Nel 2024 più della metà della popolazione mondiale, titolare del 51% del PIL globale, si è recata al voto, celebrando quello che i media definirono alla sua vigilia il super-anno elettorale. In questo raro allineamento di urne che ha coinvolto in tutto 76 paesi compresi gli otto più popolosi della terra (dagli USA all’India, al Brasile, alla Russia, all’Indonesia, al Bangladesh, al Pakistan, al Messico, senza contare Unione Europea), si è celebrato il rito di partecipazione che è sicuramente una pre-condizione per l’esercizio democratico, ma che di per sé non garantisce la democrazia, poiché anche le dittature e le autocrazie lo adoperano per adornarsi con un velo di legittimazione. La domanda, allora, che sorge spontanea allo spirare di quest’anno bisestile – che per guerre e calamità ha rispettato in pieno tutte le peggiori ubbie popolari del pessimismo cabalistico – com’è andata a finire? Dopo questo grande giro di boa il mondo è più libero o più costretto?
In attesa dei report dettagliati dell’Economist, con il suo Democracy Index e dei responsi delle agenzie indipendenti come Freedom House, adusi all’applicazione degli algoritmi giusti per offrire una lettura sintetica delle tendenze, forse si può trarre qualche considerazione “a caldo” a qualche giorno dal Capodanno 2025. Diremmo, allora, che il “grande plebiscito” ha offerto tendenze dissonanti che non risponderebbero alla domanda semplificatrice se il mondo dopo questo voto si avvicini di più ai criteri della liberaldemocrazia oppure se ne allontani rispetto al mondo precedente. Perché, in via generale, si potrebbe dire che nei parlamenti degli stati sovrani del mondo occidentale, con la rielezione di Trump e l’avanzata in alcuni paesi europei – vedi Francia, Germania, Romania e Austria – di forze sovraniste, populiste o chiaramente ispirate a ideologie nazionaliste, l’asse complessivo dell’Occidente sembrerebbe spostarsi verso il quadrante destro, comprendendo anche l’assemblea democratica più rappresentativa, quella dell’Unione Europea che tuttavia, nonostante il consolidamento dei conservatori e il ridimensionamento delle forze di sinistra, mantiene lo storico asse collaborativo tra PPE e PSE, con l’aggiunta dei liberali e dei Verdi.
Tuttavia, al netto delle analisi limitate alle performance dei singoli paesi occidentali al voto, resta un elemento di novità che, per dirompenza e pervasività nelle dinamiche democratiche, per tendenza naturale alla contaminazione, e per capacità di penetrazione sociale, resterà come il vero punto di svolta nei processi elettorali del XXI secolo: l’azione delle piattaforme digitali e l’avvento dell’AI. Naturalmente nella contesa delle presidenziali americane il fenomeno ha avuto dimensioni deflagranti con l’ingresso in campo di Elon Musk e della sua piattaforma “X” che ha rappresentato uno dei cardini della campagna elettorale di Trump, attraverso modalità che non hanno lesinato ruvidezze, fake, faziosità lontane dal dovere della verità che si addice a strumenti di informazione. Peraltro con il tramonto della carta-stampata e l’obsolescenza – almeno rispetto alle giovani generazioni – della televisione che, per restare nel mondo americano, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali ha svolto un ruolo minore nell’orientamento del voto rispetto ai social, le piattaforme digitali hanno assunto un peso definitivo nella formazione dell’opinione pubblica. Un secondo importante segnale relativo al pericolo di alterazione dell’opinione elettorale si è avuto in Romania, con l’annullamento del primo turno delle presidenziali disposto dalla Corte Costituzionale a motivo della “non naturale” avanzata del candidato di estrema destra filo-putiniano Georgescu, fino a quel momento quasi del tutto sconosciuto al popolo. Si tratta della prima risposta di un ordinamento costituzionale europeo all’intervento pervasivo delle piattaforme digitali e dell’Intelligenza Artificiale che è al tempo stesso un riconoscimento della pericolosità potenziale dell’attacco “ibrido” alle democrazie, portato da “entità esterne”, dunque ancora più minaccioso per la sovranità dello Stato dal punto di vista dell’alterazione del processo di formazione di un’opinione politica. Il resto del mondo – che in realtà è la parte prevalente – non ha offerto particolari elementi di novità: non nelle autocrazie, dove si registrano i plebisciti di Putin con l’87% dei voti, non nell’India di Narendra Modi, che s’incorona premier per la terza volta, privilegio che spettò prima di lui solo a Nehru. Neanche l’Indonesia ha proposto elementi di sorpresa, eleggendo Subianto, militare e genero del dittatore Suharto, con il 59% dei consensi, e, per quanto venga catalogato nel quadrante dei riformisti, neanche il nuovo presidente dell’Iran Pezeshkian riuscirà a modificare la politica iraniana ispirata ad una teocrazia peraltro alquanto clemente verso suggestioni antioccidentaliste. Autentiche novità, invece, sembrano giungere dall’Africa dove tredici stati sovrani sono andati al voto con risultati assai interessanti dal punto di vista dell’alternanza democratica che ha fatto registrare il declino dei partiti di governo, spesso smentendo l’aspettativa di manipolazioni e soverchierie da parte degli autocrati al potere. È accaduto in Ghana, ma alternanze si sono registrate anche in Senegal, in Botswana, in Liberia e nelle Mauritius. Ma c’è di più: come rileva l’osservatorio Africa Leadership Change, si tratterebbe di una tendenza che nel decennio in corso tende a consolidarsi, con un turnover nella leadership di 31 Stati sovrani su 54 (tanti ne accredita l’Onu al continente) avvenuti attraverso consultazioni elettorali. Insomma: la vera notizia dell’anno elettorale più ricco di sempre porterebbe dentro qualche traccia di ottimismo proveniente dalle democrazie late comer. Per le liberaldemocrazie consolidate, invece, incombe il far west dell’AI alla sua prova generale negli USA. Staremo a vedere le puntate successive.
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