Come Raggiungere il Successo Lavorando Meno: I Consigli degli Esperti

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difficile da pignorare

 


Prima è stato il quiet quitting: rifiutare gli straordinari non pagati, fare esattamente quanto richiesto dal contratto, niente di più. Poi sono arrivati i lazy girl job, celebrati su TikTok come la rivincita del “lavorare smart”: impieghi ben pagati con poco stress, preferibilmente da remoto. Ora, mentre il mondo del lavoro si polarizza tra chi insegue la revenge productivity – l’ossessione per una produttività estrema come risposta alla crisi – e chi sogna la settimana corta, emerge una terza via: la slow productivity. Il tema è al centro dell’ultimo libro di Cal Newport, Slow productivity. L’arte dimenticata di essere efficaci evitando il burnout, uscito per Roi edizioni. Professore di informatica alla Georgetown e collaboratore del New Yorker, Newport scrive per i knowledge worker, persone che lavorano con le idee piuttosto che con oggetti fisici e che quindi hanno poca visibilità sulla loro reale produttività. Il trend emerge proprio mentre grandi aziende come Amazon e Apple richiamano i dipendenti in ufficio “per aumentare la produttività”. Ma i numeri raccontano una storia diversa: secondo una ricerca di Microsoft del 2024, il 70% dei lavoratori che hanno abbracciato metodi di lavoro più lenti e focalizzati riportano un aumento della qualità. Il paradosso? Facendo meno, producono di più.

Slow productivity. L’arte dimenticata di essere efficaci evitando il burnout

Microcredito

per le aziende

 

La slow productivity non si limita a rifiutare ritmi serrati, email a mezzanotte o riunioni infinite. È un ripensamento radicale del concetto stesso di efficienza. I suoi adepti praticano il productivity batching – concentrando il lavoro intenso in blocchi di 90 minuti seguiti da vere pause – e il deep work dating, incontri tra professionisti che lavorano in silenzio nello stesso spazio, supportandosi nella concentrazione profonda. Del resto, soprattutto negli open space e nelle stanze condivise, il problema è che quelli che lavorano pensando non vorrebbero avere intorno quelli che lavorano parlando. Secondo Calport la casa rischia di sovraccaricare il lavoratore. Quando passiamo davanti al cesto della biancheria fuori dall’ufficio di casa (ovvero la nostra camera da letto), il nostro cervello si sposta verso un contesto domestico, anche quando vorremmo mantenere la concentrazione su qualsiasi lavoro urgente da fare. Questo fenomeno è una conseguenza della natura associativa del nostro cervello. Dato che occuparsi della biancheria è inserito in una lista di compiti casalinghi trascurati, si crea quello che il neuroscienziato Daniel Levitin descrive come “un ingorgo di nodi neurali che tentano di raggiungere la coscienza”. Per questo sarebbe preferibile disporre di “uno spazio mentale più favorevole” per dedicarsi all’attività lavorativa. La poetessa Mary Oliver amava girovagare per i boschi del New England ma un’altra poetessa Maya Angelou ha ottenuto un effetto simile nella dimenticabile insipidezza degli alberghi economici da dove scriveva sdraiata sul letto.

Il principio cardine della slow productivity si basa su tre punti: fare meno cose, lavorare a un ritmo naturale e perseguire la qualità. Quest’ultimo punto è forse il più controverso: l’ossessione per la qualità potrebbe infatti trasformarsi in una nuova forma di perfezionismo tossico, sostituendo la tirannia della quantità con quella della perfezione.Newport per convincerci va oltre, tracciando una genealogia illustre di questo approccio: da Galileo a Isaac Newton, da Jane Austen a Georgia O’Keefe, molti geni della storia hanno lavorato secondo principi simili. Insomma se ha funzionato per Marie Curie chi siamo noi per sottrarci? Jane Austen non fu in grado di produrre in modo creativo durante i periodi più intensi della sua vita. Fu solo quando, grazie a circostanze ed espedienti, i suoi impegni si ridussero notevolmente che fu in grado, finalmente, di completare la sua opera migliore. Questo approccio stagionale al lavoro, che alterna intensità e concentrazione durante l’anno, trova altri esempi significativi. Georgia O’Keeffe trascorreva le estati al lago George, dove dava spazio alla creatività prima di tornare alla frenesia cittadina in autunno, così come Isaac Newton maturava le sue riflessioni sulla gravità nelle campagne del Lincolnshire, o Marie Curie si rigenerava nella campagna francese. Oggi, però, questa ciclicità è rara: a parte artisti, scrittori e insegnanti legati ai calendari accademici, la maggior parte lavora davanti a uno schermo per dodici mesi l’anno, con poche variazioni di ritmo. Il fatto che gli orari della O’Keeffe ci sembrino esotici nel nostro contesto attuale, tuttavia, non dovrebbe oscurare la realtà che è il nostro approccio costante al lavoro a costituire un’anomalia. Nel giro di pochi anni siamo passati da un estremo all’altro: dalla glorificazione dell’hustle culture – che ha trasformato l’essere “sempre occupati” in uno status symbol – a una rivalutazione radicale del vuoto, della pausa, del rallentamento.

Forse il vero cambio di paradigma sta proprio qui: nell’accettare che il valore del nostro lavoro non si misura in metriche quantitative – le famigerate KPI che hanno colonizzato anche le professioni creative – ma in qualcosa di più sottile e meno misurabile. Come suggerisce Newport, è il passaggio dalla “pseudo-produttività” – l’illusione di progresso data dall’accumulo di micro-task – a una produttività autentica, che ha più a che fare con la profondità che con la velocità. In un’epoca in cui l’AI promette di automatizzare proprio quelle attività frenetiche e superficiali che scambiavamo per lavoro vero, rallentare non è più una scelta: è l’unico modo per preservare e coltivare ciò che ci rende insostituibilmente umani. Nell’era delle agende condivise con le inevitabili call e le riunioni “per aggiornarci” anche quando basterebbe una mail, la produttività è diventata più una performance che una pratica. Dobbiamo costantemente dimostrare che stiamo lavorando finendo per sottrarre del tempo al lavoro vero. La visibilità del nostro lavoro è diventata quasi più importante del lavoro stesso, anzi un ulteriore lavoro da ammirare sui portfolio, Linkedin e social vari. Forse il vero cambio di paradigma sta proprio qui: nel riconoscere che questa ostentazione continua della nostra “operosità” – comprese le email inviate a mezzanotte, le riunioni, “l’esser sempre online” – non è altro che una forma elaborata di teatro professionale. Una performance che, come tutte le performance, finisce per divorare energie che potrebbero essere dedicate ad altro.



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