«Le deportazioni di Trump sono nocive per l’economia Usa»

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Fra i programmi che Donald Trump ha promesso di implementare «dal primo giorno» nessuno è stato più reiterato della «chiusura del confine» e «la più grande deportazione di massa della storia». L’«emergenza immigrazione» è stata il principale cavallo di battaglia della campagna populista e, come fu per il precedente mandato, la repressione sarà prevedibilmente una priorità dell’amministrazione entrante.

Per coordinare le operazioni Trump ha designato Tim Homan come «immigration zar». Già tra il 2017 e il 2018 Homan fu fra gli esecutori più entusiasti della sottrazione di figli ai richiedenti asilo al confine come «deterrente» prima che i tribunali la ritenessero illegale. Mille, di circa cinquemila minori tolti ai genitori allora, devono ancora essere ricongiunti.
Quest’anno il neoministro ha dichiarato che se non potrà separare le famiglie, queste saranno «deportate unite». Le stime parlano di 11 milioni di individui a rischio di rimozione e per le operazioni potrebbero essere utilizzati reparti della guardia nazionale e dell’esercito. Al di là dei soprusi umanitari e della complessità logistica, la «grande deportazione» rischia di produrre effetti traumatici sulle comunità a rischio, sulla società e sull’economia. Ne abbiamo parlato con il professor Giovanni Peri, direttore del Global migration center dell’Università di California a Davis.

La retorica sovranista degli «immigrati usurpatori», così universalmente adottata dai movimenti populisti, ha un effettivo fondamento economico?

Diciamo subito chiaramente che dai numeri non vi è un’emergenza. Prevale, direi, l’uso politico di questa retorica sui posti di lavoro che vengono rubati ai nativi. Ci sono ormai vent’anni di ricerca che dimostrano come il concetto di numero fisso di posto di lavoro, che vengono “tolti” ai cittadini agli immigrati, sia un modello completamente errato. La realtà è che se tu aggiungi lavoratori in certi tipi di settori dove hai difficoltà a trovare lavoratori, le imprese si espandono e creano altri impieghi anche per i nativi. Quindi c’è un concetto di complementarietà o «local multiplier», un lavoro genera possibilità di altri lavori che lo servono e si connettono. Quindi “rubare il lavoro” sembra una caratterizzazione sbagliata a priori. La ricerca dice che gli immigrati sono complementari, attraggono imprese, aiutano la crescita, di conseguenza è fallace anche l’idea che, eliminando gli immigrati, si creino nuovi posti di lavoro per i nativi.

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Spiegherebbe anche la preoccupazione dalla fazione “confindustriale” americana che non vede di buon occhio una deportazione della forza lavoro?

Assolutamente. Il mercato americano è un’economia che cresce in modo più deregolato, un po’ più fluida, e quindi gli immigrati, anche senza titolo di studio universitario, hanno un maggiore tasso di occupazione degli americani. Fra gli immigrati messicani senza titolo di studio l’occupazione arriva all’85%, con salari relativamente bassi. L’equivalente per gli americani è 70%. Quindi sono smentite anche gran parte delle accuse di pesare sul sistema del welfare e di provocare un aumento di criminalità la povertà. Gli immigrati lavorano perché è l’unico modo che hanno per sostenersi e non ricevono molti benefit, anzi, normalmente non possono riceverne alcuno. Quindi in un certo senso sono la forza lavoro ideale per il capitalismo, per così dire. Eppure la componente di percezione è enorme. La macchina di Trump è riuscita a far passare questa idea che l’immigrazione sia fuori controllo, calcando su immagini selezionate e martellate sul caos al confine, facendo pensare che rifletta una situazione generale. Nel 2021, il 30% degli Americani diceva che ci sono troppi immigrati. Nel 2024, il 55%, quasi il 60%. Quindi questo picco di immigrazione che c’è stato tra il 2022 e il 2023 e la propaganda martellante hanno funzionato e sono stati determinanti per la vittoria elettorale.

È interessante che questi dati spesso sono molto alti in stati dove c’è meno immigrazione piuttosto che nelle località dove l’immigrazione è effettivamente maggiore.

Tutti i miei colleghi che studiano questo fenomeno rilevano regolarmente lo stesso paradosso. Nei luoghi dove l’immigrazione è più rilevante tende ad esservi anche un’opinione pubblica più positivamente disposta, dove ce n’è meno invece c’è un’opinione più fortemente contraria all’immigrazione. La mia intuizione è che dove c’è meno immigrazione, l’unica esposizione che hai al fenomeno è mediatica, mentre dove ve ne è effettivamente di più, tanti conoscono un immigrato che lavora in casa loro o con cui magari sono colleghi e questo attenua l’avversione.

La giustificazione per la repressione è quella e di «restituire gli impieghi agli americani». Cosa dicono a riguardo i precedenti storici?

Noi abbiamo studiato molto attentamente il precedente del 1929-30, prima della grande depressione quando gli Stati uniti intrapresero una deportazione in massa di messicani. Nelle località allora più interessate dalle deportazioni, molte imprese chiusero i battenti. A quel tempo i messicani lavoravano prevalentemente nella manifattura e nell’edilizia, oltre che nell’agricoltura. Le imprese, perdendo gli operai, si sono spostate altrove e quindi hanno perso il lavoro anche molti cittadini che lavoravano nell’indotto. Un’altra ondata di deportazioni avvenne negli anni Cinquanta, sotto Eisenhower. Ma anche allora non vi fu alcun corrispondente incremento di occupazione fra gli americani. Piuttosto che assumere americani, il settore agricolo si è meccanizzato, quindi senza beneficio per nuovi lavoratori ma forse con beneficio di alcune imprese che sono andate per quella via. Non mi risultano studi economici seri che mostrino che le eliminazioni o deportazioni di lavoratori messicani aiutino il lavoratore americano a trovare più facilmente lavoro.

In generale la California, col suo 30% di lavoratori nati all’estero, che cosa insegna? Cosa si può imparare da questa quinta economia mondiale e quali sono i paralleli o i contrasti con la situazione europea?

Secondo me innanzitutto che un’economia prospera che cresce e continua a essere un leader mondiale in tantissimi settori solo se è aperta all’ingresso di persone, idee, popolazioni nuove. La California però registra un equilibrio nell’immigrazione di operai e professionisti. Quindi è necessario avere una immigrazione che copra tutta la gamma – se si ha un’immigrazione unicamente di operai, questo crea un’ulteriore tensione. Se, come in California, esiste un equilibrio fra un’immigrazione di operai – prevalentemente dal Messico – e quella di scienziati e lavoratori altamente specializzati – ad esempio indiani e cinesi – questo è economicamente più sostenibile. Le componenti di un’effettiva integrazione sono molteplici, ma un lavoro solido, una prospettiva solida, sono importanti e in questo i mercati del lavoro europei hanno avuto un po’ di difficoltà. Vi è poi la questione della transizione demografica, in cui molti paesi avanzati in Europa stanno invecchiando. In teoria l’immigrazione è una prospettiva per alleviare il problema, sia perché porta lavoratori giovani e sia perché tantissimi dei servizi che gli anziani richiedono e richiederanno di fatto sono stati e sono pagati dagli immigrati. Insomma, non si tratta tanto decidere se avere immigrazione o meno, ma che tipo di immigrazione avere, come facilitare l’inserimento e vedere quali sono i settori economici in cui ha più senso incentivarla.

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