Che la transizione ecologica debba essere fatta nel rispetto degli interessi di chi lavora è ormai quasi una banalità politica. Di «just transition», transizione giusta, sono piene le direttive europee e i programmi dei partiti. Cosa questo significhi, però, è un po’ meno banale. Gli impiegati del settore fossile sono almeno venti milioni in tutto il mondo – una cifra a cui andrebbero aggiunti i lavoratori della plastica, dei veicoli a combustione, degli allevamenti intensivi. 685 milioni di persone sono in povertà energetica assoluta – tradotto, sostanzialmente non hanno accesso all’elettricità. Intere nazioni vivono grazie alla produzione di combustibili fossili, inclusi Paesi poveri come Iraq e Venezuela.
LA TRANSIZIONE, SPECIE SE «GIUSTA», dovrà tutelare il lavoro dei primi, dare energia ai secondi ed evitare il default a queste ultime. Il tutto navigando le altre sfide relative alla decarbonizzazione – reperire i materiali necessari, ridistribuire i profitti – e rispettando i tempi, strettissimi, che la crisi climatica impone. Un intricato incastro di soluzioni sul quale il movimento dei lavoratori globale avrebbe qualcosa da dire.
JUAN CARLOS SOLANO GUILLEN e German Mantilla sono due sindacalisti colombiani. Il primo ha un passato da avvocato, ma è dirigente di Sintracarbon, l’organizzazione di categoria del settore carbonifero; il secondo è nel direttivo nazionale di Sintraelecol, il sindacato del settore elettrico, e, prima del distacco sindacale, nelle centrali ci ha lavorato. Li abbiamo incontrati nel corso di COP29, il vertice sul clima delle Nazioni Unite di Baku del novembre scorso. Entrambi operano al centro di un paese che si sta lentamente trasformando in un laboratorio mondiale della transizione ecologica. La Colombia, sulla carta, ha tutte le caratteristiche delle nazioni che di abbandono dell’energia sporca non vogliono sentir parlare: è 19° al mondo per produzione di petrolio, 4° per esportazione di carbone, e quasi il 20% della sua popolazione si trova in stato di povertà energetica. Eppure, da quando la sinistra è al potere, qualcosa ha iniziato a cambiare.
NEL 2022 L’ECONOMISTA GUSTAVO PETRO, a capo della coalizione progressista Pacto Histórico, ha vinto le elezioni, nominando ministra dell’ambiente l’ecologista e compagna di partito Susana Muhamad. I due, assieme, hanno scritto un piano per la transizione ecologica che vorrebbe fare da modello per il Sud globale. Il primo passo è stato l’intenzione di non concedere più licenze estrattive per nuovi giacimenti fossili: esattamente il tipo di decisioni che terrorizzano un sindacalista del carbone. «Ma le nostre relazioni col governo Petro sono eccellenti» dice subito Solano Guillén. «Per la prima volta siamo ascoltati, per la prima volta siamo al governo. Ma occhio: questo non vuol dire che siamo al potere». Cosa significhi quest’ultima frase lo spiega subito German Mantilla: «I media mainstream, tutti privati e ostili al governo Petro, fanno credere che con le sue politiche ci saranno blackout e costi dell’energia alle stelle». Come molti dei sindacalisti del settore fossile – in Colombia tanto quanto in Italia – la transizione ecologica provoca più di una preoccupazione nei due intervistati. Ma entrambi sono pronti a difendere – anzi, considerano loro – il governo che ne è alfiere.
È IL PRIMO DEI MOLTI ELEMENTI di complessità che emergono quando il mondo del lavoro si confronta coi temi della decarbonizzazione, ma anche il segno dell’importanza del dialogo con le organizzazioni sociali. La formula che i due ripetono in continuazione è «energia popular», energia popolare. Significa proprietà pubblica degli impianti di corrente pulita e, possibilmente, controllo locale tramite formule simili alle nostre comunità energetiche. Un progetto di micro-produzione diffusa che si vorrebbe abbinare alla reindustrializzazione del Paese. «Le pale eoliche non portano lavoro, perché non siamo mica noi a costruirle» ci dice ancora Solano Guillén. «Il settore minerario è essenziale: in Colombia abbiamo molto rame, che serve alla transizione, e possiamo estrarlo con giudizio, lontano dalle riserve idriche così da non inquinarle. Ma poi non siamo noi a trasformarlo, come non siamo noi a costruire rotori e pannelli». Si tratterebbe, di fatto, di ridiscutere l’intera divisione internazionale del lavoro, che da sempre assegna all’America Latina il ruolo di mera produttrice di materie prime. «È qualcosa di grande, e possiamo provarci solo finché c’è questo governo».
PER FARE QUELLO CHE SOGNANO i due sindacalisti servono soldi, e molti. Risorse non banali da reperire a Nord e semplicemente assenti nel Sud globale. Per questo il governo di Bogotà sta tentando un accordo per la giusta transizione energetica sulla falsariga di quelli già annunciati a partire dalla COP26 di Glasgow nel 2021. La formula è semplice, almeno in teoria: un gruppo di paesi ricchi paga, e la nazione in via di sviluppo che riceve il denaro accelera in cambio l’abbandono dei combustibili fossili.
La Colombia punta a raccogliere 40 miliardi di dollari, ma ha di fronte gli stessi due problemi che hanno decretato per ora il fallimento di tutti i piani simili già tentati: qualità e quantità della finanza. I soldi arrivati negli accordi siglati negli scorsi anni, cioè, sono sempre stati troppo pochi e, soprattutto, offerti in larga parte come prestiti – e nessun Paese povero vuole indebitarsi per fare la transizione. «La transizione al Sud si fa solo se i soldi li inizia a mettere il Nord, su questo non c’è dubbio. E la scala deve essere quella delle migliaia di miliardi». A parlare al manifesto è Renny Massiel Figuereo Alcantara, della Confederación Nacional de Unidad Sindical, un sindacato della Repubblica Dominicana. «Siamo ottavi al mondo per vulnerabilità rispetto agli effetti della crisi climatica. Da noi aumento delle temperature significa che prima i tifoni colpivano un dato territorio ogni qualche anno, ora ogni anno». Figuereo Alcantara viene dal settore pubblico, dalla sanità, ed è di questo che vuole parlare: «Sapete che la dengue è sempre più frequente per via del riscaldamento globale? Da noi adattarsi al clima che cambia vuol dire anche far lavorare i medici più ore, assumerne di più. E servono soldi». Dall’altra parte del mondo, fa gli stessi ragionamenti Julius Canglet, dirigente della Federation of Free Workers, organizzazione dei lavoratori filippina.
«I bisogni per la transizione nel Sud globale sono stimati attorno ai 5000 miliardi di dollari ogni anno. Il rischio è che tutti i fondi passino dalle banche multilaterali di sviluppo – Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale – che gestiscono nel loro solito modo: prestiti. Ma a noi servono finanziamenti a fondo perduto».
PER ORA LA BILANCIA DEI RAPPORTI DI FORZA pende dal lato dei governi occidentali. La COP29 di Baku, l’incontro negoziale di novembre centrato proprio sulla finanza climatica, si è chiusa con un accordo meno che al ribasso: verranno stanziati, se le promesse saranno mantenute, 300 miliardi all’anno entro 11 anni. Da nessuna parte si specifica quanti di questi saranno pubblici e a fondo perduto. Una frazione di quello che servirebbe, non nel modo che servirebbe.
Il dibattito su chi paga la transizione è profondamente diverso a seconda della nazione in cui lo si guarda. Ma su altri temi è notevole come le cose tendano ad assomigliarsi anche a continenti di distanza. «Nelle Filippine si discute molto delle jeepney» ci spiega Canglet. «Si tratta del più popolare mezzo di trasporto pubblico del Paese: vecchi minibus ottenuti, in origine, a partire dalle jeep americane della seconda guerra mondiale. Sono in gran parte estremamente inquinanti, e per questo il governo cerca da tempo di sostituirle. Ma sono anche indispensabili per la classe lavoratrice: se le si ostacola senza fornire alternative, a rimetterci sono solo i più poveri». Manila ha la sua versione del nostro dibattito sullo stop ai motori a combustione, a Bogotà troviamo la variante latina dei conflitti sull’eolico che agitano il meridione d’Italia. «Nel nord della Colombia hanno in programma di impiantare oltre 2800 aerogeneratori: 2800! Provate a immaginare quanti siano» ci dice ancora Solano Guillén, l’avvocato sindacalista del carbone. I territori sono molto diversi, ma le ragioni di chi si oppone alle pale in Colombia ricordano da vicino quelle dei nostri comitati anti-eolico: lo stesso insieme di posizioni un po’ traballanti («potrebbero fermare i venti alisei») e concrete preoccupazioni di natura sociale («se il vento è una risorsa, perché lo sfruttano multinazionali straniere?»). E soprattutto, alla base c’è lo stesso bisogno di democrazia. Un altro dei fenomeni che interessa tanto il Nord quanto il Sud del mondo è la divisione dentro il mondo sindacale.
I dirigenti che intervistiamo si dicono favorevoli ad una transizione ecologica rapida e profonda, ma non è la posizione di tutti i loro colleghi. «Ci sono sindacalisti che non vedono il contrasto alla crisi climatica come una priorità. Ma non capiscono che il costo dell’inazione è ben più alto rispetto al costo dell’azione» spiega Figuereo Alcantara.
L’ULTIMO GRANDE TEMA CHE EMERGE è quello della repressione. Qualcosa che esiste anche da noi, tra attivisti per il clima incarcerati («la repressione in Europa rappresenta una grave minaccia per la democrazia», parola del special rapporteur delle Nazioni Unite Michel Forst) e sindacati considerati alla stregua di associazioni a delinquere (è il caso dei processi contro i sindacati di base in Emilia Romagna). Ma altrove nel mondo assume tutt’altre proporzioni. «Negli anni sono stati uccisi più di 70 sindacalisti nelle Filippine» ci dice ancora Canglet. «La repressione indebolisce il movimento dei lavoratori: da noi solo il 7% dei dipendenti è sindacalizzato, pochissimi sono coperti dalla contrattazione collettiva». La stessa storia ci viene raccontata da Rhoda Boateng, che lavora alla branca africana dell’International Trade Union Confederation – la più grande rete globale di sindacati, cui appartengono tutti le realtà fin qui citate e, in Italia, i tre Confederali. Lei è nata in Ghana e vive a Lomè, capitale del Togo, ma il suo lavoro la porta ad occuparsi di tutto il continente. «In Africa il dialogo sociale è debole – ci dice – le politiche le fanno i proprietari con i governi: noi non siamo coinvolti. Ci sono eccezioni, una su tutte il Sudafrica, ma altrove la norma è che le organizzazioni dei lavoratori sono continuamente interessate da arresti, denunce, torture».
COME SUONANO TUTTI QUESTI DISCORSI, se visti dall’Italia? Lo chiediamo a Simona Fabiani, responsabile ambiente della Cgil: «Siamo sulla stessa linea d’onda dei nostri colleghi del Sud globale» ci dice. «Da un lato, la transizione va concordata passo a passo coi lavoratori. Dall’altra, abbandonare i fossili è un obiettivo in sé per la working class. Pensiamo a Valencia: più di 200 persone sono morte, e si stimano 300 mila posti di lavoro a rischio». La ricetta della giustizia climatica è monca senza esempi. Fabiani ce ne fa due: «In Italia le due grandi storie sono Civitavecchia e Gkn. La prima è una comunità intera che si mobilita per chiudere il carbone e sostituirlo con l’eolico, salvando così anche i posti di lavoro. La seconda è la più lunga occupazione della storia moderna, dove gli operai si oppongono alla delocalizzazione chiedendo riconversione ecologica. In entrambi i casi, però, manca il ruolo del pubblico».
EVENTI COME LE CONFERENZE DELLE PARTI sul clima delle Nazioni Unite, come la COP29 di Baku nel corso della quale abbiamo potuto realizzare queste interviste, sono spazi in cui i sindacati del mondo hanno modo di incontrarsi e parlare di transizione ecologica. Ma sono più l’eccezione che la norma. Il movimento dei lavoratori globali procede in ordine sparso di fronte alla fine dell’era fossile. «Se va così, però, è un problema» – conclude Juan Solano Guillén, il sindacalista carbonifero da cui siamo partiti – «la transizione giusta la fanno solo i lavoratori del Nord e del Sud globale, uniti».
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