Samia Yusuf Omar ci ha insegnato che chi muore nel Mediterraneo cercando un’altra vita per scappare da guerra, fame e violenze non è un numero, ma un essere umano. E come tale pensa, vive, sogna. Per esempio di tornare a gareggiare alle Olimpiadi, a Pechino, dove lei era stata già una volta, eliminata in batteria sui 200 metri con il tempo di 32 secondi e 16 centesimi, molto indietro rispetto a tutte le altre ma applaudita dal pubblico del Bird’s Nest, il famoso stadio olimpico a forma di nido d’uccello della capitale cinese, come se avesse stabilito il record del mondo.
Un sogno naufragato in mezzo ad acque infide, una corda che non si afferra, la speranza che affoga in un attimo, sua sorella che aspetta e aspetterà per sempre, e poi l’attesa, il mistero, fino a che qualcuno dice «purtroppo è lei», e allora la vittima smette di essere un numero e perdendo la vita ritrova un nome, un cognome, una nazionalità, un’identità.
Samia Yusuf Omar, somala, velocista. Raccontata in un libro di Giuseppe Catozzella, che ora è diventato film per la regia di Yasmine Samdereli (Non dirmi che hai paura), al cinema da qualche giorno. Un racconto duro che non ammorbidisce, non edulcora, non nasconde, anzi schiaffeggia l’indifferenza o la facile cultura dell’alibi, «non è colpa nostra se», «bisogna aiutarli a casa loro», «se accettiamo tutti dove andranno a finire?».
L’estate di Mo Farah
Era un tempo, il 2012, di Samia, in cui le tragedie del mare avevano appena cominciato a riempire le cronache. Il Mediterraneo ce l’abbiamo sotto casa, eppure ci sembrava lontano, come se non ci riguardasse quello che accadeva e accade. Erano appena finite le Olimpiadi di Londra, quelle di inspire a generation, l’estate ci aveva regalato gare, medaglie, persino emozioni.
E poi c’era lui, Mo Farah, dominatore assoluto delle corse in pista più lunghe, i 5000 e i 10000 metri. Gareggiava per la Gran Bretagna ma era un figlio del Corno d’Africa come Samia. Diventò una delle copertine, forse la copertina di quei Giochi. E poi c’era tutta la storia che sembrava fatta apposta per la retorica olimpica, un ragazzino che perde il papà in guerra, dopo essere nato in un paese conteso, il Somaliland, e poi finisce a Gibuti e quindi in Inghilterra dove cresce fra abusi e violenze. Ma poi trova la sua strada, corre, corre tanto, e soprattutto corre forte. Fino a vincere, anzi a stravincere due medaglie d’oro che poi a Rio diventeranno quattro.
Le Olimpiadi sono fatte così, al di là di tutto rassicurano, e hai sempre la sensazione che il mondo sia migliore di come ti sembra, che il buio sia sempre un gregario della luce, che in qualche modo un lieto fine ci debba essere anche nelle storie più tragiche. Eppure quando si tornò a casa, cominciò a girare questa storia, una ragazza somala, già atleta olimpica, non ce l’aveva fatta. Forse in quel mare aveva pensato di copiare Mo Farah, seppure sulle distanze dello sprint.
Fu Abdi Bile, campione mondiale dei 1500 metri nel 1987, a dirlo in una riunione del comitato olimpico somalo. Più tardi, la scrittrice Igiaba Scego ne parlò per la prima volta in Italia sul quotidiano Pubblico. Da quel momento Samia diventò il simbolo di un altro modo di vedere quello spazio di mare fra l’Africa e casa nostra. Le immagini di quella batteria di Pechino finirono immancabilmente su YouTube, la maglia bianca con le bande celesti sulle spalle, la fascia bianca sui capelli, la delusione all’arrivo ma anche il pubblico impazzito per lei. Il film, figlio legittimo del libro, aggiunge altri mattoni: no, Samia non era un numero, come tanti, come tutti, era spinta dal dolore a cercare un altro posto al mondo dove stare.
Erano finiti i tempi in cui stroncava il suo amichetto Ali nelle corse fino a scuola fra le strade arrabbiate di Mogadiscio o si nascondeva a qualche parente e al luogo comune popolare che la braccava: “Non sono cose adatte a una donna”. Quali erano queste “cose non adatte”? Correre, sognare, e perché no, vincere. Con coraggio, rispedendo al mittente quel “Non dirmi che hai paura” che sarebbe diventato poi il titolo del libro, del film e della sua vita.
Quattro anni dopo, sugli spalti a Rio de Janeiro, ci parve di sognare. Un’altra batteria, stavolta sui 400 metri. Un’altra scritta “Somalia”. Sembrava davvero Samia, una sosia, una copia fotostatica, una somiglianza strepitosa per fortuna senza fine tragica. Fummo presi dall’irresistibile desiderio di andare a cercarla. Si trattava di Maryan Nuh Muse, unica atleta somala a quei Giochi, pure lei arrivata lontana dalle prime, pure lei con un passato alle spalle di “restatene a casa, non è per te” nella stessa Somalia di Samia, quella in mano agli integralisti. Un “consiglio” che Maryan, come Samia, non ha mai ascoltato e che l’ha portata a fare il contrario, simbolo e ispirazione delle donne somale che rivendicano il loro diritto a praticare lo sport.
La storia di Fatim Jawara
Eppure i «non sta bene, non sta bene» sono duri a morire. Questa frase insegue tante ragazze in Africa, non solo in Somalia. Glielo dicevano anche a Fatim Jawara, promettentissima portiera della nazionale under 17 di calcio del Gambia. Giocava con le Red Scorpions di Banjul Fatim. Parava, viaggiava, sognava. Praticò anche l’atletica e la pallavolo prima di scegliere il calcio. Per allontanarla dal pallone, la sua famiglia la mandò a studiare lontano, ma non fu sufficiente per strapparle di dosso una passione insuperabile. «Magari i maschi pensano di essere gli unici che possono giocare, ma non è vero».
Anche in questo caso le sue parole, la sua storia, sono riaffiorate grazie a un libro di un’autrice italiana, Mariangela Maturi. Il titolo è Solo un passo per spiccare il volo. E in fondo, a pronunciarlo, si sente una tenera e struggente adiacenza con il Non dirmi che hai paura della storia di Samia. Pure Fatim è scomparsa nel Mediterraneo, a 19 anni, due in meno di Samia. Pure per lei l’attesa, la speranza che potesse essere da qualche parte e invece la conferma della tragedia. Samia e Fatim possono essere state parecchie cose, persino ora che non ci sono più: sogni, fatiche, sorrisi, progetti, famiglie, desideri, illusioni. In ogni caso le loro storie ci danno una certezza: non sono numeri.
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