Vicenza, l’orto inquinato diventa un laboratorio: «Si studia come abbattere i Pfas»

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di
Rebecca Luisetto

Elisabetta Donadello è una delle Mamme no Pfas: «I ricercatori dell’università di Padova usano un carbone che pare funzioni»

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Rientra nella zona arancione per la contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche la casa di Elisabetta Donadello, una delle mamme no Pfas che vive a Vicenza con il marito, due figli e due cani. Un’abitazione circondata dal verde, dagli alberi da frutto e dall’orto, realizzato dalla sua famiglia tanti anni fa e che mai avrebbe pensato diventasse un laboratorio a cielo aperto. Dopo aver scoperto la presenza nel suo terreno gli inquinanti, per la cui dispersione sono sotto processo quindici manager dell’ex stabilimento Miteni di Trissino, ha smesso di nutrirsi di qualsiasi prodotto delle piante che aveva coltivato con cura e ha lasciato che quella terra diventasse luogo di esperimenti per un gruppo di ricercatori del dipartimento di agronomia dell’università di Padova.

Quando ha sentito parlare di Pfas per la prima volta?
«Ho letto un articolo nel 2015 che trattava la questione legata alla Miteni, all’inizio sembrava che l’inquinamento fosse soltanto a Lonigo. Poi ho continuato a informarmi ma non trovavo molti dati, sono passati anni prima di avere chiaro di che cosa si trattasse. Nel momento in cui mi sono resa conto che potessero esserci anche a casa mia ho richiesto di poter fare delle analisi per capire se queste sostanze fossero nel mio sangue, ma mi è stato negato dalla Regione perché vivevo in zona arancione, meno colpita dalla contaminazione rispetto a quella rossa. Nel 2020, a spese mie, ho fatto analizzare l’acqua del pozzo».




















































Analisi alla mano ha riscontrato la presenza dell’inquinamento nell’acqua con cui irrigava il suo giardino e l’orto. Come si è comportata?
«Avevo 13 mila nanogrammi di Pfas in un litro di acqua, una quantità altissima visto che dovrebbero essere vicini allo zero. Fortunatamente avevo deciso di non utilizzare più il pozzo già nel 2015, anche se ero convinta che quelle sostanze fossero già penetrate nel mio terreno, nelle verdure, nella frutta e che si trasmettessero nelle uova nelle galline che mangiavano l’erba del prato. Così abbiamo smesso di consumare i nostri prodotti a chilometro zero, ma era già troppo tardi».

I contaminanti erano già nel suo sangue e in quello dei suoi figli?
«Le analisi le ho potute fare nel 2022, quando dei giornalisti tedeschi sono venuti nel Vicentino per realizzare un documentario e mi hanno messo in contatto con un laboratorio in Germania. All’epoca mia figlia aveva 8 anni e mio figlio ne aveva 6, entrambi mostravano un livello alto di sostanze perfluoroalchiliche nel sangue. Gran parte dei Pfas che hanno in corpo erano prima nel mio, glieli ho trasmessi attraverso la placenta e l’allattamento, li ho avvelenati io».

Nel frattempo è emersa una possibilità.
«Nel 2022 i professori Antonio Masi e Giancarlo Renella del Dipartimento di Agraria dell’Università di Padova si sono presentati a casa mia, di loro spontanea iniziativa, per chiedermi se potevano utilizzare l’acqua contaminata del mio pozzo e poi l’orto come parte di un loro progetto sperimentale».

Cosa è stato riscontrato nelle sue colture?
«I livelli di Pfas cambiavano a seconda del prodotto, perché le molecole in alcuni casi venivano assorbite, mentre in altri casi si fermavano alla radice o migravano nelle foglie. Per esempio la polpa dei kiwi mostrava grande quantità di queste sostanze, mentre nei pomodori gli inquinanti non arrivano a contaminare il frutto».

Da poco è in atto anche un altro esperimento.
«I ricercatori stanno tentando di trovare una soluzione per degradare i Pfas che si trovano nel terreno. Hanno aggiunto del biochar nel terriccio dell’orto, un tipo di carbone vegetale che sta mostrando buoni risultati, i contaminanti grazie a questa sostanza rimarrebbero nella terra senza intaccare la vegetazione».

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