo in testa» e «non avevo altra scelta» sono le due frasi, attribuite ad uno dei carabinieri presenti sul posto, che riecheggiano nelle diverse ricostruzioni di quella sera.
Così la compagna, affacciandosi dal balcone che dà sulla strada, lo vedrà ammanettato ai polsi e sdraiato sul fianco sinistro con una gamba alzata mentre il sangue inizia a sgorgargli dal capo formando una vistosa chiazza sull’asfalto. Sul posto arriva una seconda volante e, come si vedrà dai video realizzati dalla stessa ex, Enrico continuerà a lamentarsi. I momenti successivi mostrano tre carabinieri che, nel tentativo di immobilizzargli anche le gambe, iniziano a sferrargli dei calci.
L’uomo cerca di liberarsi ma uno degli agenti lo afferra da dietro. A lui si aggiungono anche gli altri due carabinieri che gli bloccano, rispettivamente, le spalle e le gambe. Enrico urlerà fino a quando la sua voce non diventerà sempre più flebile. Secondo le ricostruzioni resterà con la testa schiacciata sull’asfalto, dalla pressione che uno degli agenti continuerà ad esercitargli sulle spalle, per circa venti minuti.
Gli ultimi istanti di vita
I movimenti di Enrico, con il passare del tempo, si fanno sempre più impercettibili e, ad un certo punto della registrazione, non riescono più a cogliersi. All’1.52 giunge la prima ambulanza senza medico a bordo. Uno dei due soccorritori gli tocca il polso «sentendo un battito debole».
Ne viene allora chiamata un’altra, dotata di medico, che arriva sul posto dopo un quarto d’ora. E lì, a colpire gli operatori, sarà «il volto già cianotico» di Enrico. Saranno loro a caricarlo sulla seconda ambulanza. Ad un tratto, davanti le porte spalancate del mezzo medico, uno degli agenti presenti si fa un segno della croce. Alle 2:47 si attesta il suo decesso per arresto cardiaco.
La notizia verrà comunicata all’indomani da un vicino all’ex moglie, Alessandra Galeani, che si recherà subito sul luogo del delitto constatando diverse irregolarità: sarebbe stata innanzitutto gettata dell’acqua – mentre Enrico si trovava in ambulanza – per eliminare la vistosa macchia di sangue formatasi intorno al capo dell’ex marito. Evento a cui avrebbe assistito anche un testimone, mai sentito dal Gip.
La Procura di Messina apre un’inchiesta dove ad essere indagati sono il carabiniere che ha immobilizzato Enrico e i tre sanitari del 118 intervenuti. La procura per due volte chiede l’archiviazione, poi nel giugno del 2023 la Cassazione accoglie il ricorso dei familiari e trasmette gli atti al tribunale di Messina per decidere sull’eventuale proseguimento delle indagini.
Da Messina fanno sapere che non ci sono ulteriori elementi da valutare. In realtà, come sostiene Alessandra, sono diverse le contraddizioni che meriterebbero di essere approfondite. Dall’esame autoptico emerge che la morte di Enrico è avvenuta alle 2:00, ovvero quando il suo corpo si trovava ancora riverso sull’asfalto.
A questo si aggiungono anche altre due considerazioni. Secondo la relazione tecnica medico-legale, l’emorragia innescata dalla ferita sulla fronte sarebbe stata tra le cause dell’arresto cardiaco. È fondamentale capire se a provocarla sia stato l’impatto di Enrico con una cabina Tim nelle vicinanze (evento confermato dalle dichiarazioni di alcuni carabinieri, ma non riscontrato da indagini di laboratorio) o quello con il manganello utilizzato dagli agenti sul quale sono state rilevate due tracce di sangue, di cui una non identificata.
Allo stesso modo, stando a quanto scritto nella prima archiviazione del procedimento,«non ci sarebbe nessuna traccia di eventuale soffocamento della vittima». Affermazione che viene in parte contraddetta da «quell’imponente cianosi» notata da una dei soccorritori e che potrebbe essere legata alla manovra applicata per immobilizzare Enrico. Potrebbe essere stata la compressione del ginocchio esercitata sulla schiena ad impedirgli di respirare. Manovra applicata contravvenendo alle linee guida dell’Arma dei Carabinieri relative agli interventi nei confronti di «soggetti in stato di agitazione psicofisica».
Come sostiene Laura Renzi, coordinatrice campagne per Amnesty International Italia: «La famiglia di Enrico Lombardo è ancora in attesa di conoscere la verità rispetto a ciò che è successo quella notte. Dopo due archiviazioni, il legale ha cercato di far riaprire le indagini ma anche questa possibilità gli è stata negata. Su questa vicenda restano tante ombre e tante domande che non hanno trovato risposta, Una tra tutte: come si possa morire mentre si è nelle mani dello Stato».
Nonostante le archiviazioni e i colpevoli silenzi di un paese dove i dettagli di quel violento pestaggio sono passati di bocca in bocca per poi essere prontamente negati dinnanzi al Gip, Alessandra dopo cinque anni si chiede se sia possibile che chi abbia ucciso Enrico continui regolarmente a indossare una divisa. A risponderle il corpo massacrato e martoriato di Enrico in attesa di giustizia.
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