“Il Mediterraneo è in crisi ma si può ancora salvare”

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Dallo Stretto di Gibilterra fino a Cipro, passando per le coste italiane, croate, tunisine, spagnole e greche: Stefano Liberti ha viaggiato lungo il bacino mediterraneo per incontrare pescatori e scienziati. Il racconto che ne esce è quello di un mare che cambia a causa dell’impatto antropico, con conseguenze dirette non solo per chi di questo mare ci vive. Le recenti drammatiche alluvioni in Spagna, legate al progressivo riscaldamento delle acque, sono lì a dimostrarlo. Di fronte a questo scenario di crisi, però, alcune iniziative locali sembrano dare ancora un po’ di speranza. 

 

Stefano Liberti, da turista che in estate va in vacanza sulle coste del Mediterraneo ho constatato negli ultimi anni due fatti. Il primo: il mare è sempre più caldo; il secondo: vedo sempre meno piccoli pescivendoli locali. Cosa c’è di scientifico in quella che è una sensazione? Partiamo dalla temperatura…

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Ormai il cambiamento del Mediterraneo lo percepiamo anche noi semplici cittadini che ne fruiamo solo in alcuni periodi dell’anno. Tutti noi ci siamo accorti che le acque sono più calde e non rinfrescano più. Ma questa non è solo una percezione: il Mediterraneo, che è un bacino chiuso, si sta riscaldando ad una velocità di circa il 20 per cento superiore rispetto agli oceani. Per questo è considerato dagli scienziati come un hot spot climatico, un luogo dove il cambiamento è più rapido e può anticipare quello che succederà in futuro negli altri mari.

 

Quali sono le conseguenze principali di questo aumento delle temperature?

L’acqua più calda produce due enormi cambiamenti. Il primo riguarda la composizione della flora e della fauna marina perché facilita l’insediamento di specie alloctone termofile che arrivano nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez o con le acque di zavorra delle navi. Tutti i pescatori che ho incontrato nel mio viaggio mi hanno detto la stessa cosa: oggi c’è molto meno pesce e, in più, i pesci sono anche cambiati. Al largo delle coste cipriote domina il pesce palla o il pesce scorpione, arrivati attraverso il Canale di Suez. In Tunisia e nel Delta del Po dominano ormai due specie diverse di granchio blu, uno arrivato dall’Oceano indiano, l’altro dall’Atlantico. Questa invasione ha cambiato gli equilibri del mare. E anche quelli degli uomini che di questo mare vivono.

 

E il secondo cambiamento a cui faceva riferimento?

Negli ultimi anni vi è stato un cambiamento del regime delle correnti e del comportamento del mare come regolatore climatico. Le conseguenze sono molto importanti. Il famoso clima mediterraneo era caratterizzato da estati miti e temperate. Questo perché il mare assorbiva il calore e regolamentava le temperature. Ora non è più così: il clima mediterraneo è diventato subtropicale. Le estati sono sempre più calde e in autunno sono sempre più frequenti le alluvioni dovute al fatto che il mare non riesce più ad assorbire tutto il calore che incamera e quindi lo deve in qualche modo scaricare nell’atmosfera. Fenomeni sempre più devastanti, come successo di recente nella zona di Valencia. A cambiare, quindi, non è solo l’ecosistema marino, ma tutto il rapporto tra il mare e la terra.

 

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Che ruolo ha il cambiamento climatico in questi eventi?

In realtà il cambiamento climatico si è innestato su delle crisi precedenti e le ha accelerate. A partire dagli anni Settanta dello scorso secolo c’è stato un sovrasfruttamento delle risorse ittiche e una progressiva distruzione degli ecosistemi. La pesca industriale, una scarsa tutela delle acque e la continua immissione – attraverso i fiumi – di fertilizzanti e agenti inquinanti avevano già portato a una perdita di biodiversità e a un proliferare di alghe invasive. Oggi, nel momento in cui le acque si stanno riscaldando ecco che questi vari fattori producono una crisi più importante. Anche altrove l’uomo ha usato il mare sotto un duplice aspetto: estrattivo da un lato, per la pesca, e di discarica dall’altro. Ma nel Mediterraneo l’effetto è più impattante perché si tratta di un mare chiuso e di un’area densamente popolata (500 milioni di persone, 800 milioni in estate) in cui l’impatto antropico è molto importante.

 

Cosa sta avvenendo in termini di politiche di protezione? Sembra che gli Stati che si affacciano sul bacino facciano un po’ fatica a mettersi d’accordo…

Il Mediterraneo è un mare ricco di biodiversità: rappresenta meno del 2% delle acque emerse, ma vi si conta il 7% delle specie marine. Solo questo dato basta per dire che occorrerebbe portare maggiore attenzione alla sua tutela. Come? Riducendo l’impatto antropico, lo sforzo di pesca, l’immissione di agenti inquinanti e soprattutto monitorando quanto sta accadendo per gestirlo adeguatamente. Gli Stati però fanno fatica a determinare una vera e propria politica di protezione del mare. Sul Mediterraneo si affacciano diversi paesi che hanno mentalità e interessi diversi e che spesso non sono in rapporto amichevole tra loro. Trovare regolamentazioni comuni che riguardano tutto il bacino, la sua sponda nord e la sua sponda sud, è molto complicato.

 

A livello locale però, qualcosa si muove…

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Quello che ho visto è l’esistenza di una comunità mediterranea molto attenta, composta di persone che stanno sul mare e stanno mettendo in piedi delle soluzioni interessanti a livello locale. Penso a quanto successo nella Fossa di Pomo, tra Croazia e Italia, dove sono state imposte delle importanti restrizioni di pesca. Penso anche a quanto successo nel Mar Menor, una grande laguna al sud della Spagna a cui è stato conferito uno status giuridico affinché questo ecosistema possa essere tutelato e possa rivendicare i propri diritti. La cosa rincuorante è che quando vengono messi in moto dei processi è stato dimostrato che la capacità rigenerativa del mare è elevatissima.

 

Come ottenere l’appoggio dei pescatori?

Nella Fossa di Pomo in un primo tempo questo processo era osteggiato dai pescatori che poi hanno però capito che ciò permetteva una migliore rigenerazione dei pesci. Ora sono i primi ad appoggiare il progetto. I pescatori sono i primi che difendono il fatto che il mare debba rigenerarsi. Ovviamente devono fare coincidere la sostenibilità ambientale con la loro sostenibilità economica. Devono quindi essere accompagnati in questo processo di gestione che deve basarsi su un processo partecipativo.

 

I pescatori sono al contempo le vittime e i carnefici di questa situazione. Come affrontano questa doppia identità?

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I pescatori sono gli unici che conoscono davvero il mare. Sono delle sentinelle ambientali e sono coloro i quali sono principalmente toccati dai problemi. Ci sono pescatori che sono in crisi poiché nel Mediterraneo c’è sempre meno pesce come conseguenza dei cambiamenti climatici, ma anche come conseguenza del sovrasfruttamento dato dalla pesca. Sono in crisi e spesso quello che fanno è continuare a fare quello che facevano prima, spendendo sempre più risorse e usando metodi sempre più impattanti. Così facendo raschiano il barile, ma accelerano i problemi. Sempre più pescatori però capiscono che le caratteristiche del Mediterraneo impongono un cambiamento di scala. La pesca a strascico o la pesca industriale con delle grosse navi non è fattibile semplicemente perché non c’è più abbastanza pesce.

 

In che modo sostenerli?

Sicuramente non dandogli soldi per il gasolio per tenere in piedi un settore che altrimenti non si reggerebbe. Vanno quindi supportati con le conoscenze e accompagnandoli in una transizione verso una pesca più sostenibile.

 

Da una crisi, a volte, può nascere un’opportunità. Nel libro fa l’esempio delle isole Kerkennah, in Tunisia. Ci può spiegare cosa è successo?

L’arrivo del granchio blu ha distrutto non solo un modo di pesca tradizionale, ma un modo di vivere della comunità. Riassumendo: non potendo più pescare perché il granchio aveva mangiato tutti i pesci, i pescatori hanno venduto le barche agli scafisti e i figli dei pescatori sono emigrati in Europa. Poi, però, grazie ad un lavoro coordinato tra gli stessi pescatori, il governo e gli scienziati si è iniziato a pescare il granchio blu e si è creata tutta una filiera attorno a questo prodotto che prima era chiamato Daesh (Stato islamico in arabo, ndr) per indicare un flagello divino che distruggeva tutto. Adesso i pescatori chiedono che per il granchio blu vengano stabiliti dei limiti: hanno capito che se si continua a pescare come prima, distruggendo cioè gli ecosistemi – ciò che ha permesso allo stesso granchio di insediarsi – a un certo punto ti verrà a meno la risorsa. È una lettura positiva di questa grande crisi, che è tuttora in corso, ma che è stata trasformata in opportunità.

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In Italia, nella zona del Delta del Po, un altro granchio blu sta avendo un effetto devastante sull’industria della vongola. Per ora qui non sono state ancora trovate delle soluzioni…

Qui la crisi è iniziata dopo. Il 2023 è stato l’anno spartiacque. Per ora non si sa bene cosa succederà, se il granchio blu s’insedierà davvero, e quindi si è un po’ in attesa. Certo è che se nei prossimi anni non ci saranno più vongole qualcosa bisognerà fare. Ma occorre occupare un mercato diverso da quello già preso dai tunisini, che esportano soprattutto in Asia. E poi devi tenere conto del concetto di limite. Il granchio blu si è insediato in queste zone perché tutto qui era stato trasformato in una monocultura della vongola, importata qui artificialmente trent’anni fa. La vongola filippina ha creato ricchezza in questo territorio povero e marginale, ma ad un certo punto questa fonte di ricchezza ha soffocato l’ecosistema. È diventata monocultura che, in mare come in terra, è il contesto meno resiliente possibile. La crisi va trasformata in opportunità, ma ci vuole equilibrio.

 

In un passaggio del libro lei parla di un mutamento antropologico gigantesco. Le parti più a ridosso del mare, soprattutto nelle isole, si spopolano o sono abitate in modo intermittente. Sempre più turisti e sempre meno persone che conoscono davvero il mare. Cosa comporterà questo cambiamento?

È meno faticoso affittare una camera che andare a pescare. In molte isole si è così deciso di coltivare un modello basato sulla monocultura turistica. Il mare, un pezzo così importante della cultura mediterranea, diventa un semplice luogo di vacanza che vive ad intermittenza. I villeggianti hanno un rapporto diverso col mare, di puro svago. Nelle isole c’è sempre stato un flusso, ma vi erano sempre una popolazione e una comunità locali vive. Oggi queste terre si stanno invece spopolando e si sta perdendo un complesso di conoscenze del mare. Si è puntato tutto sul turismo che però estrae risorse, inquina, e non dà nessun contributo alla rigenerazione dei luoghi. È una trasformazione antropologica importante su cui occorre ragionare.

 

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