Le ragioni che hanno spinto la famiglia della giornalista Cecilia Sala, in carcere in Iran da 16 giorni: per Palazzo Chigi serve discrezione di fronte a Teheran, che nel complicatissimo negoziato gioca a carte coperte
Sedici giorni, in ore, equivale a un numero gigantesco che dà l’idea del tempo che passa o che non passa mai. Sono 384 ore che Cecilia Sala è rinchiusa in una cella in regime di isolamento nel carcere di Evin. E sono 384 ore che la madre, il padre e il compagno la stanno aspettando a casa, domandandosi: che cosa possiamo fare da qui? «La situazione di nostra figlia, Cecilia, chiusa in una prigione di Teheran, è complicata e molto preoccupante», hanno scritto ieri i genitori in una nota. «Per provare a riportarla a casa il nostro governo si è mobilitato al massimo e ora sono necessari oltre agli sforzi delle autorità italiane anche riservatezza e discrezione. Abbiamo sentito l’affetto, l’attenzione e la solidarietà delle italiane e degli italiani e del mondo dell’informazione e siamo molto grati per tutto quello che si sta facendo».
Il messaggio prosegue spiegando che «la fase a cui siamo arrivati è, però, molto delicata e la sensazione è che il grande dibattito mediatico su ciò che si può o si dovrebbe fare rischi di allungare i tempi e di rendere più complicata e lontana una soluzione. Per questo abbiamo deciso di astenerci da commenti e dichiarazioni e ci appelliamo agli organi di informazione chiedendo il silenzio stampa. Saremo grati per il senso di responsabilità che ognuno vorrà mostrare accogliendo questa nostra richiesta». E poi la doppia firma Elisabetta Vernoni e Renato Sala.
I genitori chiedono di «fare silenzio» per non rischiare di complicare le trattative con Teheran che pretende dall’Italia il rilascio immediato di Mohammad Abedini, ammettendo, quindi, che l’incarcerazione della reporter del Foglio e di Chora Media è legata a quella dell’ingegnere dei droni iraniano, arrestato a Milano il 16 dicembre per conto degli Usa.
Prima di decidere di diffondere la nota, la famiglia di Sala si è consultata con il ministro degli Esteri Antonio Tajani e con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. Le autorità li hanno messi al corrente delle difficoltà che stanno incontrando. Spiegano che tutto ciò che vorrebbero o potrebbero fare è spesso anticipato dai giornali. Sia sul fronte del rapporto con gli iraniani, sia su quello con gli americani, visto che questa è una partita a tre. Così, secondo il governo, mentre gli ayatollah giocano a carte coperte — copertissime — l’Italia si trova a giocare a carte troppo scoperte e questa condizione renderebbe impari il negoziato.
Elisabetta Vernoni ha avuto un lungo colloquio telefonico con Tajani in cui ha chiesto in modo perentorio che le condizioni di detenzione della figlia siano dignitose.
La madre è molto preoccupata dell’aspetto psicologico e delle ripercussioni che questa prigionia potrà avere sulla giornalista. Lo ha detto anche due giorni fa, dopo l’incontro con la premier Meloni: «Al telefono Cecilia mi ha raccontato che non ha nemmeno un cuscino su cui riposare. Le condizioni carcerarie per una ragazza di 29 anni che non ha fatto nulla non possono segnarla per tutta la vita».
Il primo gennaio Sala è riuscita a chiamare per la seconda volta i genitori e il compagno, il giornalista Daniele Raineri. Non ha un materasso e dorme su una coperta, non ha ricevuto nessun pacco dell’ambasciata, non ha nemmeno la mascherina per proteggersi dalla luce al neon accesa 24 ore su 24. Uno stato detentivo opposto a quello assicurato ad Abedini. Saperla a terra, sempre sola e al freddo ha scioccato la famiglia che vive in attesa della prossima telefonata, ma ha anche accelerato la reazione del governo che chiede agli ayatollah l’unica cosa accettabile: «Il rilascio immediato di Cecilia Sala».
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