I MOG a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Servono anche le buone prassi

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I modelli di organizzazione e gestione del rischio possono, ove non solo adottati, ma anche ed efficacemente attuati, incrementare l’efficienza organizzativa, ridurre i costi diretti ed indiretti e, soprattutto, tenere indenni le singole funzioni di vertice delle società, circoscrivendone gli ambiti di responsabilità, dagli effetti che altrimenti deriverebbero dalla commissione di reati si sono diffusi anche nelle imprese di medie dimensioni. Rilevante è la loro importanza anche nel prevenire la salute e la sicurezza dei lavoratori. I modelli sono caratterizzati da un’attività continua di verifica e ricalibratura, sulla scorta non già di uno standard, sempre uguale a sé stesso e capace di infinite applicazioni, ma mediante un set di regole “fatte su misura” in relazione al concreto contesto organizzativo cui si rivolgono. E’ necessaria, quindi, un’estrema flessibilità; ma sarebbe anche opportuno che il legislatore possa favorire, soprattutto attraverso un’attività di indirizzo del Ministero del lavoro o dell’INAIL, l’emergere e la diffusione di buone prassi.

Da alcuni anni, anche nelle imprese di medie dimensioni, si sono diffusi, inizialmente in via volontaria, ma oramai sotto l’impulso del legislatore, i MOG – modelli di organizzazione e gestione del rischio, capaci, ove non solo adottati, ma anche ed efficacemente attuati, di incrementare l’efficienza organizzativa, di ridurre i costi diretti ed indiretti e, soprattutto, di tenere indenni le singole funzioni di vertice delle società, circoscrivendone gli ambiti di responsabilità, dagli effetti che altrimenti deriverebbero dalla commissione di reati.

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La normativa, inizialmente limitata dal celebre d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ai reati finanziari, ormai da tempo si è diffusa anche ad altri settori, spesso ad alto impatto di “sostenibilità”, tanto da diventare, grazie alle previsioni di cui all’art. 30 d.lgs. n. 81 del 2008 (TUS: Testo Unico sulla sicurezza), una pietra miliare anche nel sistema della prevenzione della salute dei lavoratori.

Ed invero, l’obbligazione “di sicurezza” che, per consolidata previsione del codice civile (art. 2087), impone al datore di lavoro di garantire l’integrità fisica e psichica dei lavoratori, non solo necessita di un completamento sul piano della prevenzione mediante l’adozione del modello di derivazione europea del risk-assesment, ma altresì impone una attenta sorveglianza delle regole di condotta precauzionale da parte di tutti coloro che sono coinvolti nel sistema di tutela della salute nei luoghi di lavoro.

In questo senso, già la giurisprudenza più antica sottolineava l’esigenza di dotare l’azienda di un sistema disciplinare, definito e formalizzato dalla c.d. “Alta Direzione aziendale” e quindi diffuso a tutti i soggetti interessati (dirigenti, preposti, lavoratori, organismo di vigilanza, auditor o gruppo di audit ove presente). Non si tratta, com’è evidente di una imposizione in senso stretto, giacché il “modello 231” si basa preferibilmente su norme “premiali”, ma è certo che la pretesa che solo sanzionando i lavoratori si possano raggiungere gli obiettivi di un efficiente sistema di organizzazione interna lascia perplessi molti direttori del personale, ed anche quelli più lontani dai moderni sistemi di HR managment.

Nello stesso senso, non sono poche le perplessità che interessano gli Organismi di vigilanza (O.d.V.), chiamati a sorvegliare l’efficace attuazione dei modelli organizzativi, anche perché, mentre le previsioni del T.U. sulla salute e sicurezza con riguardo al MOG sono dettagliate, assai più asciutte sono le norme relative alla condotta richiesta a quanti compongono l’Organismo.

Ed invero, mentre il d.lgs. n. 81/2008 (TUS) richiama analiticamente tutte le fasi necessarie ad assicurare la prevenzione del rischio (rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; valutazione dei rischi e predisposizione delle misure di prevenzione e di protezione conseguenti; valutazione dei rischi cc.dd. di natura organizzativa; sorveglianza sanitaria; informazione e formazione dei lavoratori; acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie: citato art. 30 d.lgs. n. 81/2008), assai più reticente è la norma sulle condotte che sono in concreto richieste all’O.d.V. al fine di assicurare una efficace attuazione del modello.

Ed invero, al termine della lunga elencazione che si è appena sintetizzata, la norma citata solo si limita ad aggiungere, alla lett. h), che è necessario che l’impresa provveda a «periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate», senza però indicare quali forme debbano darsi a queste funzioni di controllo.

Una soluzione, forse, si può rintracciare nella stessa norma di legge, là dove questa (è sempre l’art. 30 del TUS) prevede l’adozione d’idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività necessarie alla sua adozione ed attuazione (co. 2), così da consentire con facilità una verifica anche solo documentale. Si richiede poi (co. 3) che il modello organizzativo debba indicare, secondo la natura e le dimensioni dell’organizzazione e il tipo di attività svolta, «un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio».

In questo senso, quindi, perché possa essere garantita l’adozione di «un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello» basta, almeno nelle fasi iniziali, che tutte le “non-conformità” siano idoneamente segnalate e tempestivamente fatte rilevare ai responsabili, di modo che, ove questa attività sia condotta con il fine di un continuo miglioramento, la sanzione vera e propria diventa necessaria solo in casi di reiterata violazione, e solo per segnalare che i richiami già intervenuti sono rimasti senza effetti.

Appare certo, in questo senso, che il modello che il legislatore ha in testa è caratterizzato da un’attività continua di verifica e ricalibratura dei modelli, sulla scorta non già di uno standard, sempre uguale a sé stesso e capace di infinite applicazioni, ma mediante un set di regole “fatte su misura” in relazione al concreto contesto organizzativo cui si rivolgono.

In altri termini, e per usare un linguaggio normativo, appare necessario il riesame e l’eventuale modifica del modello «quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico».

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Invero, quando logiche di questo tipo siano diffuse e condivise, prima, fra gli addetti alla sicurezza e, poi, in seno agli Organismi di vigilanza, ci si verrà a collocare in un ambito che non appare troppo distante dalla generale regola del “tecnologicamente possibile” che governa la responsabilità dell’impresa a mente dell’art. 2087 c.c., che si è prima citato, sulla scorta del generale principio della diligenza, che fa sì che la regola si modelli sulle concrete necessità del caso.

Ed è per garantire questa estrema flessibilità che il legislatore si esprime sempre attraverso formule generali, anche se è vero che, ai fini pratici, il legislatore potrebbe favorire, soprattutto attraverso un’attività di indirizzo del Ministero del lavoro o dell’INAIL, l’emergere e la diffusione di buone prassi, poiché il compito che spetta alle istituzioni pubbliche è, innanzi tutto, quello di individuare ex ante standard di comportamento di portata generale.

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