Fausto Maculan, visionario del vino, ha rivoluzionato l’enologia italiana ispirandosi alla Francia. Dai cru al Torcolato, la sua storia intreccia tradizione, innovazione e passione. Oggi, l’azienda di famiglia guarda al futuro con Angela e Maria Vittoria, mantenendo salde radici e obiettivi internazionali.
Indice
Fausto Maculan? C’est moi!
Ahhhh la France! Quando parla dei cugini d’oltralpe e della loro tradizione vitivinicola Fausto Maculan si illumina. Meta di numerosi viaggi dalla seconda metà degli anni settanta, ha imparato da loro il significato di cru, di densità d’impianto, di selezione delle uve. A furia di mal di testa, quelli che accusava quando i vignerons gli dispensavano perle di saggezza difficili anche e solo da pronunciare, ha portato la Francia a Breganze (Vi). E non sempre tra gli applausi dei colleghi che vedevano in lui un esterofilo, invasato di grandeur. Oggi si chiamerebbe benchmarking, allora si diceva copiare dai migliori, imparare l’arte e metarla da parte. E non solo per le attività in vigna e in cantina. È stato così per il passaggio alla bottiglia bordolese, sia piccola che grande; per l’etichetta da mettere in alto, più visibile, più attraente, più vicina al collo come da decenni in uso tra chateau e domaine e non in basso come si usava in buona parte d’Italia allora; per il corretto utilizzo dei vasi vinari, barriques in particolare.
Se il Torcolato di Breganze è diventato grande, nel momento in cui i Sauternes accompagnavano il carrello dei formaggi in tutti i più blasonati ristoranti del mondo e Veronelli incensava il Picolit di Rocca Bernarda, lo si deve in buona parte a Fausto. E se Breganze è diventata una denominazione piccola ma conosciuta e apprezzata, pure. Sono oltre cinquant’anni da enologo e sessanta di impegno nell’azienda di famiglia tra successi e fatiche, scelte difficili e talvolta amare. Un vissuto importante e un’esperienza imprenditoriale lunga e sedimentata negli anni. Ingombrante? Non per Angela e Maria Vittoria, le figlie che da tempo sono entrate in società e vivono il padre come un faro nonostante il passaggio generazionale in un’azienda sia faccenda complessa. E Fausto lo sa bene.
Dal casoin alla maison
Gaetano Maculan, nonno di Fausto, è nato nel 1880 e giunse a Breganze negli anni venti del novecento da Centrale, piccolo paese a nord di Thiene da dove vengono tutti i Maculan. Conduceva un’osteria e disponeva di una licenza di commercio vini. Dissetava carrettieri e produceva vino, quasi esclusivamente rosso. Morì nel 1925 e la moglie Antonietta Masetto, con sette figli da accudire e crescere, proseguì l’attività. “Uno di questi – ricorda Fausto – è Giovanni, mio padre, che figlio di madre vedova con due fratelli in guerra, oltre che vedendoci poco dall’occhio sinistro, venne esonerato dal servizio militare. Rimase a Breganze dedicandosi alla distribuzione di generi alimentari con la tessera annonaria e dal 1942 alla produzione di vino destinato all’ammasso: chi aveva uva doveva conferirne gratuitamente una percentuale stabilita da vinificare per sostenere, con la vendita del vino, lo sforzo bellico dello Stato”. Nell’immediato dopo guerra Giovanni decise di dedicarsi con più impegno alla vinificazione da destinare non più solo all’osteria. E così acquistò botti più grandi e cambiò pigiatrice. Tornarono dal fronte i fratelli Giuseppe e Antonio, quest’ultimo che impegnato con la divisione Aqui a Cefalonia salvò la pelle dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 in quanto autista di camion. Chi sapeva guidare i camion era per i tedeschi una risorsa da preservare. Tutti e tre i fratelli dal 1946 decisero di occuparsi insieme di vino. Vino bianco e rosso, indistinto, spillato dalla damigiana per gli avventori del bar e distribuito in bottiglioni da litro e da due litri per i casoini (negozi di alimentari). “Non avevano superficie vitata e all’epoca le cantine sociali non si erano ancora così sviluppate. Acquistavano l’uva dove c’era con l’uso di tagliare il vino rosso con vino pugliese e il bianco con vino siciliano per avere più colore, struttura e grado alcolico. L’uva del territorio proveniva principalmente dalle zone del fiume Piave o di Lonigo (Vi), a Breganze ce n’era ancora poca. All’epoca lavoravano per Maculan un enologo e un consulente e si usavano vasche in cemento”. I primi lavori di ristrutturazione della cantina attuale vennero fatti nel 1947; quelli di ampliamento nel 1958. Giovanni Maculan nel frattempo divenne padre di due figli: nel 1948 di Franca e nel 1950 di Fausto. “Ebbi un’infanzia felice – continua Fausto – con dei genitori molto impegnati nel lavoro. Quando è stata l’ora di iscrivermi alle medie, che a Breganze non c’erano, sono finito a frequentare il Collegio vescovile Pio X di Treviso solo maschile e in regime di convitto. Si tornava poco a casa, grossomodo una volta al mese, ma nonostante la lontananza dalla famiglia e a volte la solitudine patita, mi ci sono adattato anche perché non mancava nulla comprese svariate attività sportive. Un privilegio per l’epoca. A scuola andavo piuttosto bene e c’era l’obbligo di studiare almeno tre ore al giorno. Terminato il triennio mi era stato consigliato un liceo ma alla fine mi sono trovato a frequentare l’istituto agrario di Conegliano (Tv) dove, di fatto, ho vissuto di rendita. Un cruccio? Non proprio, ma non ho imparato niente se non con insegnanti stimolanti come quello di chimica; di enologia e viticoltura zero. Mi diplomai che non sapevo niente, lacune che ho colmato studiando come un forsennato non appena misi piede in azienda”. I fratelli Maculan si divisero nel 1964. In particolare Antonio finì per occuparsi di produzione e stagionatura di formaggi, lavorazione insaccati e vendita di alimentari in genere mentre Giovanni continuò a seguire il vino con una ventina di dipendenti e sei mezzi per le consegne; la cantina aveva una capacità di 23.000 ettolitri. Inizia la rivoluzione di Fausto: i primi risultati gratificanti arrivarono sul vino bianco, grossomodo nei primi anni 70. “All’epoca bastava acquistare tre macchinari (pressa, vasca in acciaio inossidabile e frigo) per avere una svolta nella qualità del vino bianco. Si lavorava bene e si guadagnava il giusto. Ma non c’era un riconoscimento gratificante sulla qualità del prodotto e a me non piaceva l’idea di fare vino bianco e vino rosso sfusi e indefiniti. Soprattutto volevo vendere il vino in bottiglie da 750 ml”. Adempiuto nel 1972 ad Aosta al servizio di leva col grado di sotto tenente AUC (Allievo Ufficiale di Complemento) degli alpini dove comandava le salmerie con decine di muli, Fausto tornò in azienda con le idee chiare. “Godevo di molta autonomia e nel frattempo mio padre continuava a vendere sfuso e bottiglioni. Nel 1973 seguo di fatto la prima vendemmia con l’obiettivo di vinificare uve mono varietali ed imbottigliarne il vino. Il risultato? Deludente! Perché? Perché non avevo ancora la preparazione ma soprattutto la strumentazione adeguata. Con l’acquisto degli equipaggiamenti adeguati le cose iniziarono a migliorare talmente tanto che dopo qualche anno mi misi a produrre pure il vino novello. Anzi, ero uno dei cinque con Antinori, Gaja, Cà del Bosco e Nino Negri che producevano il vino novello già nel 1978 sulla scia del Boaujolais Nouveau di cui adottavamo lo stile: senza zuccheri, senza anidride carbonica e con la fermentazione malolattica completata. Nel 1984 smisi di fare novello perché a fronte di tremila lire a bottiglia il gioco non valeva la candela”.
Alla fiera di Vicenza del 1975 Fausto incontrò Perissinotto, già commerciale di Santa Margherita a cui si devono i primi successi commerciali del Pinot Grigio ma all’epoca addetto alle vendite della cantina Santi. E Perissinotto gli consigliò di dare vita ad un vino unico, distintivo: il vero e proprio biglietto da visita dell’azienda. “Era convinto che questo vino potesse essere il Torcolato. Un vino dolce, particolare, prodotto da pochissimi vignaiuoli. Capii da subito che la qualità doveva essere alta per un prodotto in grado di reggere la competizione con il Picolit di Rocca bernarda, nato da poco e che Veronelli definiva lo Chateau d’Yquem d’Italia. Fu in quel momento che mi convinsi della necessità di andare in giro per il mondo a vedere come si producevano i migliori passiti e studiai l’argomento. Studiando non potevo che arrivare ai Sauternes. E mica solo l’Yquem a duecentomila lire a bottiglia ma anche altri che si iniziavano a trovare a quindicimila lire per la mezza bottiglia nei ristoranti più blasonati. Innanzitutto noto l’etichetta che era in alto mentre noi la mettevamo in basso. Perché? Perché venivamo dalle bottiglie da litro che etichettavamo come l’acqua minerale riutilizzando i vuoti. Il bordolese, invece, ha un concetto di etichetta come il quaderno di scuola: in alto e centrale da sinistra verso destra. Lì iniziai a capire che fosse quello il posto giusto così come per l’articolo principale di un giornale quotidiano. In quel momento abbandonai la bottiglia renana e passai alla bordolese: più bassa, più bilanciata, collo perfettamente cilindrico che è cosa buona per l’apposizione del tappo e della capsula e con due versioni di vetro, verde e bianca. Inoltre sono più semplici da usare per la preparazione delle confezioni in cartone. Da tutto questo all’epoca si vedeva subito chi aveva bevuto francese e chi no. Eravamo tra i primi ad aver colto tutto ciò e queste innovazioni ci resero interessanti per i clienti tedeschi e inglesi”.
Che gran mal di testa
Ma come si fa a fare il vino più buono? Ovvero, chi faceva il vino più buono al mondo all’epoca? Nel 1979 Fausto fece il primo viaggio in Francia, precisamente in Borgogna e in Alsazia. E li vide l’uva per terra. “Criminali! Anche perché l’uva era bella. E poi vidi non più di tre, quattro grappoli in vigna. Poca, dissi al vigneron. No, no, mi rispose. Anche troppa! E quella a terra? È per gli uccelli e i vendemmiatori. Mi venne un gran mal di testa. Mi spiegò che loro non potevano produrre più di 50 ettolitri di vino ad ettaro per quella determinata doc e relativo cru. E mi accorsi che c’era addirittura chi controllava e certificava. Stabilito questo andai a visitare i più grandi, a partire da Romanèe Conti, proprio nel mentre stavo avendo i primi successi e le prime gratificazioni con il Torcolato: entrai in carta da Gualtiero Marchesi e da Ezio Santin; Franco Tommaso Marchi, all’epoca esponente prestigioso della somellierie professionale, ne scrisse sui giornali arrivando ad abbinare il Torcolato a due dessert sul Corriere di Informazione. Più o meno in quegli anni chiesi a mio padre di chiudere la sua attività perché Maculan doveva produrre solo bottiglie di vino di alta qualità. E così fu, mantenendo il livello occupazionale come da sue indicazioni”. La superficie vitata in affitto cominciava a crescere e nella prima metà degli anni ottanta la dimensione dell’azienda così come i guadagni cominciavano a farsi ragguardevoli. “Decisi di acquistare i primi terreni dove piantai con una densità di diecimila vigne per ettaro, tra lo stupore generale. “L’è matto!”, dicevano buona parte dei colleghi di Breganze considerato che l’abitudine era quella di coltivare mille vigne per ettaro con un sesto d’impianto molto ampio dove si entrava agevolmente anche con i trattori più grandi. Poche viti e tanta produzione per ceppo. Il contrario di tutto quanto serve per fare qualità, aspetto che dipende da tutta una serie di ragioni, tutte buone, tutte importanti, ma qualcuna più di altre. Ricordo che in uno dei miei primi viaggi in Francia chiesi a un produttore il perché il suo vino fosse così buono e mi rispose “me lo sogno prima di farlo”. Altro mal di testa! Ho tradotto con “se lo immagini, lo vedi, lo progetti”. E fu così che mi convinsi a portare questo modello anche da me copiando di tutto un po’: il clone di merlot utilizzato per fare il Petrus, il sistema di allevamento, l’altezza e la densità di impianto, l’inerbimento ecc. Bisogna considerare che la vigna ha un portamento sarmentoso e non va troppo nutrita. Va tenuta corta fin dall’inizio e deve vivere con poco. A Breganze mi prendevano in giro al punto da dire che avevo comperato le viti bonsai. E allora a tutti rispondevo, inascoltato, che piantare10000 vigne per ettaro avrebbe significato produrre un vino in grado di raggiungere la sua massima espressione organolettica. E io volevo primeggiare”. Contemporaneamente Fausto fu uno dei primi a comperare barrique nel 1979 in Francia. “E anche qui mi diedero del matto. Se non sai impiegare la barrique dominando tutte le componenti che la fanno lavorare al meglio e accompagnare la qualità voluta del vino, è un disastro. Come bisogna comportarsi con la botte usata? Come e quando lavarla e sterilizzarla? Tutta una serie di aspetti da capire e a cui prestare attenzione. Bastava andare a Bordeaux, guardare e poi copiare, anzi ispirarsi adattando quello che avevi a disposizione. Fu un’evoluzione incredibile che si adattava molto bene a determinate varietà come il cabernet sauvignon e lo chardonnay. Sono venuti in autobus fin dall’Alto Adige a visitare i miei impianti; dalla Valpolicella un sacco di produttori rinomati. I risultati furono appaganti”.
Portiamo Breganze sotto Firenze
Con il rosso si accorse una volta di più che bisognava coltivarsi l’uva da vinificare perché “nessuno è in grado di allevarla esattamente come vuoi tu; ne producono mediamente troppa e invece io dovevo: ottenere un chilo d’uva per ogni metro quadro di superficie foliare attiva; serrare le file più strette così il sole sta sulle foglie e non a terra; abbassare l’impianto perché più è basso e più resta a contatto con la temperatura della terra che tra Agosto e Settembre è più alta per almeno un paio d’ore dopo il tramonto. Una volta un importatore mi disse che per arrivare a produrre un vino di qualità da vendere a prezzi importanti avrei dovuto portare Breganze sotto Firenze. Registrai la battuta e mi chiesi: “ma che cosa ha il terreno sotto a Firenze, per capirci nelle zone del Chianti e del Brunello, che non ha quello di Breganze? L’uva matura”! Parliamo degli anni ottanta dove i problemi causati dal cambiamento climatico e dal riscaldamento globale ancora non c’erano e non si vendemmiava ad agosto. A quel punto Fausto studiò ed applicò tutti i principi che portano alla migliore maturazione delle uve partendo da una riflessione: perché la vite produce l’uva? Perché un ceppo può arrivare a produrre 15 grappoli? E ogni grappolo 120 acini? E ogni acino 3 vinaccioli? “Facendo due conti, ogni vite somma 5000 vinaccioli che cadono per terra. Danno vita a 5000 vigne? No! Ma l’uva è il mezzo per farli mangiare dagli uccelli, dalle volpi, dai cinghiali, così da disperderli e propagarli. Perché dico questo? Perché il problema della vite è che deve viaggiare per diffondersi. Come? Mettendo i vinaccioli dentro una sostanza dolce, profumata e colorata per attirare gli uccelli e così da spostarsi con loro ed espandersi. La vite vuole essere mangiata e per fare l’uva appetibile usa tanta energia. Ma ogni vite vuole propagare il suo patrimonio genetico ecco allora che la competizione tra le viti le spinge a dare il massimo per ottenere la migliore qualità delle uve. Da questo assunto deriva la convinzione che aumentare la densità di impianto e diradare i grappoli, fa migliorare la qualità intrinseca dell’uva. Io poi in aggiunta tenevo le vigne basse con grappoli tutti a 30 cm da terra dove è più caldo e iniziai a togliere le foglie davanti al grappolo così che prendesse più sole e maturasse prima. Finiva che rispetto agli altri avevo mediamente una settimana di vantaggio sulla maturazione. Applicando tutti questi sforzi per la maturazione ho portato”Breganze sotto Firenze”.
Un’altra accortezza in grado di aggiungere qualità è stata la pressa con l’impiego dell’azoto. “Nello schema di vinificazione dell’uva a bacca bianca c’è un problema rilevante: il processo di ossidazione del mosto. Per ottenere il risultato che quando si scarica la pressa la vinaccia sia verde e non marrone, bisogna evitare per quanto possibile il contatto delle uve e del mosto con l’ossigeno. Uno dei primi che ha messo in funzione la pressa con l’impiego di azoto è stato Mario Pojer e pure io sono stato tra i precursori nell’utilizzo di questa tipologia di pressa che ho acquistata nel 1995 per sostituire il torchio continuo. Un sistema che adopero soprattutto per il torcolato”
Sognando California
Dove fanno vino buono Fausto è andato: Loira, Champagne, Alsazia, Borgogna, Bordeaux, Spagna, Grecia, Germania, Ungheria ecc. per poi farsi ammaliare anche dalla California. “Mentre in Francia continuavano a fare quello che hanno sempre fatto da secoli, in California facevano vini normali con grandi rese per ettaro, irrigazioni e concimazioni abbondanti, ecc. Nel 1965 circa con Robert Mondavi hanno iniziato a fare vino alla francese prendendo Borgogna e Bordeaux come modello. Ci hanno creduto in tanti e hanno fatto una rivoluzione enologica costruendo qualità dove non c’era. Ho passato un periodo in California e sono andato a visitare tutte le cantine. Ho fatto belle cose e imparato molto. Ai tempi di mio padre che il vino fosse vino e non aceto era già qualcosa e così fino agli anni settanta. Poi uscirono i vari Robert Parker con Wine Advocat, Gino Veronelli, Wine Spectator, Gambero Rosso, ecc. Robert Parker in particolare voleva che gli americani capissero la qualità di un vino attraverso un approccio schematico, immediato, semplice e chiaro. E i criteri di valutazione della qualità dei vini cambiarono per sempre”.
Quel gran gourmand di Fausto
Parlare con Fausto Maculan è piacevole per l’esperienza professionale considerevole che è in grado di esibire. Eppure parlare con Fausto Maculan significa anche, se non soprattutto, collocare il vino in un contesto storico, sociale, scientifico e agronomico più ampio. Un punto di vista che aiuta a capire di più e meglio il mutamento dei consumi di vino nel tempo e nel mondo a partire dalla sua evoluzione da alimento a oggetto di godimento edonistico, modaiolo spesso esclusivo. Ma soprattutto chiacchierare con Fausto mette sete e fame. Le sue considerazioni sono sempre, costantemente pregne di profumi e di sapori e raccontano di vino e della sua giusta collocazione a tavola, da solo o in abbinamento col cibo che sia.
“Ho ricordi legati al buon cibo fin da bambino. A mia madre piaceva cucinare e spesso con mio padre si andava a mangiare fuori. Si andava a Giavera del Montello da Agnoletti, piuttosto che a mangiare il bollito al Leoncino tanto per citarne alcuni. Si facevano questi viaggi di domenica e ho iniziato a godere di queste bontà per non parlare degli spiedi apprezzati col nonno cacciatore o della sopressa vicentina. Quando ho cominciato a vendere vino nei ristoranti anche di un certo rango non ho mai smesso di frequentare la ristorazione e le rassegne gastronomiche più interessanti come Cocofungo. Dove si mangiava bene, di gusto, doveva esserci anche il mio vino”. Fondamentale per Maculan in questo percorso è stata la conoscenza di Gualtiero Marchesi di cui divenne buon amico. “Ci siamo conosciuti nel 1978 ed è venuto spesso da me ad assaggiare il vino per le sue selezioni. Frequentarlo mi aiutò a capire la cucina creativa che stava imperversando e si stava facendo largo tra gli chef stellati che iniziai a frequentare, tanto italiani che esteri tra i quali tantissimi francesi. Durante i miei viaggi in Borgogna piuttosto che in Alsazia dormivo nei Relais & Chateaux e alla sera andavo a cena dagli stellati. Insomma avevo iniziato a capirne qualcosa ed è la conoscenza che ti apre la mente”. Quando uscì un concorso su Capital dedicato alla cucina creativa e promosso dalla Compagnia Italiana Grandi Alberghi con Gualtiero Marchesi presidente della giuria, Maculan partecipò e per nulla animato da spirito decubertiano. “Proposi un piatto tricolore: capesante in crema di piselli con aggiunta di menta per dare vivacità al verde. Cucinai la noce (il bianco) della capesanta alla mugnaia per avere croccantezza e il corallo (il rosso) dopo averlo marinato nel vino lo lessai nello stesso”. Il risultato? su circa cinquemila ricette ne vennero selezionate venti tra cui quella di Fausto. “Le venti ricette vennero poi cucinate da Marchesi per i venti giurati tra i quali Gino Veronelli e Giorgio Pinchiorri. Finì che risultai tra i quattro finalisti i cui piatti furono parte di un pranzo di gala organizzato da Capital a Firenze. E venni invitato a presentare il mio piatto e la mia foto finì su Capital per meriti gastronomici e non enologici. E chi l’avrebbe mai detto? Al di là della soddisfazione per il successo ho sempre pensato e continuo a pensare che la ricerca del buono nel cibo e nel vino si siano sempre alimentate a vicenda. E per me è sempre stata la spinta principale a far bene il mio lavoro. Mi sono sempre documentato, ho letto molto e sono andato nei migliori ristoranti del mondo conoscendo tutti, da Alain Ducasse ai grandi americani. Ed ho sempre scelto i menù degustazione così da provare a capirne le scelte e le tecniche di cucina”. Da lì un crescendo: direttore per sei anni della rassegna gastronomica “Buone Tavole dei Berici” che proponeva dieci cene diverse in dieci ristoranti che avevano condiviso la promozione di questo percorso culinario e ideatore del concorso gastronomico “Dolce e Salato” col quale raccogliere e giudicare ricette che proponevano un piatto salato in abbinamento ad un vino dolce. “Se non avessi avuto questa predisposizione, questo gusto per i piaceri della tavola probabilmente non avrei avuto il successo che ho avuto come imprenditore del vitivinicolo. Sono profondamente convinto che i due aspetti siano complementari perché all’origine c’è il desiderio di trattarsi bene e di trattare bene clienti e commensali proponendo vini e piatti in grado di garantire vera piacevolezza. In ogni caso le conoscenze ti aiutano sempre e sapere perché in Cina o in Giappone si mangia in una certa maniera compreso l’uso dei bastoncini, la preparazione e il consumo delle zuppe, è determinante per sapere come approcciare a determinati clienti e mercati. Quando mi misi a spadellare con un certo impegno, tra i rimbrotti bonari di mia moglie perché sporcavo troppo stoviglie e tovagliato, decisi di acquistare ed allestire una cucina professionale in cantina così da coltivare la mia passione. Ho cucinato di tutto con tantissime tecniche diverse”. Ma la ricerca fatta con onestà intellettuale mette sempre tutto in continua discussione. Compresa la retorica del vino e del sistema classico e convenzionale di abbinamento del vino col cibo. “Marchesi per un periodo non bevve vino perché diceva che il vino cambiava la percezione organolettica del piatto in sé e non voleva che il piatto cambiasse. Credo che sia un approccio corretto per un giudice ma che nel momento dell’apprezzamento, del mangiare e bere per il gusto di farlo, si gode e basta. Questo non significa non considerare che ci sono altre bevande, alcoliche o meno, che possono accompagnare benissimo le pietanze. E poi ci sono anche gli astemi che vanno accontentati e rispettati ed io ho sempre cercato di essere democratico. Ciò detto, mi è chiaro da tempo che se voglio godere accompagno il cibo col vino, ma solo quello buono. Trovo altrettanto importante il valore della memoria, della storia. Per questo non dobbiamo mai dimenticarci da dove veniamo, un passato lontano con vini e materie prime e trasformati privi di ambizione, spesso dozzinali. Da lì siamo partiti con gratitudine ed impegno e come viticoltori, trasformatori e ristoratori italiani siamo arrivati ai livelli altissimi nel mondo di questi ultimi decenni. Il cibo complessivamente è emozione e cosa c’è di più emozionante dei piaceri primordiali, dei ricordi ancestrali? la campanella che suona e richiama il pranzo, le farfalle nello stomaco…”.
Di nonno in figlie
Con gli anni è accresciuta la superficie vitata e la gamma dei vini. È cresciuta e si è ampliata la rete commerciale e ad oggi i Maculan vendono vino in 50 stati nel mondo. Sono lontani i tempi in cui Fausto ancora bambino andava a consegnare il vino e a ritirare i vuoti con l’autista tenendo di conto. Da lì non si è più fermato. Papà Giovanni aveva molto rispetto per i soldi e quindi se era uno di famiglia a maneggiare il denaro era meglio. E Giovanni non ha mai mancato di dimostrare riconoscenza per il figlio e per i risultati raggiunti. “Meno mia mamma Giuseppina Graziani che quando si metteva ai fornelli per i pranzi con i clienti anche stranieri e mi sentiva raccontare di tutto un po’ se ne usciva con frasi del tipo “non credete a questo che è un incantatore di serpenti”. Ma lo diceva piena di soddisfazione. Rimpianti? No! Se penso che sono riuscito a costruire e ad etichettare il vino che volevo io non ho rimpianti. L’unico momento di difficoltà lo abbiamo avuto in famiglia al momento dell’avvicendamento societario tra me, mio padre e mia sorella che poi sono venuti a mancare. Un passaggio turbolento, che mi ha segnato ma che alla fine si è risolto. Per fortuna in quel periodo le cose andavano molto bene. Questo mi ha sicuramente aiutato a capire che non sono immortale e che un cambio generazionale ci sarebbe stato, volendo o meno, anche dopo il mio passaggio a miglior vita e che anticiparlo da vivente, lucido mentalmente e con un’azienda solida e in ordine sarebbe stata cosa buona. Chi prende in mano un’azienda deve costruire una sua rete di relazioni. Non è possibile trasferire tutto tout court, dall’oggi al domani. Ho così deciso qualche anno fa che dovevo lasciare il timone alle mie figlie Angela e Maria Vittoria così che loro si sentissero libere di inseguire i loro obiettivi e di fare i loro errori; si impara molto dagli errori e studiando poi come risolverli. Io continuerò a dare il mio contributo, che viene richiesto e ci mancherebbe. E soprattutto a guardare al futuro che vedo ancora entusiasmante e pieno di cambiamenti sia per la nostra azienda che per il Veneto vitivinicolo e per il settore in generale. Il Veneto del vino, in particolare, ha una componente enorme e decisiva per quanto pesa a determinarne gli assetti attuali e i destini futuri: il Prosecco. Un’operazione piuttosto recente nata e sviluppatasi in un areale dove, a guardare gli annali delle varietà allevate in provincia di Treviso, c’erano più bianchetta e verdiso che glera, un’uva buona ma non così nobile come altre più aromatiche, più vocate. Gli imprenditori del prosecco sono stati e sono dei fenomeni e gli auguro che il successo continui. Non lo avrei mai pensato ma nel mondo delle bollicine il Prosecco ha sbaragliato quasi tutti i concorrenti in Italia e nel mondo. Non me lo spiego, ma funziona. Se prendi un impianto di chardonnay e gli fai produrre 150 quintali di uva per ettaro ottieni un risultato, 90 quintali un altro, 45 un altro ancora e sempre migliore. Con la glera invece ottieni sempre lo stesso risultato. E ciò nonostante il vino che se ne ricava va bene così: spumante o frizzante che sia. Identifica come pochissimi altri la bollicina nel mondo, mica niente. In assenza di un grandissimo nome come avrebbero potuto essere Gaja o Antinori e cioè di un leader nel territorio in grado di indicare la via giusta e tirare il carrozzone verso la competizione internazionale, è stato esaltato un nome unico per tutti, promosso bene e che si è imposto tra i consumatori. E i tanti soldi che i produttori hanno guadagnato sono stati impiegati mediamente bene nella comunicazione, nel marketing e nei progetti legati al territorio. Resterà così per sempre? Può essere! Di sicuro finché resterà un fenomeno di questa portata è molto difficile immaginare un Veneto del vino in grado di percorrere strade diverse dalle attuali.
Se poi allarghiamo lo sguardo, in un mondo interessato dalla pandemia e dai cambiamenti climatici dove sono esplose crisi finanziarie, guerre e difficoltà politiche di tutti i tipi, è in essere una flessione sul consumo del vino in generale e dei vini dolci in particolare. Questo ha determinato un calo dei prezzi di Sauternes e Porto, i due giganti del vino passito nel mondo. Ed è stato così anche per il Torcolato, il cui auge è stato raggiunto quando nei migliori ristoranti del mondo non mancava mai il carrello dei formaggi da abbinare. Adesso invece i commensali tendono a mangiare meno, a bere meno, si sta meno a tavola. Nel frattempo però, per quanto ci riguarda, abbiamo migliorato la qualità dei vini rossi al punto che incrociando nel 2023 le nove guide italiane più rappresentative il Fratta 2017 è arrivato sedicesimo tra i vini rossi considerati i più buoni d’Italia. Addirittura undicesimo contando le sette guide internazionali più importanti. Se consideriamo che il rosso di Breganze non è Brunello né Barolo o Barbaresco, mi pare un risultato ragguardevole e in ogni caso, tutti cominciano con la B”.
Punti chiave
- Fausto Maculan ha trasformato l’enologia italiana ispirandosi ai modelli francesi.
- Il Torcolato di Breganze è diventato simbolo grazie alla sua visione innovativa.
- L’azienda, oggi guidata dalle figlie, esporta in 50 paesi.
- Innovazioni come densità d’impianto e barrique hanno reso i suoi vini iconici.
- Maculan ha coniugato passione per il vino e cucina per promuovere l’eccellenza.
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