Report e vino toscano, questione di precisione (e legalità)

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Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”, fa dire Shakespeare ad Amleto. E in fondo la citazione ben si adatta a commentare l’ultima puntata di Report dedicata ancora al vino italiano, adesso che è passata la concitazione del momento permettendo una riflessione più lucida e ponderata.  Questa volta – pochi giorni fa – il bersaglio della trasmissione era la Toscana, tra Bolgheri e Chianti. La tesi della redazione – imbeccata da alcuni documenti e fatture, ma anche da una buona dose di presunzione di colpevolezza – è che prestigiosi brand del vino acquistino in realtà grandi quantitativi di vino sfuso (a pochi euro al litro) per arricchire la propria produzione di alto lignaggio. Il servizio tira in ballo Ornellaia e Masseto, che nel 2015 ha acquistato vino da quelle Cantine Borghi che smercerebbero sfuso in mezza Toscana, ma anche Tenuta San Guido, Ricasoli, Rocca delle Macie e Marchesi Mazzei. Assodato che nessuna di queste storiche realtà del vino toscano ha bisogno di avvocati d’ufficio, tantomeno considerando che alcune pratiche raccontate nel servizio son del tutto legali, forse è necessario fissare alcuni punti per dare a Sigfrido (Ranucci, conduttore di Report, ndr) quel che è di Sigfrido e allo stesso tempo rimuovere i (troppi) preconcetti che sembrano guidare la penna e la telecamera.

Sigfrido Ranucci, conduttore di Report

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Report e il vino che viaggia

Innanzitutto va detto che il vino viaggia da sempre. I vini dell’Etna venivano caricati in nave dal porto di Riposto diretti in Toscana e in Francia per “migliorare” i vini di quelle zone, ma accadeva anche che vini marchigiani o abruzzesi arrivassero in Veneto e Lombardia per diventare etichette venetissime e lombarde. E tutt’oggi alcuni vini dal sud risalgono la penisola per rafforzare in acidità le basi spumante di qualche denominazione. Tutto questo viaggiare, per lungo tempo rimasto sregolato, è stato però normato dai disciplinari che hanno legato l’identità di un vino ad un territorio specifico. Ecco che, seguendo i disciplinari, ci sono pratiche ammesse e altre irregolari. Un Igt Toscana può essere imbottigliato con vino della regione, anche non vinificato dall’azienda che lo imbottiglia. Invece un Chianti Classico o un Bolgheri Doc possono esser prodotti solo da uve di vigneti nei rispettivi territori di appartenenza, ma non necessariamente di proprietà dell’azienda che imbottiglia.

Report e vino toscano, questione di precisione (e legalità)

Un n Bolgheri Doc può esser prodotti solo da uve di vigneti nel territorio di appartenenza 

È dunque evidente che queste regole sono definite proprio per evitare le sovrapposizioni e mistificazioni che Report ipotizza. E se da un lato la trasmissione Rai parte prevenuta nel “condannare” gli imputati senza un regolare accertamento dei fatti (sarebbe come condannare un imputato sulla base dei capi d’accusa, senza un processo che accerti la correttezza delle prove), dall’altro va riconosciuta il fatto che nel mondo del vino – ancora oggi, anche in Italia – transitino ettolitri di vino sfuso (anche da tavola) tra broker, commercianti e imbottigliatori. Ancora, se nelle scelte di gestione della produzione in cantina si adottano pratiche lecite, per cui si acquistano uve o vino all’esterno, è legittimo chiedere alle aziende – soprattutto quando incarnino l’eccellenza e un posizionamento di mercato molto elevato – di evitare tronfi storytelling tra suoli, esposizione dei vigneti e pigiatura soffice che magari inducono confusione nel consumatore, come sottolinea Report. In questo senso va detto, a difesa del lavoro di produttori e produttrici, che la normativa in Italia è stringente e anche i controlli ci sono. Poi è chiaro che se qualcuno agisce in maniera truffaldina, siamo fuori dalle regole e talvolta dalla legalità.

Report e l’eccezione dell’illegalità

Se infatti dal novero delle pratiche lecite si passa all’universo delle fattispecie di reato, Report fa solo il proprio lavoro nello stigmatizzare flussi di vino generico tra regioni italiane o, peggio, i viaggi di autobotti vuote con documenti che falsamente certificano la vendita di vino. Qui si va dalla sofisticazione alla truffa e non si può certo negare che alcune delle operazioni (parzialmente) documentate dall’inchiesta siano conoscibili o almeno sospettabili da molti operatori dell’universo enoico, solo che quando si configurano illeciti sono gli organi di controllo deputati a dover intervenire. E spesso, in Italia, intervengono. Ecco il vulnus dell’inchiesta di Report: far sembrare cosa normale, abituale, iterata e diffusissima fenomeni che sono e devono essere limitati alla dimensione fumosa dell’illegalità. Fare di tutta l’erba un fascio non è mai serio.

Report e il “vino-commodity”

Un terzo nodo viene al pettine con l’inchiesta della redazione di Report, stavolta non necessariamente orientata a sventolare il vessillo dei vini naturali. È infatti innegabile che ancora troppo spesso il mercato dell’enologia da laboratorio industriale – quella che, per dirla come la racconta il giornalista, può “costruire” vini su misura – trovi spazio nella produzione massiva. E questo segmento di mercato, che probabilmente porta in bottiglia liquidi artefatti quanto un soft drink che bevono i ragazzini e altrettanto poco salutari, è per paradosso il vero nemico di chi lavora con cura in vigna, in cantina e sul mercato.

Report e vino toscano, questione di precisione (e legalità)

La rivoluzione Supertuscan ha dato lustro al made in Italy nel mondo

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Perché va detto a chiare lettere: ci sono alcuni imbottigliatori che mettono la propria etichetta su bottiglie di vino-commodity, usando l’epica enoica solo come specchietto per le allodole, ma ci sono anche aziende e vignaiole e vignaioli che accudiscono le vigne, soffrono ad ogni gelata o siccità o grandinata, curano le uve in cantina e portano un pezzo di anima nel calice. E tra questi ci sono piccoli produttori sconosciuti, talvolta imbottigliatori con visione, ma anche – fino a prova contraria – alcuni dei protagonisti di quella rivoluzione Supertuscan che (può piacere o non piacere) ha dato lustro al made in Italy nel mondo.

Vino: quantità vs qualità

Un’ultima riflessione riguarda invece il nodo critico del rapporto tra qualità e quantità. In un contesto di mercato che vede il mondo del vino “piangere” sul calo dei consumi e sulla disaffezione dei consumatori, risulta infatti del tutto incomprensibile la necessità di allungare il vino con produzioni altrui. Quando il vino italiano uscirà del tutto dalla logica dei quantitativi per concentrarsi sull’eccellenza, non ci sarà spazio per broker e pusher di mosti concentrati e autobotti di sfuso e laboratori di fornitura tailor-made. Rispetto ad altri paesi produttori c’è più attenzione, è probabile, ma andare oltre lo storytelling può solo far bene alla qualità del prodotto italiano.





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