Il mega piano era stato salutato dai fuochi d’artificio e dagli annunci mirabolanti di impegni presi e lavori allo spasmo per spendere fino all’ultimo euro per cogliere in pieno “l’occasione storica”, la “ricostruzione dell’Italia”, “il nuovo miracolo economico”. Ed è ancora oggi celebrato in pompa magna sul sito ufficiale “Italiadomani” – presentato tre anni fa come il database dei monitoraggi e delle rendicontazioni completo, aggiornato e consultabile ma rimasto privo della doverosa trasparenza istituzionale -, come “Un nuovo Paese che avanza e prende forma…che avrà una Pubblica Amministrazione più efficiente e digitalizzata, trasporti più moderni, sostenibili e diffusi, territori coesi, un mercato del lavoro dinamico…la sanità pubblica vicina alle persone…la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili e l’accelerazione del processo di transizione verde, competenze diffuse nei settori pubblico e privato su tematiche green, potenziamento di infrastrutture e impianti energetici per favorire la produzione di energia da fonti rinnovabili…la preziosa eredità da lasciare alle generazioni future, dando vita a una crescita economica più robusta, sostenibile e inclusiva”.
L’occasione epocale è finita stritolata con nonchalance in un impiccio di burocrazia e procedure, depressioni e disillusioni, orfano di quel sentiment collettivo da spirito d’impresa storica che meritava la più grande e insperata operazione di investimento pubblico per la modernizzazione e la sostenibilità, finanziata dalla più grande fetta europea del “Recovery and resilience facility”. Una fortunata cornucopia piena dei fondi del programma NextGenerationEu per 191,5 miliardi di euro – 68,9 a fondo perduto e 122,6 di prestiti -, con l’aggiunta dell’8 dicembre del 2023 del nuovo capitolo RePowerEu che ha fatto lievitare l’importo complessivo a 194,4 miliardi di euro (122,6 presi a prestito dalla Ue e 71,8 regalati) sui complessivi 750 miliardi messi sul piatto dall’Unione per tutti gli Stati membri come risposta alla crisi pandemica.
Un fiume di denaro mai visto dai tempi del gigantesco Piano Marshall con l’European recovery program per la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, che mise l’Italia sulla pista di lancio del boom economico, e del Piano “Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia” degli anni Cinquanta del Novecento, che pose le basi per lo sviluppo del Sud. Un clamorosissimo budget che doveva essere trasformato in decine di migliaia di cantieri utili in tutte le Regione, con la promessa italiana di metterli tutti “a terra” tra il 2022 e il 2026, correndo al triplo della velocità realizzativa attuale.
Realisticamente sarebbero serviti almeno una decina di anni, un paio di legislature parlamentari complete ma nella massima coesione politica e con lavori costanti e soprattutto rafforzando gli uffici tecnici dei 7904 Comuni, il 70% dei quali hanno meno di 5 mila abitanti. Invece, sta finendo con due terzi del fondo Pnrr sempre fermi in cassa e non spesi, con le procedure ancora incomplete che superano il 60% di quelle avviate dal 2022 – 98.033 su 162.480 -, con la quota degli importi economici degli appalti non ancora affidati per il 45% del totale avviato pari a 35,5 miliardi, con molti cantieri e contratti di fornitura al palo. Una condizione praticamente irrecuperabile in pochi mesi.
La verità è che ministeri, regioni, comuni, università, imprese, centri di ricerca e altri soggetti attuatori – come definiti dall’articolo 10, comma 1 del Decreto Ministeriale n. 186485 del 16 dicembre 2022 -, passata la fase dell’accaparramento di quante più risorse possibili, fanno ora i conti con le tempistiche europee non messe in conto e con gap tecnici irrisolti. Tutti hanno chiesto e ottenuto ingenti risorse, ma senza sapere come spenderle. Al punto che oggi ci ritroviamo con molti Comuni medi e piccoli che se prima non erano in grado di gestire gare d’appalto e di seguire i lavori, di fronte ad un numero esorbitante di gare e appalti e opere alzano bandiera bianca, travolti dal carico burocratico e da scadenze finanziarie e tecniche. Altri Comuni rischiano persino di finire in pre-dissesto per difficoltà nelle rendicontazioni e per i ritardi nei trasferimenti dei fondi. Addio alla crescita aggiuntiva nazionale, stimata al 2026 al 3,4%, e ci ritroveremo tra i Paesi meno credibili e più indebitati con l’Ue.
Per questo quadro desolante, il governo ha spinto verso la Commissione Ue Raffaele Fitto, oggi con le stesse deleghe da ministro alla coesione e alle riforme e quindi ai Pnrr, che proverà a rinegoziare i vincoli, ad esempio il 40% degli investimenti garantiti al Sud che non sarà mai raggiunto. Il tempo per recuperare il terreno perso non c’è, e i troppi “disallineamenti” rispetto alle tabelle di marcia portarono il Consiglio dei ministri, il 26 febbraio scorso, al provvedimento che impone ai soggetti attuatori, una volta accertato “l’omesso” ovvero l’incompleto conseguimento degli obiettivi, la restituzione degli interi importi percepiti. La Struttura nazionale di missione Pnrr e le Unità di missione dei singoli ministeri sanno che lo scenario peggiore si avvicina, e che una proroga dei Recovery plan per almeno un paio di anni, richiesta da tempo e con realismo anche dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è l’exit strategy con l’ennesima revisione tecnica del Piano.
Le tabelle di marcia, però, non marciavano fin dall’inizio come prevedevano i cronoprogrammi e le slideshow. Bastava un giro tra uffici ministeriali, regionali e comunali per cogliere l’avvilimento per lo sterminato elenco di progetti che sarebbero rimasti nel libro dei sogni, e i silenzi imbarazzati per un’opportunità irripetibile mandata allo sbaraglio. Il clima era già da remi in barca con le “ambizioni” molto ridotte. Non a caso nelle defatiganti trattative Italia-Commissione europea le parole più gettonate erano: rimodulare, ricalibrare, tagliare, traslare,cancellare, e soprattutto supplicare Bruxelles di chiudere un occhio sui ritardi e ammorbidire le Operational arrangements per i riconoscimenti semestrali delle rate. Ma il Paese più beneficiato ha continuato a procedere nell’ordinario, senza nemmeno l’ombra del ritmo della grande e straordinaria impresa.
Il “baco” che erode il Pnrr è tutto politico, frutto di sopravvalutazioni delle capacità della nostra pubblica amministrazione, e di sottovalutazioni delle condizioni di depauperamento spaventoso degli uffici tecnici. Le sempre nuove rimodulazioni e revisioni in corso d’opera, e il record europeo di tre cambi di governo e di governance sono stati tre stress test in meno di 5 anni che hanno prodotto tre nuove governance che azzeravano quelle precedenti, e lo stop ad go delle responsabilità inizialmente centralizzate a Palazzo Chigi poi devolute ai ministeri e poi ritornate a Chigi. Dimenticando che programmazione e coordinamento, progettazione, realizzazione e manutenzioni, permessi e certificazioni, attività di vigilanza e direzione cantieri e collaudi richiedevano fin dall’inizio l’iniezione di nuove qualifiche professionali per coprire carenze storiche rimaste un tabù irrisolto. In particolare al Sud gli uffici tecnici di Regioni e Comuni scelti per gestire l’enorme mole di progetti del Pnrr non riescono spesso nemmeno a garantire l’ordinario. Inondati da decine di migliaia di progetti a pioggia – sono circa 6.000 i soggetti attuatori e oltre 150 mila i bandi previsti – i valorosi tecnici dello Stato hanno fatto quel che potevano.
Inutile dire che i tre governi che hanno gestito il Pnrr – Conte 2, Draghi e Meloni – avrebbero potuto lanciare “l’arruolamento” dei tecnici pensionati della Pubblica amministrazione, come per i medici richiamati durante la pandemia. Avrebbero potuto associare fin dall’inizio e in maniera trasparente e diffusa le nostre società di progettazione tra le top nel mondo, impegnare al massimo le grandi aziende e società pubbliche e le multiutility, mobilitare la rete delle professioni. Potevano persino ripristinare per i tecnici della Pubblica amministrazione ’incentivo dello zero virgola sul valore dei progetti previsto dalla Legge Merloni del 1994 e poi cancellato decretando da allora il crollo progressivo degli investimenti pubblici. Ma, soprattutto, in nome dei cantieri del Pnrr, poteva essere siglata una tregua della conflittualità politica avviando la condivisione delle responsabilità vista la portata storica del Piano.
La “saga dei tempi morti” del Pnrr con 6 missioni in 16 componenti, 134 investimenti e 63 riforme per 197 misure che dovevano produrre una visione e una idea condivisa del Paese nel fascino del futuro a portata di mano, è avvilente.
La cronaca racconta la partenza ufficiale del 9 settembre del 2020, il giorno in cui il “Comitato interministeriale per gli Affari europei”, presieduto dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, concordava le prime linee guida, poi approvate il 12 gennaio 2021. Non tutti brindavano, e l’opposizione già si disimpegnava mentre la governance del Piano veniva accentrata a Palazzo Chigi dove circolavano come segreti di Stato le prime bozze informali.
Ma il governo Conte 2 cadde e entrò in scena Mario Draghi che, il 17 e il 18 febbraio?2021, nelle dichiarazioni programmatiche per la fiducia tra Senato?e Camera, già annunciava un “nuovo” Pnrr, precisando che?“Le Missioni del Programma potranno essere rimodulate e riaccorpate”.?E la governance del Piano fu trasferita da Palazzo Chigi nelle competenze del ministero dell’Economia e delle Finanze e della Ragioneria dello Stato. Si ripartiva da zero e ridisegnando il Piano con target e milestone. Mancava la trasparenza annunciata, nonostante dall’ottobre del 2020 Camera e Senato l’avessero imposta con la richiesta al governo di individuare “…un sito internet o un portale dedicato, attraverso il quale rendere disponibili e utilizzabili, per ciascun progetto, dati sugli interventi finanziari programmati, sugli obiettivi perseguiti, sulla spesa erogata, sui territori che ne beneficiano, sui soggetti programmatori e attuatori, sui tempi di realizzazione previsti ed effettivi”. E nonostante lo stesso premier Draghi, nelle dichiarazioni programmatiche per la fiducia avesse prospettato l‘indispensabile “trasparenza della pubblica amministrazione, base per la responsabilità con l’accesso alle informazioni, siano essi dati quantitativi o qualitativi. Questo consente ai cittadini di analizzare l’attività e i processi decisionali pubblici.?Il tutto in un virtuoso rapporto di collaborazione tra istituzioni e collettività amministrate, che veda rispettato il principio del coinvolgimento attivo della cittadinanza nelle scelte e riesca ad?alimentare e consolidare la fiducia nelle istituzioni, ma anche il necessario controllo sociale”.
Il 30 aprile 2021 il Piano fu trasmesso ufficialmente alla Commissione europea. Le strutture furono definite per la grande impresa, ma sei mesi dopo cadde anche il governo Draghi, e il 22 ottobre 2022 arrivò il governo Meloni. Che rimodificò di nuovo la governance riportando le responsabilità del Pnrr al punto di partenza e cioè a Palazzo Chigi e nelle competenze del ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto.
Fitto trasferì sotto la Presidenza anche l’Agenzia di coesione territoriale, accumulando ulteriori ritardi e difficoltà soprattutto al Sud per i mesi di stand by dovuti al trasloco e alla ridefinizione della struttura tecnica sia dell’Agenzia sia del Piano nazionale e sia del ministero di Fitto, che oggi è vicepresidente e Commissario Ue, sostituito dal neo ministro Tommaso Foti.
Arrivò il 27 luglio del 2023, il giorno in cui il governo Meloni presentò le “Proposte per la revisione del Pnrr”, smontando in 151 pagine di analisi dello stato dei progetti e delle riforme l’impostazione precedente, denunciandone lo stato caotico, i ritardi e le difficoltà operative, rilevando alcuni casi come quello delle reti a banda larga a 1 giga con “molti numeri civici messi a gara inesistenti o privi di residenti, elencando i grandi cantieri senza “tiraggi” ovvero i finanziamenti come l’alta velocità Fs nel Sud. E fu annunciata una nuova rimodulazione con il de-finanziamento dei progetti in ritardo o che non avrebbero mai raggiunto il traguardo. Tra questi c’erano cantieri per l’efficienza energetica, rigenerazione urbana, piani urbani integrati dei comuni. Protestarono sindaci e presidenti di regione di ogni latitudine politica per 16 miliardi di definanziamenti, persino di progetti ormai al dopo gara o in corso di procedura di gara o addirittura di opere concluse ma considerate “non finanziabili”. E fu subito caos, con Fitto che promise coperture da un sistema finanziario di vasi comunicanti con scambi tra Pnrr e Fondi di coesione, RePowerEu e nazionali.
La scure del governo non risparmiò nemmeno i residui 1,287 miliardi per interventi urgenti “per la riduzione del rischio idrogeologico”, definanziando integralmente la misura che avrebbe dovuto proteggere 1,5 milioni di italiani, e assegnando quei fondi all’Emilia Romagna alluvionata. Sparirono anche i target della depurazione delle acque reflue con relativi 600 milioni per reti fognarie e depuratori al Sud utili a far uscire dal Medioevo 2,57 milioni di italiani e per ridurre le pesanti sanzioni Ue per 145mila euro che stiamo pagando ogni giorno. Per altri 2 miliardi di infrastrutture idriche slittava la conclusione dal 31 dicembre 2023 al 30 giugno 2026, furono ridotti fondi per i sistemi irrigui, le infrastrutture sociali di comunità per le aree interne (725 milioni), per le aree verdi urbane (110 milioni), le ciclovie turistiche, case e ospedali di comunità, le centrali operative di telemedicina, la riqualificazione di edifici scolastici.
Nel frattempo l’Italia contrattava le erogazioni delle risorse del Piano continuando a passare dalle forche caudine della Commissione Ue. In tabella, i grafici con la ripartizione delle risorse Pnrr in Europa di Openpolis e le rate pagate all’Italia nell’elaborazione dell’Ufficio studi della Camera dei Deputati.
Il primo anticipo da pre-finanziamento di 24,9 miliardi fu quindi incassato il 13 agosto 2021 con circa 9 miliardi a fondo perduto e circa 16 di prestiti, pari al 13% circa del valore del Piano. La prima rata ufficiale arrivò 8 mesi dopo, il 13 aprile 2022, con 21 miliardi erogati e quasi equamente divisi tra prestiti e sovvenzioni. La seconda rata, sempre di 21 miliardi fu incassata il 9 novembre 2022. La terza rata richiesta a dicembre 2022 arrivò il 9 ottobre 2023 con l’ok preliminare del Comitato economico finanziario dell’Unione dopo mesi di verifiche e modifiche da parte di Bruxelles poiché la gran parte dei 55 obiettivi della rata non erano stati centrati, ma pagarono 18,5 miliardi dopo generosi compromessi e facendo saltare progetti come i 7.500 posti letto negli alloggi universitari entro il 2022, sostituito dal molto meno impegnativo “obiettivo qualitativo” dell’avvio delle gare, gli asili nido traslati sulla quarta rata con la riduzione dei previsti 265 mila posti in più, meno scuole da mettere in sicurezza, meno impianti agri-fotovoltaici e per le comunità energetiche.
Sempre nell’ottobre 2023 partì la richiesta per la quarta rata da 16,5 miliardi pagata in seguito a nuovi tagli e modifiche del Piano accettate da Bruxelles, il 28 dicembre 2023. La quinta rata fu chiesta il 30 dicembre 2023 con l’ok al pagamento di 11,1 miliardi il 2 luglio 2024. A fine giugno 2024 il Governo fece partire la richiesta per la sesta rata, legata agli obiettivi del primo semestre dell’anno e dal valore di 8,7 miliardi – erogata stamani dalla Commissione Ue – ma Bruxelles aspetta ancora gli obiettivi di due rate del valore complessivo annuo di 30 miliardi.
Lo stato del Pnrr? Oggi abbiamo un quadro grazie all’Ufficio parlamentare di bilancio, ai giudici contabili della Corte dei conti e all’Autorità nazionale anticorruzione che ogni semestre presentano report, con sempre nuovi alert per procedure di gara avviate e non completate e tassi di avanzamento da lumaca, e grazie al lavoro del team Openpolis.
La spesa reale attende ancora l’impennata annunciata più volte. La piattaforma ReGis che monitora l’andamento riporta pagamenti per un totale di 53,5 miliardi, con l’affanno evidente anche del cronoprogramma 2024 che prevedeva la spesa di 43,96 miliardi ma a ottobre era di appena 8,93 miliardi, il 20,3% del budget.
La spesa complessiva arranca intorno al un terzo del totale delle risorse del Piano, trainata per il 62% da bonus e superbonus (13,9 miliardi) e altri incentivi come crediti d’imposta della Transizione 4.0 (13,4 miliardi) previsti dai piani nazionali e fatti traslocare nel Pnrr nel 2021 dal governo Draghi per ridurre l’impatto della maxi-detrazione sui conti pubblici ma “drogando” il Pnrr.
La transizione verde (Missione 2) resta a fondo classifica con un tasso di realizzazione della spesa annuale al 10,6% (1,04 miliardi su 9,81 programmati). La missione 5 “Inclusione e coesione” è al 14,1%. La digitalizzazione e Pubblica Amministrazione (Missione 1) è ferma al 14,8%. La Salute (Missione 6) non va oltre il 22,3%. Istruzione e ricerca (Missione 4) è al 35,5% e supera di poco il 33,6% della spesa per le Infrastrutture (Missione 3). Le 72 misure delle riforme, dalla giustizia alla Pubblica amministrazione e dagli appalti alla concorrenza per regolare e migliorare il funzionamento della macchina pubblica sono al 63%, con l’ok a 67 scadenze.
L’indicatore indipendente Openpolis – https://openpnrr.it – che sta sostituendo lo Stato nel monitoraggio aggiornato e di dettaglio e ragionato in nome della trasparenza, su piattaforma libera, gratuita e senza pubblicità, riporta complessivamente 262.431 progetti con una percentuale di completamento delle riforme pari al 79,14% e con un possibile aumento all’84,01%, e la spesa effettiva inchiodata al 26, 41%, come mostra la tabella.
La Corte dei conti valuta il livello della spesa a 57,7 miliardi, il 30% delle risorse del Piano. Al 30 giugno scorso le “missioni” sulle 7 riforme erano rilevate come completate al 45%, ma l’avanzamento finanziario con dotazione di fondi al 30 settembre 2024 presentava una spesa sostenuta del 4%: 278 milioni su 6,9 miliardi. In 3 casi su 7 la spesa sostenuta risultava pari a zero, nei restanti casi si attestava a valori inferiori al 31%. Valutava poi una fetta molto ampia di cantieri fermi e in una condizione sostanzialmente irrecuperabile.
Anche l’Anac valuta il perimetro delle opere in ritardo, esclusi gli affidamenti diretti senza gara già aggiudicati ma con importi molto bassi. Rileva molte procedure di gara andate deserte o senza esito dopo essere state bandite: “Dai dati risulta che per gli appalti avviati nel 2023 è arrivato all’affidamento il 74% del valore appaltato mentre quelli avviati nel 2024 sono solo il 5%“. Numeri choc.
Le aziende pubbliche più strutturate come Ferrovie dello Stato mostrano stati di avanzamento dei 13 investimenti ferroviari nel Piano “in linea con il cronoprogramma aggiornato”, come rileva la Corte dei conti, con una spesa al 30 settembre 2024 pari a 8,9 miliardi, il 39% della dotazione complessiva, con il 77% dei progetti avviati in fase di esecuzione dei lavori, l’11% in attesa delle autorizzazioni o progettazioni e l’8%, di aggiudicazione e stipula del contratto.
Solo il 4% del programma Fs ha però raggiunto la fase del collaudo. Ma, con molto realismo, Stefano Donnarumma – l’Ad di Fs dal 27 giugno scorso – alla recente convention di presentazione del Piano strategico 2025-2029 ha aperto uno squarcio di verità sullo stato dei cantieri con una premessa condivisa da molti addetti ai lavori, spiegando: “Se avessi la bacchetta magica e potessi tornare indietro noi probabilmente scriveremmo un altro Pnrr, pensando ad altre attività più urgenti e più realizzabili”. Il top manager con alle spalle ruoli da Ad in Acea e Terna, analizza le “complicazioni”: “Complessivamente ci sono stati assegnati 24,9 miliardi di Pnrr, fino a ottobre ne abbiamo spesi 11. Il residuo è di circa 14 miliardi. Spesso la realizzazione delle opere è molto complicata: è stata avviata una proposta di rimodulazione su progetti caratterizzati da imprevisti. Per il Terzo valico, lungo 50 km, siamo all’ultimo chilometro e la difficoltà è su circa 600 metri dove c’è una vena di gas. Noi dobbiamo garantire la sicurezza delle persone che lavorano lì. Non ci sono ritardi dovuti da mancanza di volontà ma da una causa esogena. La soluzione la stiamo identificando, ci metteremo qualche mese in più ma ultimeremo l’opera”.
Quindi, se entro giugno 2026 non si conclude l’opera, come tantissime altre opere del Pnrr sulle quali nessuno ha il coraggio dell’Operazione Verità, cosa si fa? Si aspetta e si si spera in una proroga biennale, si rimodula per la quarta volta il piano sostituendo le opere ferme e irrealizzabili con quelle completabili? Donnarumma ha posto anche la questione della rendicontazione delle opere, altro rebus da sciogliere: devono essere “completate e funzionali” oppure possono essere solo “funzionali” per stralci costruttivi? Se ai 37 km della galleria del Terzo valico Genova-Milano mancano solo 5 metri a causa della vena del micidiale gas grisù intercettata e la talpa giocoforza resta ferma nel tunnel in attesa della rimodulazione da due a una “canna”, e se sulla Palermo-Catania le talpe sono ferme per mancanza di acqua causa siccità, se sulla Napoli-Bari i rallentamenti sono dovuti alle frane e servono modifiche dei lotti, questi lavori avviati possono essere liquidati dalla Commissione Ue? Questo problema, più che della holding Fs, è del Paese perché, spiega sempre Donnarumma, per il Piano strategico Fs “abbiamo solo 14 miliardi dal Pnrr su 100 miliardi totali e 84 da altre fonti finanziarie: il mancato apporto finanziario dal Pnrr difficilmente ci farà fallire”.
Anche l’ultimo rapporto di Bankitalia del 7 novembre scorso rileva 32 miliardi di bandi di gara del Pnrr, con appena il 15% oltre l’ostacolo del traguardo. Gli analisti di Bankitalia si sono concentrati sui lavori pubblici a “effetto crescita”, consegnando altri numeri impietosi. I progetti gestiti dalla filiera istituzionale pubblica vedono circa l’80% degli interventi, per un valore di 91 miliardi, passare attraverso gare d’appalto, e su questi Bankitalia punta la sua attenzione. Ad agosto 2024 i bandi erano 173mila, per un importo totale di 61 miliardi di euro, con un buon terzo delle opere, oltre 30 miliardi su 91, ancora senza gara.
Anche se l’ultima Relazione di Fitto a fine luglio indicava l’attivazione del 92% delle gare, per Bankitalia lo stato delle gare già aggiudicate era intorno al 70% del totale per 32 miliardi di euro, con il 15% concluse, il 32% in corso ma “spesso con ampi ritardi rispetto ai tempi stimati”, e il 53% ancora “non avviate”.
Anche dall’ultimo censimento telematico del ministero dell’Economia-ReGis parte l’ennesimo richiamo a correre nella realizzazione delle opere ferme e vista la spesa effettiva a meno 13 miliardi nei primi 9 mesi del 2024, sotto i 22 miliardi di uscite ipotizzate dal Documento programmatico di bilancio nell’ultimo programma di finanza pubblica.
L’Italia può trascinare stancamente una straordinaria opportunità?
(Erasmo De Angelis su Greenreport.it del 23/12/2024)
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