La Slovacchia: negoziati da noi. Ma gli Usa avvertono: solo un bluff di Putin

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di
Francesco Battistini

Medvedev: «L’Ue va punita con ogni mezzo». Morto il fante nordcoreano catturato da Kiev

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Ma quale pace. «Le parole di Putin sono vuote», dice un portavoce della Casa Bianca: «E non è certo un uomo che può essere preso sul serio, quando parla d’una soluzione». L’ultimo, sprezzante giudizio del presidente americano uscente è l’opposto di quello del presidente entrante. E se Joe Biden ha sempre definito lo zar «un killer», al contrario di Donald Trump che lo considerava «un genio», forse oggi concordano entrambi nel credere poco all’ultima commedia recitata dal Cremlino: aprire un negoziato di pace nella Slovacchia dell’amico Robert Fico. 

Da Bratislava, per bocca del ministro degli Esteri, Juraj Blanar, arriva ovviamente disponibilità — «lo consideriamo un segnale positivo per porre fine a questa guerra il prima possibile» —, senza spiegare peraltro come un leader ricercato dal Tribunale dell’Aia possa mettere piede in un Paese Ue. 




















































Invece il presidente slovacco Peter Pellegrini propone d’andare a Kiev — dopo che Fico ha scavalcato la linea rossa europea e il 22 dicembre ha visitato Mosca, come Orbán — per convincere Volodymyr Zelensky al negoziato, sempre che l’Ucraina lasci aperti i gasdotti e continui a rifornire la Slovacchia dell’energia made in Putin. Non è chiaro che argomenti possa usare Pellegrini: proprio il suo premier Fico ha minacciato Kiev d’un «conflitto gravissimo», qualora chiudesse i rubinetti. 

Il gas di Mosca interessa più della pace. Alla Borsa di Amsterdam si marcia da settimane su rincari quotidiani del 4% e Putin ha promesso uno speciale prezzo a Bratislava, dal 1° gennaio, dopo che gli ucraini avranno bloccato le forniture all’Ue. 

Kiev tenta d’annodare improbabili fili con chiunque possa servire alla causa: Zelensky omaggia l’argentino Javier Milei e manda 500 tonnellate di grano in regalo al nuovo padrone della Siria, Al Jolani, «purché non imiti il regime di Assad e si distacchi finalmente da Putin». 

Il gioco russo invece è sempre la solita roulette, al Cremlino si vocifera d’una possibile, storica visita nel 2025 del presidente cinese Xi Jinping e intanto si punta sui 27, ma solo per spaccarli: «Dobbiamo aiutare qualsiasi progetto distruttivo in Europa — è durissimo il solito Dmitry Medvedev, il vice Zar—. L’Ue va punita con ogni mezzo disponibile. Gloria alle bande di migranti che commettono atrocità e distruggono l’arcobaleno dei valori europei! Lunga vita ai responsabili di pogrom aggressivi nei centri storici europei! Che i vili teppisti dei burocrati europei scompaiano nel gorgo delle loro future guerre civili!». Non sono toni da pacifisti. E infatti la Nato ha deciso di rafforzare il pattugliamento nel Baltico, spaventata dai sabotaggi ai cavi sottomarini. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz — mentre vara un altro pacchetto d’aiuti, imitato dagli olandesi — si premura di parlare due volte con Trump e di capire che pace si farà. Perché questa guerra è ormai una scena con due protagonisti pronti a (ri)entrare — Washington e Pechino — e le altre comparse che entrano ed escono, più o meno a piacere. È morto in ospedale l’unico soldato nordcoreano catturato finora dagli ucraini, il fante che doveva servire a dimostrare il coinvolgimento del dittatore Kim al fianco di Putin. Si scopre pure che i nuovi missili ipersonici russi, i terrificanti Oreshnik testati sulle povere teste degli abitanti di Dnipro, in barba alle sanzioni sono stati fabbricati con tecnologie tedesche e giapponesi. Ognuno recita un suo copione. E a proposito di parti in tragedia, sta per uscire un film sulla guerra. S’intitola «Il treno per il 31 dicembre» e a interpretarlo sarà un attore dilettante ormai sfiatato: l’ex premier inglese Boris Johnson.

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