Troppi fondi ancora “fossili”, anche se si vendono come Esg

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Fondi che si descrivono come Esg, cioè basati su criteri ambientali, sociali e di governance. E invece hanno un portafoglio del tutto incompatibile con la traiettoria per l’azzeramento delle emissioni di gas serra al 2050. Asset manager che, nell’arco di un anno e mezzo, hanno investito 7,3 miliardi di dollari in obbligazioni emesse dalle compagnie dei combustibili fossili. Mentre le condizioni del nostro Pianeta dimostrano in modo eloquente come la transizione ecologica sia l’unica strada possibile, certi grandi nomi della finanza sembrano fare orecchie da mercante. O, peggio ancora, millantare una sostenibilità che non trova conferma nei numeri. A lanciare l’accusa sono due rapporti, pubblicati nell’arco di pochi giorni rispettivamente da InfluenceMap e Reclaim Finance.

Cosa prevedono le norme europee sulla finanza sostenibile

Lo studio di InfluenceMap prende il via da due normative europee. Da un lato c’è il regolamento Sfdr (Sustainable finance disclosure regulation), che funge da punto di riferimento per distinguere tra i fondi che non seguono criteri di sostenibilità (articolo 6). Quelli che integrano anche – ma non unicamente – considerazioni Esg (articolo 8). E infine quelli che scelgono la sostenibilità come proprio obiettivo primario (articolo 9). Man mano che gli standard tecnici entravano in vigore, centinaia di fondi sono stati declassati da articolo 9 ad articolo 8. Perché, in caso contrario, non sarebbero riusciti a rispettare gli stringenti requisiti richiesti.

Separatamente, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) ha pubblicato le sue linee guida sulla denominazione dei fondi stessi. Identificando sei categorie, tra cui “sostenibilità”, “ambiente”, “impatto” e “transizione”. E mettendo bene in chiaro i criteri da rispettare per poter vantare queste caratteristiche.

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Fondi Esg che investono più nelle fossili che nella transizione

A partire da questo quadro normativo, InfluenceMap ha esaminato 17.529 fondi obbligazionari o azionari europei. 8.760 di loro hanno un nome che cita il clima o i criteri Esg, oppure sono classificati come articolo 8 o articolo 9. La prima sorpresa sta nel fatto che questi due mondi non sempre coincidono. Anzi, la maggior parte dei fondi con un nome attinente a clima o sostenibilità (rispettivamente il 60 e il 71%) non rientra nell’articolo 9.

Gli autori quindi studiato più da vicino 3.535 fondi, scoprendo che uno su tre investe più nelle fonti fossili che in aziende e tecnologie “verdi”. I peggiori sono quelli denominati Esg: con 7,7 miliardi di euro contro 7,2 miliardi. Stessa situazione per i fondi articolo 8: 43,8 miliardi contro 39,4. Per i fondi con nomi legati a impatto, transizione e ambiente la situazione si inverte, perché il rapporto tra fossili e società “verdi” è di uno a quattro. Va ancora meglio per i fondi articolo 9: 581 milioni a favore delle fossili, 11,2 miliardi per rinnovabili e altre soluzioni ambientali.

Viene dunque spontaneo chiedersi se i portafogli di tutti questi fondi siano coerenti con il percorso di azzeramento delle emissioni al 2050 delineato dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea). La risposta è no, nell’89% dei casi.

7,3 miliardi di dollari in obbligazioni fossili nell’arco di un anno e mezzo

Reclaim Finance, invece, ha scandagliato gli investimenti e le policy per il clima delle 25 principali società di gestione statunitensi ed europee. Anch’essi sembrano dimenticare una realtà che la scienza ha chiarito senza ombra di dubbio: i combustibili fossili sono responsabili della catastrofe climatica in corso e dunque vanno abbandonati al più presto.

Tra il 1° gennaio 2023 e il 30 giugno 2024, infatti, questi asset manager hanno investito un totale di 7,3 miliardi di dollari in obbligazioni emesse da società fossili. In qualità di investitori, hanno l’opportunità di intervenire alle assemblee degli azionisti dei colossi petroliferi. È raro, però, che ne approfittino per spronare il cambiamento. Nel 79% dei casi, infatti, hanno espresso il loro sostegno per le decisioni del consiglio di amministrazione e per la riconferma dei suoi membri.

Ci sono alcuni casi positivi. Come BNP Paribas Asset Management che, a novembre, ha seguito l’esempio di Ofi Invest Asset Management annunciando lo stop agli investimenti in nuove obbligazioni emesse da società impegnate nell’esplorazione e nella produzione di petrolio e gas. Oppure Ecofi, società di gestione del risparmio che fa capo a Crédit Coopératif, che ha bloccato i nuovi investimenti in carbone e gas e petrolio upstream non convenzionali. Ma sono eccezioni che confermano la regola generale.

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Continuare a sostenere le fonti fossili significa condannare il futuro del Pianeta. Ma anche esporsi a rischi di carattere finanziario. «I proprietari degli asset dovrebbero esaminare attentamente come vengono investiti i loro soldi. E mettere in discussione le pratiche dei gestori patrimoniali nel loro insieme», commenta Agathe Masson di Reclaim Finance. «Allocare nuovi investimenti a sviluppatori di combustibili fossili aggraverà i cambiamenti climatici e aumenterà i rischi climatici per le generazioni future. Andando in totale contraddizione con l’orizzonte a lungo termine tipico dei fondi pensione e di altri proprietari di asset».



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