Giro di vite del Cnf sulle informazioni rese dagli studi legali

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Linea dura del Consiglio nazionale forense sulle informazioni rese dagli studi legali sulle operazioni condotte per conto dei propri clienti. Con la sentenza n. 294/2024, resa nota nei giorni scorsi il Cnf, nel respingere il ricorso di un noto studio legale sanzionato con l’“avvertimento” per violazione dell’art. 35, co. 8, del Codice Deontologico (“Dovere di corretta informazione”), ha affermato che il divieto di divulgare il nominativo di clienti e delle parti assistite non ammette deroghe e non può essere aggirato neppure riproducendo – in modo enfatico, autocelebrativo e promozionale – articoli di stampa che diano quell’informazione.

Nel caso concreto, l’avvocato aveva riprodotto sul proprio sito internet e sulla relativa newsletter la notizia di stampa che riferiva l’assistenza legale prestata dall’incolpato stesso in una complessa acquisizione societaria, con dettagli anche sui nominativi delle parti.

Il legale si era difeso sostenendo che quando, come nel caso di specie, la “disclosure” del nominativo del cliente sia già stata fatta da terzi e con il consenso del cliente medesimo, non sarebbe ravvisabile la violazione del Codice essendosi il difensore incolpato «solo limitato a pubblicare notizie rese di pubblico dominio da altri».

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Il Cnf ricorda che il divieto per l’avvocato di indicare il nominativo dei propri clienti, ancorché questi vi consentano, si è mantenuto dal primo Codice Deontologico del 1997, al successivo decreto Bersani (n. 223/2006), alla legge professionale n. 247/2012, alla nuova versione del Codice del 2014, ma anche con la modifica dell’art. 35 CD deliberato dal Cnf il 22 gennaio 2016 che «ha lasciato tuttavia del tutto intonso l’ottavo comma, rilevante nel caso di specie».

Inoltre, la decisione pone l’accento sulle nuove forme di comunicazione dove «la notizia non viene recepita dal giornalista, ma quasi sempre fornita (e assai spesso pagata), dagli stessi professionisti come forma palese di informazione/pubblicità». «È del tutto evidente – prosegue – che la pubblicazione attraverso tali mezzi di informazione costituirebbe un facile, quanto inaccettabile, ‘escamotage per eludere il divieto posto dall’art. 35 C.D.; in altre parole il professionista potrebbe essere tentato di dar corso per sua iniziativa alla pubblicazione su tale stampa non qualificata per poi ritenersi autorizzato alla sua riproduzione, eludendo così, o cercando di eludere, ogni divieto».

Riguardo al consenso del cliente, il Collegio afferma che la norma tutela non solo il diritto/dovere di riservatezza e segretezza, ma anche l’immagine, la dignità e il decoro della professione. Sul punto, le Sezioni Unite (n. 9861/2017) hanno ribadito che il rapporto tra clienti e avvocati non ha valenza meramente privatistica a carattere libero professionale ma una importante valenza pubblicistica. L’avvocato non è, infatti, solo un libero professionista ma anche il necessario “partecipe” dell’esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, dal momento che nessun processo (salvo i processi civili di limitatissimo valore economico) può essere celebrato senza l’intervento di un avvocato.

E questo spiega perché possa «non risultare dirimente – nel senso di escludere il relativo divieto – il consenso prestato dai clienti». E lo stesso, argomenta la decisione, dovrebbe valere nell’ipotesi in cui il nominativo sia reso noto da terzi anche tramite pubblicazioni via internet o a mezzo stampa.

L’art. 35 co. 8 del NCDF secondo il quale è vietato all’avvocato, nelle informazioni al pubblico, indicare il nominativo dei propri clienti, ancorché questi vi consentano, dunque va letto «nell’ottica di una necessaria cautela diretta ad impedire una diffusione che potrebbe riguardare non solo i nominativi dei clienti stessi ma anche la particolare attività svolta nel loro interesse con interazioni di terzi, prestandosi ad interferenze, condizionamenti e strumentalizzazioni». Così tutelando anche l’autonomia del professionista «in stretta correlazione con la dignità ed il decoro della professione: l’aver negato rilevanza alla volontà delle parti ne è evidente dimostrazione».

Tornando al caso concreto, entrambe le comunicazioni contengono il nome dello studio e dei clienti assistiti. Nel primo caso riferendo che lo Studio Legale avrebbe «assistito il Consorzio [AAA] nel leverage buy out che ha portato all’acquisizione del 100% di [BBB] s.r.l.», mentre nel secondo si dà atto che lo Studio ha prestato assistenza a [CCC] e [DDD] nei concordati preventivi.

«Risulta pertanto acclarato – si legge nella sentenza – il fatto che l’incolpato abbia indicato il nominativo di propri clienti o parti assistite sul proprio sito web e nella propria newsletter, e quindi in attività pacificamente di informazioni al pubblico».

Inoltre, l’incolpato «non si è affatto limitato ad una mera riproduzione di un articolo di stampa o al comunicato stampa reso noto dalla cliente», trattandosi piuttosto di una comunicazione «redatta ad hoc e a sé stante dai profili anche promozionali/autocelebratici laddove viene indicato che l’operazione ha avuto buon esito “Grazie alla tecnicalità adottata da [OMISSIS]” ed espressamente suggerito di rivolgersi all’avv. [RICORRENTE] per avere ulteriori informazioni sulla tematica de leveraged buyout».

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