Da Mario Monti nel 2012 in poi le liberalizzazioni sulle aperture dei negozi erano entrate a forza nella mentalità degli italiani. I consumatori si sono abituati all’idea di poter far la spesa o andare nei centri commerciali la domenica e in buona parte dei giorni festivi, arrivando perfino a prevedere aperture a natale, pasqua e ferragosto.
A dodici anni di distanza qualcosa inizia a cambiare. Basta farsi un giro per le grandi città per notare molte più serrande abbassate in questi giorni natalizi, comprese buona parte delle grandi catene della distribuzione e dell’elettronica.
In parallelo si assiste a un nuovo fenomeno culturale: la chiusura nei festivi dei negozi cosiddetti «dei cinesi», sorta di «trovo tutto» in cui i consumatori si rifugiano se dimenticano qualcosa o hanno bisogni impellenti di prodotti per la casa. Qui si tratta di un processo di integrazione da parte della comunità cinese che si sta sempre più adattando alla società italiana e alle sue tempistiche. Una riduzione di orario di lavoro che è un buon segnale soprattutto per la conduzione tipicamente familiare di questi negozi.
Con lodevoli eccezioni, come la Coop che ha deciso da anni di chiudere i propri supermercati nelle giornate di festa e di ridurre l’orario negli altri festivi, quasi tutte le catene della Grande distribuzione organizzata (Gdo) mantengono i propri negozi e ipermercati aperti, con la capofila francese Carrefour ad avere introdotto le aperture H24, supermercati aperti tutto il giorno con le nottate in cui viene assoldato personale iper precario con salari da fame o aumentate le mansioni degli addetti al carico-scarico delle merci, tutti in appalto e sub appalto.
Ad incidere invece sulla decisione di molte catene di non aprire nella giornata di Santo Stefano di ieri c’è certamente anche un calo delle vendite dovuto al picco di inflazione dell’anno scorso e alla conseguente crisi dei consumi degli italiani. Soprattutto i grandi marchi dell’elettronica e degli elettrodomestici (Unieuro, Trony, Mediaworld) risentono della caduta delle vendite e della concorrenza dell’e-commerce. Ma a restare chiusi quest’anno sono stati anche parecchi centri commerciali e outlet, sintomo del fatto che le proprietà non riescono più a convincere (o costringere) i propri dipendenti a lavorare nei giorni festivi. Precariato e mancato rispetto dei contratti sono le cause principali di un tasso di sindacalizzazione (specie aderendo ai sindacati di base) che sta aumentando tra questi lavoratori, non più disposti a turni massacranti in cambio di pochi euro.
Le stime parlano di una riduzione delle aperture rispetto agli anni scorsi di circa il 20 per cento nelle catene di supermercati con punte del 50 per cento nei marchi di vendita di elettrodomestici ed elettronica.
«Ci si sta finalmente rendendo conto della inutilità della formula del sempre aperto; gli ultimi anni confermano come le nostre valutazioni in tal senso fossero fondate. L’apertura scriteriata delle attività commerciali non produce altro che un peggioramento delle condizioni di chi anche durante le festività è costretto a lavorare», commenta il segretario generale della Filcams Fabrizio Russo.
La battaglia sindacale contro le liberalizzazioni vede da un decennio in prima fila proprio la Filcams Cgil con la sua campagna “La festa non si svende”. Una campagna che ha prodotto scioperi specie nelle giornate più sentite dai sindacati – 25 aprile e primo maggio – con adesioni molto forti. Quest’anno in Toscana lo sciopero nel commercio si è allargato alla festività di Ognissanti del 2 novembre e alla Uiltucs, oltre che la Filcams: «La nostra protesta continua a restituire diritti e dignità, in nome di una crisi che ha determinato tanti abusi e soprattutto tanto precariato. Le liberalizzazioni sono sbagliate, illudono di dare crescita economica, ma creano solo dumping sociale e salariale, svendono le festività, svuotano i centri storici delle città a favore delle cittadelle del consumo e sviliscono la qualità del lavoro», hanno spiegato unitariamente Filcams Cgil e Uiltucs.
La richiesta della Filcams Cgil è di «un cambio normativa che regolamenti finalmente il settore e che non deleghi alle sole imprese la decisione di aprire o meno in maniera del tutto arbitraria. Al contrario, siamo convinti che questa decisione debba essere il frutto di un processo di concertazione tra sindacati, enti locali e imprese e che dunque tenga conto delle esigenze e dei diritti di tutti».
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