Finalmente in Ungheria c’è qualcuno che potrebbe strappare il potere a Viktor Orbán

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Nel 2025 Viktor Orbán entrerà nel suo quindicesimo anno consecutivo al potere. Alla fine del suo quinto mandato, prevista per il 2026, il leader del partito nazional-populista Fidesz avrà accumulato un totale di vent’anni di governo, includendo anche il primo mandato a cavallo del nuovo millennio.

Questo significa che, nell’era post-comunista della repubblica ungherese dopo il 1989, Orbán avrà governato più a lungo di tutti gli altri sette primi ministri messi insieme, la maggior parte dei quali proveniva dal partito socialista ungherese MSZP (Magyar Szocialista Párt).

Il suo nuovo sfidante, il politico e avvocato Péter Magyar, porta un cognome che richiama la prima parola dell’acronimo MSZP – magyar, ossia “magiaro” – ma il suo percorso politico è molto lontano dalla sinistra. Magyar, leader del nuovo movimento politico Tisza (Tisztelet és Szabadság Párt, cioè Partito del Rispetto e della Libertà), è infatti esponente di un populismo di centro-destra e figura direttamente legata a Orbán: è stato infatti membro di Fidesz dal 2002 fino all’inizio di quest’anno.

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Magyar è stato anche sposato, sino al 2023, con l’ex ministra della Giustizia Judit Varga, esponente di spicco di Fidesz. La sua ascesa politica, come vedremo, è inoltre strettamente connessa a uno scandalo che ha coinvolto l’ex moglie.

Di cosa parliamo in questo articolo:

Il ruolo delle opposizioni nella deteriorata democrazia ungherese

Tra la fine del primo mandato di Viktor Orbán, nel 2002, e la sua ascesa al potere quasi assoluto nel 2010, l’Ungheria è stata governata da una serie di esecutivi guidati dal MSZP, spesso in coalizione con i liberali dello SZDSZ (Magyar Liberális Párt). In quel periodo di otto anni si sono alternati quattro governi, molti dei quali di minoranza, tutti incapaci di completare un’intera legislatura quadriennale.

Il declino dei socialisti inizia nel 2006 con il celebre “discorso di Őszöd” dell’allora primo ministro Ferenc Gyurcsány. Un audio registrato in una riunione interna al partito, e trapelato in seguito a un leak, rivelò Gyurcsány mentre ammetteva, con parole dure e volgari, che il partito aveva “mentito per vincere le elezioni” e non era stato capace di attuare riforme significative negli anni precedenti. Sebbene il discorso fosse un’autocritica rivolta all’MSZP e il termine “mentire” si riferisse più alle ambiguità retoriche del politichese che a vere e proprie manipolazioni dell’elettorato, lo scandalo travolse la politica magiara per anni, e fu ovviamente strumentalizzato da Fidesz.

Le proteste di massa scoppiate nell’autunno (in ungherese proprio Őszöd) del 2006 a Budapest, spinte anche dall’opposizione guidata da Orbán, segnarono un punto di svolta. Le manifestazioni, talvolta sfociate in violenze e occupazioni, videro la partecipazione di gruppi nazionalisti che criticavano Gyurcsány per aver definito l’Ungheria “questo fottuto paese”: fu da allora che l’originale liberalismo di Fidesz cominciò a virare sempre più a destra, in ottica di un’elettorato conservatore, euroscettico e ultrapatriottico.

La decisione di Gyurcsány di restare al governo, unita alla crisi economica del 2008 e alle difficoltà dell’ultimo esecutivo socialista guidato da Gordon Bajnai – privo del sostegno dei liberali – aprì la strada al ritorno di Fidesz nel 2010. Orbán, candidato unico del partito dal 1998, trionfò grazie al tracollo dei socialisti, che entrarono in una crisi profonda, venendo superati persino dall’estrema destra di Jobbik nel 2018.

Anche nei casi in cui Orbán non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, il sistema elettorale ungherese – che assegna oltre la metà dei seggi con un sistema maggioritario – ha permesso a Fidesz di ottenere i due terzi dei seggi in parlamento, il cui numero di deputati fu ridotto proprio da una riforma costituzionale di Orbán. Ciò è stato funzionale a consolidare quella che lo stesso primo ministro magiaro ha definito, in diverse occasioni, una “democrazia illiberale” – ispirata a modelli come Russia, Cina e Turchia – in contrapposizione a quella che Orbán definisce la “non-democrazia liberale” dell’Unione Europea.

Con la sua politica di “Stato basato sul lavoro”, derivante soprattutto in una serie di privatizzazioni deregolamentate, Orbán ha finito per favorire il suo cerchio ristretto di alleati. Le opposizioni hanno deciso di mobilitarsi solo quando Fidesz aveva definitivamente smantellato lo Stato di diritto, attaccando magistratura, media, minoranze e migranti.

In vista delle elezioni del 2022, infatti, sei partiti dell’opposizione si sono candidati sostenendo il socialista Péter Márki-Zay. La coalizione “Uniti per l’Ungheria”, composta da partiti di centro-sinistra, liberali e persino da esponenti di Jobbik, era tuttavia tutt’altro che unita, dimostrandosi fragile già in campagna elettorale e subendo un’amara sconfitta: la coalizione anti-Orbán ottenne poco più di un terzo dei voti, e solo il 28% dei seggi parlamentari. Questo risultato ha permesso a Orbán di ottenere un quinto mandato, di nuovo con maggioranza di due terzi all’Országház. Fidesz, infatti, ha ottenuto il 68% dei seggi in coalizione con gli storici alleati del partito cristiano democratico (KNDP, Kereszténydemokrata Néppárt).

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Dopo le elezioni, la coalizione dell’opposizione ha ceduto alle lotte intestine e si è del tutto disintegrata, cancellando quasi definitivamente ogni speranza di contrastare l’orbanismo: sino alla sorpresa di Péter Magyar a inizio 2024. Paradossalmente, la sfida all’egemonia di Orbán proviene dall’interno del suo stesso mondo politico.

Chi è Péter Magyar, il nuovo sfidante di Orbán

Lo scorso febbraio un’inchiesta del portale indipendente 444.hu, minacciato dai media filo-Orbán e dichiarato “agente straniero” dal governo ungherese, ha fatto luce su un decreto firmato dall’allora presidente dell’Ungheria Katalin Novák. Tra la ventina di persone a cui Novák aveva concesso la grazia presidenziale, oltre al terrorista di estrema destra Gyogy Budahazy, figurava il nome di Endre Kónya, vicedirettore di un orfanotrofio della cittadina di Bicske, accusato di aver coperto numerosi episodi di molestie su minori all’interno dell’istituto. La grazia era stata controfirmata, come previsto dalla legge, dall’allora ministra della Giustizia Judit Varga, che poche settimane prima aveva divorziato da Péter Magyar.

L’inchiesta ha scatenato uno scandalo politico di vasta portata, che Orbán credeva culminato il 10 febbraio con le dimissioni sia di Novák sia di Varga. Da quel momento, però, si apre la sorprendente ascesa politica di Péter Magyar, pressoché sconosciuto alla maggior parte degli ungheresi, nonostante le sue illustri radici familiari e i numerosi incarichi ricoperti all’interno dell’amministrazione Fidesz.

Da parte materna, è infatti pronipote di Ferenc Mádl, ex presidente ungherese fra il 2000 e il 2005, e nipote di Pál Erőss, già giudice della Corte Suprema e noto al grande pubblico per un celebre programma televisivo sui casi giudiziari negli anni Ottanta. Anche la madre, Mónika Erőss, ha avuto una carriera di rilievo come magistrata. 

Péter Magyar inizia il suo percorso politico nel 2002, alla fine del primo mandato di Orbán, mentre studia Giurisprudenza presso l’Università Cattolica Pázmány Péter di Budapest. L’impegno civico si concretizza però proprio in seguito alle proteste dell’autunno 2006. Nello stesso anno sposa Judit Varga, futura ministra della Giustizia e astro nascente di Fidesz: una coppia che i media ungheresi avrebbero poi definito il “prototipo della famiglia conservatrice”. Magyar è cofondatore del movimento Ne féljetek! (“Non temete!”), che offre supporto legale alle vittime delle violenze poliziesche durante le manifestazioni.

Negli anni successivi, Magyar diventa una figura cruciale, benché poco visibile, nell’élite di Fidesz. Ricopre ruoli strategici rappresentando l’Ungheria presso l’UE, e allo stesso tempo rivelandosi un fidato insider per l’ambasciata ungherese a Bruxelles e l’ufficio del primo ministro a Budapest. Più di recente, ha gestito come amministratore delegato diverse partecipate statali in settori chiave come istruzione e infrastrutture, da tempo epicentro della corruzione legata al sistema Orbán.

La svolta arriva nella scorsa primavera, quando Magyar spiazza tutti — compresi i vertici di Fidesz e la stessa ex moglie, che poco dopo lo accuserà di “abusi emotivi” — con un post su Facebook che diventa immediatamente virale. Magyar annuncia le sue dimissioni da tutti gli incarichi nelle aziende pubbliche, denunciando il sistema di potere di Fidesz. Nel messaggio, scrive di aver abbracciato per anni l’idea di un’Ungheria “nazionale e sovranista”, ma di essersi reso conto che “tutto questo non era altro che un prodotto politico, una patina di zucchero per mascherare il funzionamento della fabbrica del potere e accumulare enormi ricchezze”.

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La consacrazione arriva poche settimane dopo in un’intervista per il media indipendente Partizán, in cui Magyar esegue il ruolo di whistleblower, denunciando illeciti dall’interno. Dichiarandosi totalmente disilluso da Fidesz, afferma di avere prove dirette della corruzione ai più alti livelli del governo ungherese, definendo Orbán “l’Al Capone dei Carpazi” e il suo sistema di potere uno “Stato mafioso”. L’intervista raggiunge 2,6 milioni di visualizzazioni, pari a oltre un quarto della popolazione ungherese.

Nelle settimane successive, Magyar pubblica un audio dove l’ex moglie rivela che il braccio destro di Orbán, il “ministro della propaganda” Antal Rogán, ha manomesso le prove in uno scandalo di corruzione di alto profilo che coinvolgeva alti funzionari di Fidesz.

Magyar viene accusato da Fidesz di essere un traditore e comincia a essere preso di mira dai media governativi. Inizialmente, Magyar dichiara di non avere intenzioni politiche e di agire solo per senso civico. Cambia idea nel giro di poche settimane: la sua prima manifestazione pubblica a Budapest nell’anniversario dei moti del 1848 ungherese, sotto lo slogan “Non abbiamo paura”, richiama migliaia di persone, segnando l’inizio della sua nuova carriera politica.

L’ingresso in politica, le europee e la strada per le elezioni del 2026

Sebbene diversi analisti abbiano attribuito a Péter Magyar la fondazione di Tisza, il partito con cui ha conquistato quasi il 30% dei consensi alle elezioni europee dello scorso giugno, la realtà è diversa. Tisza, il cui nome richiama il fiume Tibisco che attraversa l’Ungheria e segna parte del confine con la regione ucraina della Transcarpazia, esisteva già dal 2021. Nato come un piccolo movimento antisistema, il partito era stato fondato da un ex esponente di Fidesz e da un ex membro del MSZP, uniti da una visione critica bipartisan verso l’establishment politico orbaniano.

Prima delle elezioni parlamentari del 2022, i due fondatori avevano attraversato l’Ungheria in auto per promuovere il loro progetto. Tuttavia, a causa del rifiuto di accettare finanziamenti statali e con una raccolta fondi che aveva fruttato appena 220.000 fiorini (circa 500 euro), decisero di non candidarsi in alcun distretto elettorale, lasciando il partito in una fase di stallo fino a quest’anno.

Magyar ha scelto Tisza per la convergenza sulla visione di un’organizzazione centrista e ideologicamente neutrale, costruita dal basso. Ha spesso parlato dell’obiettivo di creare una “terza forza politica” in Ungheria, ispirandosi a modelli come Polska 2050, il movimento fondato dal giornalista polacco Szymon Hołownia. Tisza ambisce a coniugare elementi di conservatorismo sociale, patriottismo, liberalismo e un forte orientamento pro-europeo, proponendosi come alternativa sia a Fidesz che alla frammentata opposizione uscita con le ossa rotte dalle ultime elezioni parlamentari.

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Péter Magyar ha delineato con chiarezza ciò a cui il suo movimento si oppone: il sistema “mafioso” costruito da Viktor Orbán e l’oligarchia che lo sostiene, accusando il governo ungherese di sperperare i fondi europei. Ha anche proposto di desecretare i documenti relativi all’era comunista e alle privatizzazioni degli anni ’90. Tuttavia, sul resto del programma politico è rimasto estremamente vago.

Zoltán Somogyi, sociologo di Budapest e cofondatore del think tank indipendente Political Capital, ha analizzato il fenomeno Magyar per Deutsche Welle. “Magyar sostiene: ‘Io rappresento il vero Fidesz’. La differenza tra il Fidesz di oggi e me è che io non rubo e sono un fermo sostenitore dell’Unione Europea,” ha detto Somogyi.

I tre mesi di campagna elettorale improvvisata, alimentata dalla “soap opera” attorno allo scandalo Novák-Varga, hanno comunque permesso a Péter Magyar di sparigliare le carte. Alle elezioni europee, Fidesz ha registrato il peggior risultato della sua storia, fermandosi al 44,8%. Ancora più disastroso il risultato dell’alleanza rosso-verde, composta da MSZP, Coalizione Democratica (costola fondata dall’ex premier socialista Ferenc Gyurcsány) e verdi, che ha raccolto un magro 8%.

Tisza, il movimento guidato da Magyar, è stato accolto subito nelle fila del Partito Popolare Europeo (PPE), suscitando la rabbia di Viktor Orbán. Il premier ungherese ha attaccato duramente Ursula von der Leyen e Manfred Weber, colpevoli ai suoi occhi di aver espulso Fidesz dal PPE nel 2021 e di tramare per sostituirlo proprio con Magyar.

Nonostante l’ingresso nel PPE, Tisza riflette le peculiarità della politica ungherese anche all’interno della destra europea. Un esempio evidente è la posizione di Magyar sulla guerra in Ucraina: Tisza ha votato contro l’invio di armi al paese invaso, in linea con il governo di Budapest. “Condividiamo la posizione del governo: non invieremo truppe o armi in Ucraina dall’Ungheria. La situazione del nostro paese in quel conflitto è particolarmente delicata”, ha dichiarato Magyar ai giornalisti di Politico.

La fine dell’anno segna, infatti, pure il termine della presidenza ungherese all’UE, durante la quale Orbán ha condotto una politica estera spregiudicata, visitando Kyiv, Mosca, Pechino e ottenendo un incontro bilaterale proprio con il futuro presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Mar-a-lago quattro mesi prima delle elezioni americane. In un paese in cui il ministro degli Esteri Péter Szijjártó ha visitato il Cremlino undici volte dall’invasione dell’Ucraina, la visita a Kyiv di Magyar prima delle europee è stata più una provocazione a Fidesz piuttosto che un atto politico concreto.

La posizione di Magyar sull’Ucraina riflette la sua strategia politica: non discostarsi troppo dalla linea di Fidesz, che mantiene un forte consenso tra gli elettori ungheresi, ma piuttosto proporsi come una sua versione ripulita e anti-corruzione. Questa tattica ha dato i suoi frutti alle europee, anche se, analizzando i dati, sembra che Magyar abbia sottratto più voti alla moribonda opposizione di sinistra che a Fidesz, che registra comunque un lieve calo. I sondaggi più recenti confermano questa dinamica, sebbene la loro interpretazione in Ungheria sia ben più complessa rispetto ai paesi dell’Europa occidentale.

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Le società di rilevazione ungheresi si dividono nettamente tra quelle vicine a Fidesz, alcune delle quali finanziate direttamente dal partito di Orbán, e quelle schierate con il segmento liberale dello spettro politico, spesso legate a specifici partiti d’opposizione. Le prime indicano, prevedibilmente, Fidesz ancora in vantaggio su Tisza con un margine tra gli 8 e i 10 punti percentuali. Le seconde, invece, ribaltano il risultato: secondo Medián, uno degli istituti considerati più affidabili, Magyar sarebbe avanti di ben 11 punti. Uno scenario impensabile fino a pochi mesi fa.

Un dato certo emerge da tutti i rilevamenti: i due ex alleati, Fidesz e Tisza, insieme concentrano oltre l’80% delle intenzioni di voto. Anche istituti ritenuti vicini ai partiti di sinistra, come IDEA, confermano questa tendenza, che riflette uno spostamento generale a destra conforme alle dinamiche dell’Europa centro-orientale negli ultimi quindici anni. Questo fenomeno è ancora più marcato a Budapest.

Il rischio è che Magyar finisca per trasformarsi in uno specchietto per le allodole, contribuendo a consolidare un dibattito politico incentrato esclusivamente su una lotta tra l’Orbán originale e una sua versione più giovane e presentabile. Fra un anno e mezzo, le urne forniranno le prime risposte, ma difficilmente saranno incoraggianti per la “democrazia illberale ungherese”, che appare sempre più oltre il punto di non ritorno.

(Immagine anteprima via WikiCommons) 



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