Donna, libera, occidentale e giornalista: Sala è tutto ciò che il regime iraniano teme e vuole reprimere. Urgente aprire gli occhi
Sono passati quindici giorni dal pomeriggio in cui Cecilia Sala è stata arrestata senza spiegazioni dall’Iran e quindici giorni dopo il dibattito intorno alla barbara detenzione della nostra Cecilia si è allontanato da una questione chiave senza la quale è difficile provare a mettere a fuoco quella che è la vera essenza della violenza di un regime come quello iraniano. Le trattative diplomatiche sono importanti, il lavoro delle agenzie di sicurezza pure, il rapporto con gli Stati Uniti anche, ma il dettaglismo attorno al caso di Cecilia diventa fumo, vapore, fuffa senza tenere a mente anche quello che ci mostra, senza più infingimenti, la detenzione criminale di una giornalista innocente in un carcere iraniano. Cause e soluzioni devono stare insieme. E il punto è semplice. Essere, insieme, in un unico pacchetto, una giornalista, una donna, libera e occidentale è quanto di più pericoloso possa esistere nei regimi illiberali. E se quei regimi sono poi guidati da una dottrina islamista essere donne libere e occidentali diventa automaticamente non un peccato mortale ma un crimine contro l’ideologia di stato.
Governare la diplomazia degli ostaggi è una priorità, ovvio, e speriamo che il pugno duro mostrato due giorni fa dal governo possa portare risultati presto, come sembra sperare l’esecutivo. Ma in questo senso non è meno prioritario ricordare la ragione per cui Cecilia Sala è diventata suo malgrado un simbolo di tutto quello che l’Iran non può non detestare. E d’altronde si capisce che un paese che imprigiona il più alto numero di scrittrici e attiviste al mondo, un paese che solo nel 2024 ha arrestato almeno 644 donne per uso improprio del velo, un paese in cui le donne che non usano il velo possono essere sottoposte a dure punizioni, anche per infrazioni minori, un paese considerato il più pericoloso al mondo per scrittori e giornalisti, dopo la Cina, secondo il Freedom to Write Index 2023, un paese dove nel 2024 sono stati emessi almeno 26.649 mesi di condanne a pene detentive nei confronti di 604 individui da parte di organi giudiziari per reati afferenti alla libertà di pensiero ed espressione, di cui 24,719 mesi di reclusione effettiva, un paese che approva fatwe contro gli scrittori che osano criticare il regime, un paese in cui le donne vengono uccise perché osano ribellarsi al velo, un paese che ha al centro della sua agenda la volontà esplicita di esportare, tutelare e promuovere la rivoluzione islamica, come sancito dalla Costituzione iraniana, e che identificando nell’islam estremista la risoluzione di ogni problema vede inevitabilmente l’imperialismo e l’occidente come le radici di tutti i problemi del mondo musulmano, un paese in cui succede tutto questo, si diceva, deve essere giudicato non per quello che chiede ma semplicemente per quello che fa e per quello che rappresenta.
Viene naturale, in questi giorni, pensare se l’Iran avrebbe avuto il potere che ha oggi se l’opinione pubblica internazionale, Onu compresa, in questi anni, piuttosto che concentrarsi sui peccati dell’Occidente, si fosse concentrato sui crimini dell’Iran provando a combattere le basi del fanatismo che hanno trasformato un grande paese in un generatore automatico di terrore. Viene naturale chiederselo. E viene naturale anche ragionare su un altro punto. Perché, è vero, il racconto di questi giorni drammatici non può prescindere dalle soluzioni, è evidente, ma concentrarsi solo sulle soluzioni senza studiare le cause significa voler rimuovere il contesto, significa voler spostare l’attenzione dalle ragioni per cui Cecilia si trova in carcere, ragioni che non c’entrano nulla con le accuse degli ayatollah, ragioni che non c’entrano nulla con la lentezza delle trattative, ragioni che non c’entrano nulla neppure con la forse giusta affermazione che qualcuno avrebbe dovuto avvertire Cecilia del rischio degli italiani di essere trasformati in pedine di scambio dopo l’arresto dell’ingegnere iraniano in Italia. Spostare l’attenzione da tutto questo è pericoloso, anche per le trattative in corso, e concentrarsi sulle soluzioni senza mettere a fuoco le cause rischia di far rientrare tutto in una normalità che non c’è, rischia di normalizzare un paese che considera la libertà un crimine, che considera il giornalismo un reato, che considera l’occidente un grande Satana da combattere, che considera le donne libere un pericolo per la propria stabilità.
Per disarmare la diplomazia degli ostaggi del regime, invece che incoraggiarla, anche in queste ore drammatiche occorre chiamare le cose con il loro nome, non spostare lo sguardo dalle cause, concentrarsi sulle responsabilità e non smettere mai di ricordare che la sorte di Cecilia Sala non è nelle mani di Biden, ma è nelle mani di quei signori che governano a Teheran e che in nome dell’Islam hanno dato vita a un sequestro di persona a scopo di estorsione trasformando ancora una volta simboli della libertà in un crimine contro la dittatura degli ayatollah. Riportarla a casa senza cedere ai ricatti, e senza farsi prendere in giro dal governo iraniano, che come è noto aveva detto al governo che Cecilia in cella stava bene (falso), che le era stato concesso uno spazio decente (falso), che le era stato offerto un trattamento privilegiato (falso), che le era stato fatto arrivare un pacco con vestiti caldi, mascherina per gli occhi e il minimo indispensabile per sopravvivere a una carcerazione durissima oltre che ingiusta (falso), come qualche libro (falso), forse si può. Ma per farlo, oltre a pensare alle soluzioni, occorre ricordare le cause, occorre non perdere di vista il contesto, per provare a riportare a casa Cecilia il primo possibile e dire contemporaneamente mai più.
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