L’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi

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In questo primo contributo per la rubrica “L’incontro con le tasse”, prendo a prestito il titolo da un noto aforisma di Giulio Andreotti, che mi è tornato in mente nelle ultime settimane poiché sono stati resi noti diversi indicatori che fanno riflettere sulla sostenibilità del nostro sistema fiscale e contributivo, e le recenti dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate hanno nuovamente messo al centro del dibattito pubblico e politico il tema del contrasto all’evasione fiscale e del ruolo dell’amministrazione finanziaria.

Se guardiamo al recente rapporto dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate[1], che si preoccupa principalmente di “verificare la sostenibilità finanziaria del welfare italiano e cioè se le entrate da fiscalità generale sono sufficienti a finanziare il nostro welfare relativo alla spesa per la sanità e per l’assistenza sociale”, il quadro che emerge è preoccupante, tant’è vero che i suoi autori definiscono la società italiana come “una società di poveri benestanti” –  espressione che richiama la “società signorile di massa” descritta da Luca Ricolfi nel suo omonimo libro del 2019, ovverosia una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano[2].

Alcuni dati:

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  • il 15% dei contribuenti dichiara redditi inferiori ai 35mila euro lordi, e paga il 63% di tutta l’IRPEF (pertanto il restante 85% dei contribuenti è responsabile complessivamente del 37%, poco più di un terzo, del gettito dell’imposta);
  • solo l’1,5% dei contribuenti dichiara più di 100mila euro lordi, e versa complessivamente quasi un quarto (il 23,6%) dell’IRPEF totale;
  • su 16 milioni di pensionati, il 40% è a carico (totale o parziale) della collettività, perché non è riuscito a versare contributi per almeno 15 anni (su 67 anni di vita);
  • circa il 76% degli Italiani (più di 3 su 4) riceverà tutti i servizi pagando quasi nulla di IRPEF e pertanto anche di contributi, di talché questi soggetti resteranno a carico della collettività anche da pensionati.

Questi dati suggerirebbero l’immagine di un Paese povero, eppure stridono molto con i dati relativi ai consumi.

Sempre l’Osservatorio rileva infatti che gli Italiani sono tra i maggiori possessori di prime e seconde case, detengono il parco auto più numeroso d’Europa (dopo il Lussemburgo) e sono al primo posto in Europa anche per telefonia mobile, abbonamenti internet, TV a pagamento, consumo di carne, nonché secondi (dopo l’Ungheria) per possesso di animali da compagnia. Per tacere del volume di denaro speso per il gioco d’azzardo (150 miliardi di euro, che non comprendono il gioco irregolare, nel 2023 – per rendere l’idea, il gettito IRPEF totale nello stesso anno è stato pari a 221 miliardi) e la spesa per maghi e fattucchiere (primi in Europa con oltre 9 miliardi di euro – dati 2019).

Come possiamo spiegare le ragioni di questo gap così importante tra entrate fiscali e ricchezza complessiva del Paese, senza ridurci ai soliti (e ben poco utili) dibattiti di natura etico-morale sull’evasione?

Una prima ragione può essere sicuramente individuata nella politica economica e fiscale degli esecutivi succedutesi nel corso degli anni – senza grandi distinzioni di “colore politico”. È infatti evidente che la gran parte dell’azione politica dei governi in ambito economico e fiscale, soprattutto post Covid, è stata spesso improntata alla logica dei “bonus”, degli sconti fiscali e contributivi a beneficio, teoricamente, delle fasce più povere della popolazione.

Ma perché “teoricamente”? Non sarebbe un fatto commendevole il procedere ad aiutare per prime, in una situazione di scarsità di risorse, le fasce meno abbienti della popolazione? Certamente, tuttavia questa azione politica ed economica ha condotto ad una evidente eterogenesi dei fini: concentrare gli aiuti solamente sulle fasce più deboli in realtà ha portato al binomio “meno dichiari e più avrai dallo Stato”.

Insomma, non è vero che gli Italiani sarebbero un popolo di oppressi fiscali: solo il 15% (chi dichiara più di 35mila euro lordi) del resto può definirsi, al limite, “fiscalmente oppresso”. Questo ricorda una famosa battuta di Corrado Guzzanti nella sua imitazione del ministro Giulio Tremonti: «Le tasse sono aumentate solo per chi le paga. Se voi non pagavate, questo governo non ha cambiato minimamente la situazione».

Nessuno vuole toccare il principio costituzionale della capacità contributiva, ci mancherebbe. Però è chiaro che l’espressione coniata da un altro illustre politico della Prima Repubblica, Enrico Berlinguer, e recentemente tornata in voga – «chi ha tanto paghi tanto, chi ha poco paghi poco, chi ha nulla non paghi nulla» – sconta un peccato originale per cui non è chi ha tanto che paga tanto, ma chi dichiara tanto, come non è chi ha nulla che non dichiara nulla, ma chi dichiara nulla o, meglio, è nella condizione di poter dichiarare nulla.

Le ragioni alla base di questa situazione sono diverse (prima ancora, il tema della qualità della spesa pubblica) e non sarebbe corretto, anzi sarebbe oltremodo riduttivo, imputare tutte le responsabilità ai bonus fiscali e a una politica economica e fiscale incentrata su tali strumenti a breve termine.

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Tuttavia, è evidente come al riguardo occorra, tra le altre cose, fare una riflessione anche sul tema dei controlli. Raffaello Lupi, uno dei più noti ed illustri studiosi della materia, ha messo in luce da anni come l’Italia sia “l’inferno del dichiarato e il paradiso dell’evaso”, ovverosia come, in sostanza, i controlli fiscali abbiano ad oggetto essenzialmente il regime giuridico-contabile del dichiarato, invece che l’accertamento di redditi meno “intercettabili” come i compensi “in nero” e i ricavi non dichiarati. Con il paradosso che quel 15% di soggetti che finanziano quasi i due terzi dell’IRPEF sono molto più a “rischio contestazione” del restante 85%.

Al riguardo l’Osservatorio, nello studio citato, mette bene in luce come sarebbero necessari altri tipi di controlli abitualmente svolti in altri Stati europei ed extra europei.

In altri termini, perché – si chiede l’Osservatorio – un neopensionato di 67 anni sconosciuto a INPS e fisco non può essere convocato dall’amministrazione finanziaria per giustificare di cosa ha vissuto finora e perché non ha versato imposte e contributi? O perché non si può convocare un trentacinquenne sconosciuto al fisco per chiedergli semplicemente “di cosa vivi”?

Non parrebbe impossibile fare un’operazione di questo tipo. Forse però sarebbe necessario un cambio di mentalità significativo anche da parte della classe politica, una mentalità e un’azione più orientata a ristabilire la fiducia e l’equità del sistema fiscale nel lungo termine, invece che al solo (pur importante, ma riduttivo) dato annuale del “recupero dell’evasione”.

Cambio di direzione, tuttavia, che non è facile – a prescindere dal colore politico dei governi e delle maggioranze che li sostengono – perché in operazioni di questo tipo vi è anche un comprensibile timore sulle possibili conseguenze elettorali, e difficilmente i governi hanno l’intenzione (o la forza) di rischiare di perdere voti con misure impopolari dal punto di vista fiscale.

Tuttavia, prima o poi questi nodi sono destinati a venire al pettine, perché è impensabile mantenere un welfare così generoso con un sistema fiscale simile; non affrontare questi temi significherebbe accollare ancora una volta il peso economico di queste inefficienze alle generazioni che verranno.

[1] Undicesima indagine sulle entrate fiscali – https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/dichiarazioni-dei-redditi-ai-fini-irpef-2022.html

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[2] L. Ricolfi, La società signorile di massa, La Nave di Teseo, 2019, 21 ss.



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