Il 2025 sarà l’anno della maturità per l’Unione europea. Con una congiunzione astrale apparentemente favorevole. Le minacce commerciali di Donald Trump, l’apparente disimpegno Usa dagli obblighi ambientali, gli spiragli di pace in Ucraina sembrano lanciare un unico messaggio: avanti ora (o mai più?) con l’autonomia strategica. Una formula che non significa necessariamente rivoluzione, rottura col passato e con gli alleati, stravolgimento degli equilibri. Lo ha chiarito negli ultimi otto anni il Consiglio europeo nelle sue conclusioni: per autonomia strategica si intende la “capacità di agire autonomamente, se e quando necessario, e con i partner, quando possibile”. Tradotto: alleati degli Stati Uniti, ma nella posizione di parlare con tutti in maniera autonoma; sotto l’ombrello Nato, ma con un’autonomia, anche militare, da preservare.
A spiegare l’importanza di questo salto in avanti ci aveva pensato anche l’ormai ex Alto rappresentante per la Politica Estera, Josep Borrell: puntare all’autonomia strategica è importante “perché il mondo è cambiato. È difficile affermare di essere un’unione politica capace di agire come un attore globale e come Commissione geopolitica senza dar prova di autonomia. Quali sono i fattori che rendono questo concetto più rilevante che mai? Il primo è che il peso dell’Europa nel mondo si sta riducendo. Trent’anni fa rappresentavamo un quarto della ricchezza mondiale. Si prevede che tra 20 anni non rappresenteremo più dell’11% del Prodotto nazionale lordo mondiale, una percentuale di gran lunga inferiore a quella della Cina, che lo raddoppierà, al 14% degli Stati Uniti e pari a quella dell’India. La conclusione è lampante. Se non agiamo ora insieme, diventeremo irrilevanti. In questa prospettiva, l’autonomia strategica è un processo di sopravvivenza politica“.
Con queste premesse, il 2025 si annuncerebbe come un anno di svolta storica per il Vecchio Continente. Il timore, invece, è che col suo immobilismo Bruxelles lasci passare questo treno rimanendo al di là della linea gialla. Anche perché l’opportunità arriva in un momento di grandi difficoltà per l’Ue: l’asse franco-tedesco è debole come mai prima d’ora, le prese di posizione, soprattutto in tema di politica estera, sono risultate miopi, con Mark Rutte la Nato ha accresciuto il suo livello di spregiudicatezza e le divisioni interne ai 27 Stati membri diventano più marcate ogni mese che passa.
Il ritorno di Donald Trump, il ‘protettore’ che batte cassa
Il più importante stravolgimento internazionale è sicuramente il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Sparirà in parte, almeno stando alle dichiarazioni e alle premesse, l’assoggettamento alle strategie geopolitiche americane in giro per il mondo (si legga guerra in Ucraina) che ha caratterizzato la presidenza Biden. Ma su questo, ci ha pensato la nuova Commissione a mettersi all’angolo: sostegno incondizionato a Kiev, ha promesso, anche senza il supporto americano.
L’impostazione feudale creata dall’amministrazione Dem in politica estera verrà però trasferita, o per meglio dire accentuata, in campo economico. La fine della dipendenza europea dal gas russo, traguardo certamente positivo, è stata raggiunta, però, legandosi in maniera altrettanto solida alle fonti energetiche di altri Paesi, Stati Uniti compresi, a prezzi meno concorrenziali. E con Trump ci si prepara ad alzare l’asticella della dipendenza da Washington. Lo ha detto lui stesso: “Comprate più gas e petrolio americano o vi colpiremo con i dazi”. La risposta europea non è stata certo quella di una potenza che aspira a una propria autonomia: “I fatti sono che Ue e Usa hanno delle economie profondamente integrate. Siamo pronti a discutere con Donald Trump su come possiamo rafforzare la nostra cooperazione, anche nel settore energetico. C’è già un alto livello di complementarietà nelle relazioni commerciali tra Ue e Usa”, si sono limitati a rispondere da Palazzo Berlaymont.
E sulla Difesa comanda la Nato
D’altra parte, l’unica bussola del tycoon è quella dell’interesse nazionale, anche a scapito dei rapporti con gli alleati, e il vocabolario che conosce è solo uno, quello del denaro. Vale nel commercio come nella Difesa. Le minacce di abbandonare la Nato se tutti i membri non avessero raggiunto la spesa del 2% del Pil per la Difesa non si contano più. E con alcuni Paesi membri che fanno fatica a rispettare gli accordi, a rilanciare è arrivato il nuovo segretario generale, il ‘falco’ Mark Rutte: “I membri paghino molto più del 2%, altrimenti sarà impossibile raggiungere i nostri obiettivi”. Un’Europa in evidente difficoltà economica, si penserà, avrà sicuramente fatto sentire la sua voce. Nemmeno per sogno. Nel discorso col quale ha chiesto la definitiva fiducia al Parlamento Ue, tra l’altro citando i dati in maniera impropria, Ursula von der Leyen è stata chiara: “La Russia spende fino al 9% del suo Pil per la Difesa. L’Europa spende in media l’1,9%. C’è qualcosa di sbagliato in questa equazione. La nostra spesa per la Difesa deve aumentare”. Tranquilli, però: se per rispondere alla crisi seguita alla pandemia sono state alzate le barricate sul debito comune, sulle armi le posizioni sembrano essere ben più vicine. Per questo si discute di eurobond per la Difesa.
L’ambiente tradito
Donald Trump alla Casa Bianca significa anche un’altra cosa: no alle leggi per l’ambiente e ai limiti sulle emissioni in nome della produttività. Così, con gli Stati Uniti che si disimpegneranno ancora di più dalla battaglia sul clima, la Cina e il Sud Globale che crescono a velocità che l’Europa si sogna e pure la Germania che, col nuovo governo presumibilmente a guida Cdu, pensa di fare retromarcia sull’abbandono del nucleare e delle centrali a carbone, cosa resterà del Green Deal? La sua testimonial, Ursula von der Leyen, assicura che non verrà abbandonato, ma rilanciato tenendo più in considerazione la sostenibilità economica. Lo spieghi però al suo partito europeo, il Ppe, per niente convinto. Il rischio è che si trasformi ancora di più in una serie di provvedimenti di facciata.
In questa direzione va letto anche il recente stop al gas russo che arrivava nel Vecchio Continente attraverso l’Ucraina. La decisione di Kiev non impatta tanto dal punto di vista degli approvvigionamenti, che nelle parole dei leader Ue sono garantiti, ma più da quello dei prezzi e della pianificazione futura. Ricorrere in maniera più massiccia al gas liquefatto proveniente dagli Stati Uniti farebbe crescere il costo dell’energia, come già successo in vista dello stop alle forniture di Mosca, e questo, anche per tutelare le aziende e limitare un ulteriore innalzamento dei prezzi, potrebbe anche spingere l’Ue a maggiori concessioni su altre fonti di energia, anche meno ‘pulita’.
Cordoni sanitari, il cappio al collo dell’Ue
C’è poi una questione tutta interna, tutta europea, ma altrettanto problematica da risolvere: quella dei cordoni sanitari. I nazionalismi di vario colore avanzano, ma a Bruxelles questa cosa sembra non voler essere affrontata. Il “pericolo” non viene dal nulla: è il frutto di politiche nazionali miopi, di inazione a livello comunitario, di un’organizzazione e divisione del potere europeo causa dell’immobilismo che sembra ormai diventata la principale caratteristica delle istituzioni Ue. Una politica forte risponderebbe a queste tendenze anti-europeiste, a tratti illiberali e violente, col buon governo. Invece scende al loro livello e decide di usare la censura. Era successo nel 2019, quando le forze tradizionali decisero di imporre il cordone sanitario sul gruppo Identità e Democrazia del quale facevano parte anche la Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen. E anche nel 2024, con i nazionalismi che hanno aumentato notevolmente la loro presenza tra i banchi della Plenaria, la mossa è stata riproposta contro i gruppi dei Patrioti e quello dei Sovranisti, escludendo dalla ripartizione delle cariche (anche minori) ben 109 eurodeputati e tre partiti di governo.
La strategia, in questi cinque anni, ha avuto l’unico effetto di premiare queste formazioni, con i capi di Stato e di governo diventati talmente forti da riuscire a imporsi anche in sede di Consiglio Ue (vedi Viktor Orbán). Ma non basta, mentre si lavora all’allargamento a Stati che presentano al loro interno forti tendenze nazionaliste, dall’Ucraina a quelli dei Balcani, questa strategia fino a oggi fallimentare sembra trovare un appiglio sia all’interno di alcuni Stati membri, come la Romania, sia in Paesi candidati a entrare nell’Unione, come la Georgia. La Corte di Costituzionale di Bucarest, con un’inversione a U maturata in soli tre giorni, ha deciso prima di dichiarare validi e poi annullare i risultati del primo turno delle Presidenziali vinte dal filo-russo Calin Georgescu, con accuse ancora tutte da provare nel momento in cui si scrive. In Georgia, invece, la presidente uscente Salome Zurabishvili si è messa alla guida delle proteste di piazza dopo la vittoria del suo successore Mikheil Kavelashvili, considerato vicino a Mosca, rifiutandosi di passare il testimone se non verranno convocate nuove elezioni politiche, in una rivisitazione in salsa caucasica del 6 gennaio trumpiano. Di fronte alla regolarità del voto stabilita dalle commissioni elettorali, dalla Corte Costituzionale e perfino dall’Osce, l’Unione europea cosa ha deciso di fare? Accogliere la (ex) presidente Zurabishvili a Strasburgo con tutti gli onori del caso.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link