L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? Pablo Candiloro, Martina Cavallarin, Marco Neri

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Pablo Candiloro, Martina Cavallarin, Marco Neri

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

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Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

Pablo Candiloro

L’occidente sta attraversando un lento tramonto tra passeggiate tecno-bulimico-turistiche e violenze visual-farmaco-depressive. Come ogni impotente impero alla deriva canalizza la propria illusione di potenza nel ansia di successo, nell’esibizionismo più sfrenato, nella ricchezza più esasperata e nei disperati tentativi di rimediare alle proprie colpe. Il primo segno l’ha dato la Chiesa consegnando un papa periferico, con la precedente suggestione di Barack Obama alle presidenziali americane del 2008. Per questo non stupiscono attualmente le fresche nomine all’interno del mondo dell’arte occidentale. Il danno, però, ormai è fatto.

Le nuove generazioni si affacciano a un pianeta al collasso ecologico e sopraffatto da macchine più efficienti di noi umani mentre i popoli periferici avanzano insieme ai mari che si alzano. A che serve il mondo globale se non riusciamo a concordare su un destino comune? Per fortuna c’è la Biennale di Venezia, che forse però, allora, potrebbe essere più utilmente diretta dai volontari della Misericordia.

 

Giovanni Gastel, Barack Obama

Martina Cavallarin

Non sono certa che l’Occidente stia perdendo il potere, sono più propensa invece a pensare che siamo in una società nella quale le politiche civili hanno raggiunto una vera fase di urgenza, a volte anche a scapito di quelle sociali. E questa scia si riversa inevitabilmente sul campo di battaglia che è il rutilante mondo dell’arte contemporanea nel quale peraltro l’artista ha perso di importanza e l’opera di centralità, a favore di quello che vi si costruisce intorno. E l’intorno è un mondo che si sta radicalizzando su territori considerati e trattati sempre come marginali dai quali affiorano temi quali post colonialismo, gender, tribale, femminismo etc. Tutte tematiche che sposo e condivido, a patto che non innestino un razzismo al contrario. E a patto che non ci sia una speculazione a monte, ma una reale volontà di eliminare discriminazioni e distanze.

La Biennale di Venezia dalla direzione di Cecilia Alemani ha dichiarato delle linee guida ben precise in questa direzione che, a mio avviso, sta però parzialmente ghettizzando tutta una serie di movimenti e ricerche dal grande valore. La prossima direttrice della Biennale di Arte visiva di Venezia sarà Koyo Kouoh, (Camerun / Svizzera) specializzata in Arte Africana e identità diasporiche. Il Presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco dichiara che la kermesse è “la casa del futuro” e ci auguriamo quindi che lì ci sia sempre pari accoglienza, per tutti.

Cecilia-Alemani.-Photo-Marco-De-Scalzi-
Cecilia Alemani

Marco Neri

In realtà la mia posizione è già contenuta in parte nella tua premessa: Szeemann con la Cina nel 1999 e poi con l’Africa nel 2001 (ma non solo), mostrò al mondo le nuove frontiere del linguaggio espressivo contemporaneo, sconosciute ai più, mercato compreso… Dunque, nessuna novità da allora. Infatti, a cadenza biennale, registriamo una persistenza di questo spostamento di orizzonte, che però – senza più quella freschezza o quel respiro così profondo (penso all’impatto che ebbero immediatamente Chen Zen e William Kentridge, o a Marisa Merz nel 2001 e alle 5 artiste che rappresentavano l’Italia nell’edizione precedente, tutte indistintamente premiate col Leone d’Oro, per fare qualche esempio) – ha assunto le sembianze di un epigonismo fatto di derive sempre più banali, quasi automatiche e parecchio confuse, a cominciare dai titoli delle rassegne stesse.

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Quella “inclusiva” è una tendenza sana, sia chiaro, solo che oggi appare tassativa, se non obbligata, à la page al punto di trasformarsi nel suo contrario esatto, diffusa com’è ad ogni livello e su qualsiasi piattaforma, artistica, musicale, cinematografica o televisiva che sia. Un atto dovuto e assolutamente sensato che comincia ad apparire un po’ forzato, non esattamente “sentito”, conveniente a suo modo perché non sconveniente… Ma niente di più. Siamo sicuri quindi che sia ancora questo il fulcro su cui far leva per fare uscire dal cono d’ombra ciò che di più intenso e interessante si sta esprimendo nel mondo intero a livello artistico?

 

William Kentridge
William Kentridge

Perché in manifestazioni così “grandi”, per dimensioni e portata, puntare al “singolare” – se non al “curioso” – per motivi del tutto esterni all’arte, di indimenticabile si rischia di produrre soltanto una confusione totale, un chiasso diffuso, ondivago nel livello e paradossalmente esclusivo oltretutto. Questo è il mio pensiero almeno, su quanto si è potuto vedere negli ultimi anni ovviamente. Sono convinto però che la nuova curatrice della mostra internazionale veneziana – per preparazione e background – saprà trovare la quadratura del cerchio e si dimostrerà all’altezza del compito.

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