Rifiuti, nel 2023 metà dei Comuni ha incassato meno del 71% delle TARI

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Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio nel 2023 sono state riscosse TARI per 5,9 miliardi a fronte dei 10 dovuti. I tassi di riscossione più bassi si registrano al centro-sud, dove le tariffe sono più elevate a causa dei ritardi gestionali e infrastrutturali


Nel 2023 il gettito complessivo della tariffa rifiuti ha superato i 10 miliardi di euro, ma in metà dei Comuni il tasso di effettiva riscossione è andato di poco oltre il 70%, mentre in quelli meno virtuosi si è scesi addirittura sotto il 40%. E se i mancati introiti su base annua possono spiegarsi almeno in parte con la possibilità da parte delle utenze di rateizzare i pagamenti, resta il fatto che questi rivelano da un lato “una capacità di riscossione dei Comuni limitata” e dall’altro un problema di compliance soprattutto nei territori in cui gli importi medi del tributo sono più elevati, osserva l’Ufficio parlamentare di bilancio in un dossier di recente pubblicazione. Un fenomeno che, si legge, rappresenta “un’ulteriore problematica per la gestione finanziaria dei Comuni”, costretti a reperire altrove le risorse necessarie a coprire i costi di gestione del servizio. Soprattutto a sud.

Secondo l’analisi dell’Upb, realizzata su un campione pari al 76,4% delle amministrazioni, nel 2023 sono state riscosse TARI per 5,94 miliardi di euro a fronte dei 10,096 complessivamente dovuti. Peggio ancora le performance di recupero degli importi non versati nelle annualità precedenti: 2,6 miliardi a fronte di uno stock residuo di 15,2. Nella metà delle amministrazioni, insomma, si recupera appena il 24,3% del dovuto, mentre quelle meno performanti si fermano al 9,1%. Una variabilità sulla quale “incide la dimensione del Comune”, si legge, ma anche – e soprattutto, nel caso dei residui non riscossi – “la qualità percepita del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, la ricchezza dei contribuenti e l’impegno del Comune nella gestione amministrativa del tributo”.

Insomma, al di là degli aspetti squisitamente demografici, si incassano più TARI dove il servizio funziona meglio. Dove, cioè, il tributo è percepito come una vera a propria “benefit tax”. Anche se “a un maggiore livello del tributo risulta associata una minore compliance e una più contenuta capacità di recupero”, nota infatti l’Upb, “tali effetti si riducono se al più elevato tributo sono associati miglioramenti della qualità percepita del servizio e un maggiore sforzo nella gestione amministrativa della tassa”. Cosa che contribuisce a spiegare perché “i Comuni del Centro e del Mezzogiorno – si legge – registrano tassi di riscossione molto più contenuti”.

In media, spiega infatti l’Upb, il 60% dei costi di servizio da coprire con la TARI è determinato da costi variabili, legati a operazioni di raccolta, trasporto, smaltimento e trattamento. Costi che in molte amministrazioni centro-meridionali risultano tipicamente più elevati a causa dei ritardi infrastrutturali e gestionali del ciclo, e che gonfiano le tariffe rifiuti alimentando a loro volta fenomeni di evasione nel più classico dei circoli viziosi. Il risultato è che nelle aree in cui il ciclo costa di più si registrano anche i livelli più elevati di spesa non finanziata dalla TARI: nel 2023 a fronte di una spesa corrente di 3,8 miliardi di euro, le amministrazioni del sud hanno dovuto reperire altrove le risorse necessarie a coprire costi per 1,07 miliardi, mentre al centro il gap è sceso a 468 milioni e a nord a 274.

Ecco perché, chiarisce lo studio, “la riduzione dei divari territoriali nella distribuzione degli impianti di trattamento dei rifiuti” resta “la condizione fondamentale per riequilibrare i costi della TARI e rendere il sistema più equo“. Colmare i gap di trattamento per recuperare quelli di riscossione, insomma, ribaltando la dinamica viziosa costi-evasione e trasformando la tariffa in una leva per la promozione di comportamenti virtuosi. “Per rendere la TARI uno strumento efficace per disincentivare la produzione dei rifiuti – scrive infatti l’Upb – è cruciale che l’onere della tassa sia strettamente legato alla quantità di rifiuti prodotti non solo all’interno dello stesso Comune, ma anche a livello intercomunale“.

Un obiettivo, quest’ultimo, da raggiungere agendo anche non solo sul fronte degli impianti ma anche su quello della governance, che tuttavia, come riportato di recente da ARERA, resta “ancora lontano dal conseguire i necessari connotati di razionalizzazione dimensionale e di uniformità istituzionale”. Un ritardo che si riverbera anche sul piano delle tariffe: le circa 6.202 proposte tariffarie, spiega infatti l’Autorità nel suo ultimo report sul riordino del servizio, sono riconducibili a 2.598 Enti territorialmente competenti, a loro volta rappresentati in prevalenza (2.510 casi) da Comuni, “mentre un numero limitato di ETC predispone un piano economico-finanziario unico per l’intero territorio di pertinenza”. A indicare, commenta ARERA, “potenzialità di razionalizzazione degli assetti locali ancora da cogliere pienamente“.





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