Anche nel 2025 il genocidio palestinese è la campana che suona per noi

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A Gaza e in Cisgiordania si sta consumando la più grande e feroce strage di questo secolo, il primo massacro di massa nell’era dei social media, in cui è possibile seguire e vedere ogni momento di orrore. Il genocidio palestinese è un monito che risuona per tutti noi, proprio come accadde durante la guerra di Spagna, il conflitto in Vietnam e ogni altra occasione in cui è stato necessario fare una scelta decisiva.

2025, contro il genocidio palestinese: una scelta di campo

Il genocidio palestinese rappresenta uno dei più gravi crimini contro l’umanità del nostro secolo, un orrore che si consuma sotto gli occhi di un mondo apparentemente distratto. Gaza e la Cisgiordania sono teatro di una violenza sistematica e disumana da parte delle forze di occupazione israeliane che non può essere giustificata in alcun modo.

Nell’era dei social media, è impossibile sostenere di non sapere. Le immagini e i video della distruzione di Gaza, dei bombardamenti indiscriminati e dei bambini uccisi arrivano ovunque. La guerra in Palestina è il primo genocidio documentato in tempo reale, eppure una larga fetta dell’opinione pubblica occidentale, sostenuta dai principali governi, sembra minimizzarne la gravità o giustificarla apertamente.

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Israele, una delle nazioni più armate al mondo, con arsenali nucleari che lo rendono inavvicinabile militarmente, giustifica le sue azioni definendole autodifesa. Tuttavia, la realtà è chiara: è l’occupazione israeliana che alimenta il conflitto. Le politiche di Israele mirano a ridurre progressivamente la presenza palestinese, un obiettivo che alcuni definiscono apertamente di pulizia etnica.

L’iperbole della difesa e la realpolitik

L’argomento principale dei sostenitori dell’operato israeliano è che Hamas, un’organizzazione designata come terrorista da molti paesi, rappresenti una minaccia esistenziale. Tuttavia, questa narrativa nasconde la sproporzione nei mezzi e negli obiettivi delle due parti. Mentre Israele agisce con il sostegno delle maggiori potenze mondiali, inclusi ingenti aiuti economici e militari, i palestinesi lottano con risorse limitate per la sopravvivenza e il diritto a esistere.

Molti governi occidentali proclamano di sostenere una soluzione politica basata su “due popoli, due stati”. Tuttavia, questa dichiarazione è svuotata di significato. Israele non riconosce i confini del 1967, continua a espandere insediamenti illegali in Cisgiordania e impedisce il ritorno dei profughi palestinesi. La soluzione dei due stati è, nella pratica, un miraggio.

La resistenza palestinese e il diritto all’autodifesa

La resistenza palestinese non è un’opzione, ma una necessità sancita dal diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite garantisce a ogni popolo sotto occupazione il diritto alla resistenza, inclusa quella armata. Paragonare questa lotta alla “guerra al terrorismo” è non solo fuorviante ma anche disonesto.

I palestinesi non lottano solo contro un’occupazione militare, ma contro un sistema razzista che li priva di diritti fondamentali. Il paragone con il regime di apartheid sudafricano è pertinente: Israele cerca di evitare che i palestinesi ottengano mai una posizione politica o demografica che metta in discussione la sua natura di stato ebraico.

Ciò che rende particolarmente ipocrita l’atteggiamento occidentale è il doppio standard applicato alle crisi internazionali. Mentre i crimini commessi dai nemici dell’Occidente vengono amplificati e demonizzati, le violenze perpetrate dagli alleati vengono minimizzate o giustificate. Questo schema è evidente anche nella narrazione del conflitto israelo-palestinese.

La violenza di Hamas contro i civili israeliani del ‘7 ottobre’ è stata giustamente condannata, diventando un muro mediatico contro cui qualsiasi argomento o timido esercizio della ragione va a sbattere e dunque la reazione israeliana, che uccide decine di migliaia di civili palestinesi, viene accolta con comprensione. Questa disparità è alimentata da un razzismo implicito che considera i palestinesi come esseri umani di serie B.

La strumentalizzazione dell’antisemitismo

Uno degli strumenti più efficaci per silenziare le critiche a Israele è l’accusa di antisemitismo. Questa tattica mira a mettere sullo stesso piano il sostegno ai diritti palestinesi e l’odio verso gli ebrei, un’associazione che è profondamente errata.

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I palestinesi, come gli ebrei, sono un popolo semitico e non hanno alcuna responsabilità per l’Olocausto, diversamente dai governi europei che oggi si dichiarano amici di Israele.

L’accusa di antisemitismo è usata come una “bomba atomica ideologica” per delegittimare qualsiasi discussione critica sul genocidio palestinese. Chi denuncia le stragi di Gaza è etichettato come ‘amico di Hamas’ o addirittura antisemita, in un ribaltamento orwelliano della realtà.

La narrativa che giustifica il genocidio palestinese affonda le sue radici in un razzismo storico. L’Occidente ha sempre giustificato le sue imprese coloniali come una “missione civilizzatrice”. Oggi, questa ideologia persiste, mascherata da un linguaggio di autodifesa e superiorità morale.

Quando si piangono le vittime del 7 ottobre, ma non quelle dei bombardamenti israeliani, si rafforza l’idea che alcune vite valgano più di altre. Questo razzismo è il vero motore del silenzio e dell’indifferenza di molti governi e opinioni pubbliche occidentali.

Non mancano intellettuali, politici e artisti che, pur avendo costruito la loro carriera su posizioni di principio, scelgono di rimanere in silenzio o di adottare posizioni ambigue. Questo silenzio non è una questione di ignoranza o di distrazione, ma una scelta consapevole dettata dalla paura di perdere privilegi o di entrare in conflitto con il potere.

Primo Levi descrisse questa zona grigia, fatta di opportunismo e compromesso, come una delle più grandi vergogne dell’umanità. Oggi, questa vergogna si ripresenta nel contesto del genocidio palestinese.

Una scelta di campo

Il genocidio palestinese è un appello alla nostra coscienza. Non è solo una questione di solidarietà verso un popolo oppresso, ma una battaglia per rompere con l’ipocrisia e il razzismo sistemico. Stare con la resistenza palestinese significa schierarsi dalla parte della giustizia e della verità, rompendo il silenzio complice che permette alla strage di continuare.

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La campana della Palestina suona per noi, così come suonò per la Spagna negli anni ’30 e per il Vietnam negli anni ’60. Questo è il momento in cui scegliere da che parte stare. L’indifferenza non è più un’opzione: è una complicità.

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