Nei Tempi moderni, quando il Dio medioevale si trasformò in Deus absconditus,
la religione cedette il posto alla cultura, che divenne la realizzazione
dei valori supremi attraverso i quali l’Europa si concepiva, si definiva, trovava un’identità.
Mi sembra che nel nostro secolo si delinei un altro mutamento,
non meno importante di quello che separa l’età medioevale dai Tempi moderni.
Così come Dio cedette un tempo il posto alla cultura, tocca oggi alla cultura cedere il suo.
Ma a che cosa e a chi? In quale ambito si realizzeranno valori supremi capaci di unire l’Europa?
Milan Kundera, Un Occidente prigioniero[1].
1. L’origine dei diritti fondamentali. Storia di un equivoco
L’illuminismo giuridico sei-settecentesco, in cui confluiscono il paradigma illuminista e quello giusnaturalista, è solitamente rappresentato come la culla dei diritti universali, di cui si cominciò a parlare come di moral rights. Non si considera però adeguatamente come in quel contesto, nell’epoca coloniale, la logica dei rights si fosse imposta innanzitutto «per il nuovo ruolo strategico da essi svolto nella rappresentazione dell’ordine»[2]. Nel senso che, se veniva da un lato teorizzata l’eguaglianza originaria di tutti gli uomini in un ipotetico stato di natura, dall’altro lato si attribuiva estrema importanza al modo in cui i popoli avevano poi diversamente sviluppato in concreto le attitudini derivanti da questa comune umanità originaria. E anzi, proprio la differenza tra popoli evoluti e popoli involuti veniva assunta a fattore politico e utilizzata per legittimare il dominio coloniale dei popoli europei sulla base di una logica di esportazione della civiltà che ha dunque radici molto antiche.
Dal raffronto fra la condizione dei nativi americani con quella dei coloni europei, ad esempio, John Locke traeva la convinzione che i primi avessero pochissimo o per nulla sviluppato l’attitudine umana trasformatrice del lavoro, la praxis di cui in nuce erano dotati in quanto uomini, ciò è a dire proprio in forza di quella comune umanità originaria, e che, di riflesso, pochissimo si fossero emancipati da quello stato di natura ipotizzato dalla tradizione giusnaturalistica.
La conseguenza non poteva quindi essere che la giustificazione della supremazia politica degli europei, in quanto lo sviluppo umano era stato in essi così superiore da legittimare una esportazione forzata del loro modello sociale, produttivo ed economico, come motore di sviluppo dell’intera umanità:
«Noi siamo quindi diversi da loro; e la differenza corre lungo il crinale di un labour che in un caso si limita a soddisfare con beni deperibili i bisogni immediati, mentre nel secondo caso moltiplica esponenzialmente i beni rendendo produttiva la terra, alimentando il commercio, incrementando le ricchezze dell’umanità. “È il lavoro ̶ ripete insistentemente Locke ̶ che crea in ogni cosa la differenza del valore”»[3].
La direttrice originaria dei rights è quindi funzionale a sorreggere piuttosto che a scardinare un ordine gerarchico tra i popoli, fondato sulla logica della forza e dell’oppressione, seppure nella prospettiva di valorizzare il lavoro e la crescita globale.
Non è allora così incompressibile che le successive elaborazioni teoriche, che dai rights hanno preso l’abbrivio, non si siano mai tradotte in uno statuto politico-globale davvero egualitario.
Anzi, con il passaggio dall’epoca coloniale a quella della transizione postcoloniale, sino ad arrivare alla globalizzazione, le popolazioni che più hanno sviluppato il proprio self in un labour suscettibile di ampliare le possibilità di sfruttamento e di commercio delle risorse terrestri, hanno continuato a rivendicare una posizione di supremazia rispetto agli altri popoli nell’accesso e nello sfruttamento delle stesse risorse e, soprattutto, hanno continuato a esercitare questa supremazia, in forme diverse dalla colonizzazione (tipica degli imperi e non confacente alla forma moderna dello Stato nazione) ma non meno oppressive di questa, con conseguenze sempre più evidenti in termini di conflitti, genocidi, mutamenti climatici e flussi migratori.
La percezione diffusa, anche nel passaggio dai moral rights al discorso dei diritti umani, è che le disuguaglianze siano comunque tollerabili in un contesto globale che, pure, si autoafferma imperniato sulla tutela dei diritti, in quanto il sostrato non scritto alla fenomenologia dei diritti era e resta quello di un ordine gerarchico tra i popoli, che si proclama indispensabile allo sviluppo dell’umanità e, per questo, insostituibile.
Quanto questa tara fondazionale dei diritti morali abbia influenzato e continui a influenzare il discorso moderno dei diritti umani ‒ inaugurato nel secondo dopoguerra con la Dichiarazione universale del 1948 e poi straordinariamente implementato nei successivi settant’anni sino a delineare l’attuale sistema delle fonti sovranazionali ‒ è una questione controversa.
Se da un lato è incontestabile che il sistema dei diritti umani della seconda metà del XX secolo rappresenti un fenomeno in larga parte inedito e strutturalmente autonomo, nondimeno esso si pone anche su una linea di continuità filosofico-culturale con la tradizione illuminista dei rights; e non può quindi non assorbirne, almeno in una certa misura, il retaggio etnocentrico, soprattutto in materia di razza, classe e genere, come è del resto inconfutabilmente rappresentato dal perdurare (anzi, dall’incrementarsi) dello iato tra enunciazione e realizzazione.
La stagione dei diritti, che nasce dal dramma della Seconda guerra mondiale e della Shoah, porta con sé una volontà di redenzione, di reinterpretazione del diritto in chiave di contrasto della forza e di protezione della vulnerabilità, del tutto inedita nella storia giuridica precedente e la cui capacità simbolica, tuttavia, è apparsa destinata a restare a lungo inespressa e a non poter vincere la sfida di trasformarsi realmente in un vettore di giustizia. Questo principalmente a causa di una certa evanescenza della loro collocazione sul piano delle fonti del diritto.
In questa prospettiva, la questione dei diritti umani come questione singolare e non sovrapponibile a quella del diritto positivo tout court, riguarda non tanto l’apparente indissolubilità del legame tra diritto e forza quanto, piuttosto, la più profonda e radicata indissolubilità del legame tra diritto e ordine gerarchico tra i popoli.
Occorre allora provare a immaginare quale configurazione possano assumere i diritti umani nel momento in cui, invece, li si voglia realmente trasformare in strumenti giuridici che agiscono in senso contrario all’attuazione di questo ordine gerarchico e che hanno come focus la protezione delle tante aree di vulnerabilità che da questo derivano.
Si tratta di una configurazione interamente focalizzata su due aspetti: negazione e particolarismo delle situazioni concrete. Nel senso che il valore normativo dell’enunciato (ad esempio: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata», articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) consiste nell’obbligo, per l’interprete chiamato ad applicarlo, di individuare la situazione, particolare e concreta, in cui questo diritto viene negato; vite umane, bioi, la cui dignità è stata violata senza che nessuno la rispettasse né la tutelasse: quella è la base concreta del diritto umano alla dignità, la sua negazione sostanziale, non la sua enunciazione formale.
È da qui, dall’estrema concretezza della deprivazione umana, dalla sventura e dalla sofferenza, che si può ricostruire un processo di «universalizzazione del particolare»[4] attraverso il quale prenda forma l’obbligo incondizionato di proteggere le persone vulnerabili e di riequilibrare, nella misura in cui ciò sia possibile, a seconda delle situazioni e dei contesti, lo sbilanciamento di potere che ne ha decretato la soggezione all’oppressione.
Un obbligo, e questo è il punto dirimente, al quale non può darsi attuazione che attraverso la via giurisdizionale, in virtù di quel contatto diretto tra i giudici e i popoli che manca ai legislatori e ai governanti, i quali, non a caso, si esprimono attraverso provvedimenti generali e astratti (tra i quali le leggi), mentre i giudici emettono provvedimenti (sentenze, ordinanze e decreti) concreti e individualizzati nei confronti dei singoli cittadini.
«Nelle democrazie costituzionali sono i diritti umani “costituzionalizzati” a porsi come guida e argine al potere delle maggioranze parlamentari (come briscole antimaggioritarie, per dirla con Dworkin), con un conseguente fenomeno: un rafforzamento del ruolo del giudiziario, assunto come custode ultimo del rispetto dei diritti fondamentali»[5].
2. Filosofia e pratica dei diritti universali
Il formante teorico dei diritti fondamentali non ammette visioni rigide e pregiudiziali del mondo e non ha quindi nulla a che fare con le ideologie dogmatiche del secolo scorso; ideologie in larga parte fondate sulla narrazione della forza e di soggetti collettivi e in dialettica l’uno contro l’altro; mentre la tendenza di questo nuovo «attivismo dei diritti» è piuttosto quella di dare una veste giuridica alla debolezza e alla vulnerabilità intrinseca dell’essere umano.
Un diritto che rinuncia a ogni pretesa di assolutizzazione tanto nel momento della sua enunciazione ̶ muovendo, si è detto, da una negazione di sé stesso ̶ quanto nel momento della sua attuazione, là dove cerca esclusivamente di riparare, parzialmente e per quanto possibile, vite già irrimediabilmente segnate dal giogo della forza e dell’oppressione sociale.
L’atto di protezione, d’altra parte, non crea necessariamente un legame di addizione con lo Stato nazione, inteso come centro politico e decisionale, potendo anzi implicare per la nazione, a determinate condizione, addirittura una sottrazione di potestà decisionale o, come più spesso si dice, una riduzione di governance.
Se infatti la vulnerabilità di una popolazione, nella sua interezza o in una sua parte, consegue all’affermazione di politiche che hanno come effetto (voluto o meno) l’incrementarsi delle diseguaglianze, allora proteggere chi è vulnerabile può significare sottrarre potere a quelle stesse politiche “disegualitarie” che hanno trovato attuazione anche per via istituzionale; ecco perché, in questa prospettiva, l’atto di protezione della vulnerabilità può implicare una corrispondente riduzione della sovranità politica.
E non è un caso che ciò stia avvenendo proprio nel momento in cui i battenti delle sovranità nazionali sono stati allentati per dare corso alla ̶ parziale, tuttora incompleta e per molti aspetti ancora fallimentare – cessione di sovranità europea.
Nel contesto legislativo europeo hanno infatti trovato spazio istanze programmatiche sistematicamente ignorate dai legislatori nazionali per ragioni di convenienza elettorale[6], quali la tutela delle vittime dei reati, il contrasto alla violenza e alla discriminazione sessuale e di genere, il trattamento dei migranti e degli apolidi.
In questo spazio, lasciato parzialmente libero dal perimetro dalla sovranità nazionale, si sono inserite fonti europee vincolanti per gli stati membri dell’Unione, che hanno dato per la prima volta corpo anche ai diritti della popolazione più vulnerabile.
I regolamenti e le direttive europee in materia di diritto di asilo, insieme a quelle in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, in particolare delle vittime di violenza per motivi legati al genere o all’odio nei confronti di determinate categorie di persone, hanno tracciato un nuovo sistema proattivo di protezione dalla vittimizzazione sessuale, di genere, censitaria e migratoria, e hanno al contempo costruito un “ponte normativo” con la Convenzione europea dei diritti umani[7], con le convenzioni e le agenzie internazionali tematiche nate sotto l’egida delle Nazioni Unite (e.g., la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, CEDAW[8], adottata nel 1979; l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR) e del Consiglio d’Europa (e.g., la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica[9]) e, soprattutto, con le Costituzioni dei paesi europei.
L’interpretazione e l’applicazione di questo sistema di protezione multilivello dei diritti è affidata in prima battuta al ruolo di raccordo delle Corti costituzionali nazionali e delle Corti sovranazionali (la Corte europea dei diritti umani presso il Consiglio d’Europa, La Corte di Giustizia dell’Unione europea, la Corte internazionale di giustizia presso le Nazioni Unite e la Corte penale internazionale che, pur non essendo un organo delle Nazioni Unite, ha però legami strutturali con l’ONU).
In seconda battuta, sono le giurisdizioni nazionali a dare concreta attuazione al sistema di protezione multilivello quando, in presenza di questioni giuridiche che necessitano di un raccordo tra fonti nazionali e fonti sovranazionali, promuovono un dialogo tra le Corti dei Paesi europei e le Corti sovraordinate del sistema europeo, che può esitare in una soluzione normativa di compromesso tra sistema interno e sistema europeo, oppure, in alcuni casi, anche nella prevalenza incondizionata delle fonti sovranazionali su quelle nazionali, in attuazione di quella cessione di sovranità che ha dato vita al discorso europeo e che, per l’Italia, trova espressa regolamentazione nell’articolo 11 della Costituzione.
Questa inedita dimensione normativa multilivello viene definita spazio giuridico europeo ed è proprio in questo spazio che, allentati i lacci della sovranità nazionale, comincia a prendere vita un sistema giuridico integrato, in cui l’attuazione dei diritti non è più condizionata a un ordine gerarchico prestabilito né strumentale al suo mantenimento.
Lo spazio giuridico europeo, inserendosi nella cessione di sovranità statale, introduce nel nostro ordinamento una nuova tendenza giuridica di protezione della vulnerabilità che, per la prima volta nella storia del diritto, contiene la pretesa e forse anche la possibilità di mettere in discussione i rapporti di forza originari sui quali il discorso giuridico occidentale è stato costruito, e di invertire il flusso della forza cogente del diritto in chiave, almeno parzialmente, anti-oppressiva.
3. Diritti umani e governance
Questa possibilità inedita, che vede sostanzialmente realizzata la promessa di efficacia non solo simbolica dei diritti fondamentali, è però entrata in rotta di collisione, come del resto era prevedibile, con le ragioni della governance politica.
Mentre il congiunto operare di sistemi elettorali contraddittori, frutto di leggi non perfette alle quali si sono sovrapposte parziali abrogazioni della Corte costituzionale, e di una crescente tendenza all’astensionismo elettorale, ha aperto la strada a una apprezzabile erosione dei confini tra legislativo ed esecutivo, l’unico potere che, seguendo la tradizionale tripartizione, è escluso dalla governance è il giudiziario, il quale trova nello spazio giuridico europeo, come abbiamo visto, un inedito ruolo di universalizzazione e di attuazione dei diritti fondamentali.
Questo fa sì che gli ordini giudiziari dei Paesi europei, ove lo statuto di indipendenza della magistratura lo consente[10], cerchino di introdurre, negli spazi lasciati liberi dalle cessioni di sovranità, dei limiti alla governance degli Stati in materia di Rule of Law: vale a dire a protezione dell’indipendenza delle magistrature europee e dei diritti umani, con una particolare attenzione alle aree di vulnerabilità legata al genere, alla proprietà e alla provenienza etnica, e quindi con un riferimento mirato ai settori delle politiche di genere, del lavoro e dello stato sociale, nonché del trattamento dei migranti e degli apolidi.
È stato detto in dottrina ‒ e questo ha irritato non poco gli ambienti della politica ‒ che lo spazio giuridico europeo assume, nel contesto attuale, quasi la funzione di un potere contro-maggioritario.
Gli argomenti sollevati dai detrattori dell’europeismo giuridico non sono però del tutto privi di fondamento, dovendosi obiettivamente constatare che l’allargamento delle maglie della sovranità nazionale, utilizzato dalle giurisdizioni europee per dare attuazione ai diritti fondamentali, anche in funzione di limite alla discrezionalità dei legislatori nell’ambito di politiche strategiche, come quella dell’immigrazione, viene di fatto a costituire uno scenario inedito, in cui gli orientamenti giurisprudenziali possono entrare nel merito delle politiche legislative, condizionandone persino i contenuti e l’effettiva praticabilità.
È quanto accaduto nel c.d. caso Albania, che è diventato il casus belli per uno scontro istituzionale tra politica e magistratura a seguito dei provvedimenti, emessi dal Tribunale di Roma il 18 ottobre 2024, di rigetto delle richieste di convalida dei trattenimenti disposti ai sensi del Protocollo Italia-Albania, fortemente voluto dal governo italiano.
Provvedimenti che non solo non avevano nulla di eccezionale per il giurista europeo, ma che erano addirittura obbligati a seguito della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 4/10/2024[11], la quale, nell’interpretare le direttive in materia di accoglienza, in particolare la 2005/85/CE e la 2013/32/UE (entrambe dotate di efficacia diretta nell’ordinamento perché già recepite dallo Stato italiano con i decreti legislativi 28 gennaio 2008, n. 25, e 8 agosto 2015, n. 142), aveva stabilito chiaramente che lo Stato membro non gode di una discrezionalità politica illimitata nella designazione di un Paese come “Paese di origine sicuro”, al fine del rimpatrio immediato di una persona migrante con “procedura accelerata di frontiera”; e che in nessun caso possono essere designati come “sicuri” Paesi nei quali non siano rispettati i diritti e le libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e nei quali vi sia il pericolo di subire persecuzione, tortura o di altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, anche se solo in determinate parti del proprio territorio o nei confronti di determinate categorie di persone.
Talmente chiara, questa decisione, che non poteva essere ignorata perché evidenzia in tutta la sua potenza il manifestarsi dello spazio giuridico europeo come law in action nelle maglie allargate dalle cessioni di sovranità.
Il caso Albania ha mostrato chiaramente il delinearsi di un possibile conflitto tra una governance politica che si dichiara erede del legislativo (del quale rivendica la tradizionale supremazia sugli altri poteri), pur denotando aspetti sempre più marcati di un graduale sconfinamento nell’esecutivo (in primis l’uso ricorrente della decretazione d’urgenza), e un giudiziario che sta imparando a muoversi nello spazio giuridico europeo e che si sta dimostrando capace di adattare le tradizionali forme di primato del diritto comunitario ‒ soprattutto quella più forte, la disapplicazione del diritto interno[12] ‒ alla supremazia dei diritti fondamentali; attingendo, attraverso il “ponte” di una normativa di interesse dell’Unione, al più ampio edificio teorico dei diritti universali, nel quale confluiscono la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della relativa Corte, veicolate attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ma anche i trattati di diritto internazionale e le fonti onusiane.
Quello che può lasciare effettivamente perplessi di fronte a questo scenario è l’apparente dicotomia tra strumenti di supremazia del diritto comunitario, in particolare la disapplicazione del diritto interno, che sono stati storicamente concepiti come “forti” in ragione della loro limitata applicazione agli interessi economici della Comunità europea, e il loro utilizzo nel settore, assai più ampio ed eterogeneo oltre che politicamente sensibile, dei diritti umani.
Si spiega quindi la resistenza della politica di fronte a questa evoluzione del discorso dei diritti e del conseguente ruolo di attuazione assunto dalle giurisdizioni europee; una resistenza che si evidenzia non solo nel delinearsi, con il caso Albania, quasi di un aperto scontro istituzionale, ma anche con il contemporaneo rifiuto politico di proseguire sulla strada delle progressive cessioni di sovranità.
Un recente esempio di questo rifiuto sta nella mancata adozione, nel 2023, del c.d. “Codice dei crimini internazionali”, ossia della normativa di attuazione degli obblighi assunti dallo Stato italiano con lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale: normativa che era stata elaborata (con un notevole ritardo italiano sul punto) dalla Commissione Pocar Palazzo nel maggio 2022.
Diversi i punti su cui il governo corrente ha imposto una netta retromarcia, il primo dei quali consiste, non casualmente, nella decisione di stralciare dalla bozza l’intero settore dei crimini contro l’umanità e il crimine di genocidio, oltre a reintrodurre limiti alla giurisdizione ordinaria nell’ambito del riparto con la giurisdizione militare.
L’impatto di questa scelta sullo scenario internazionale è diventato evidente anche alla pubblica opinione dopo l’emissione, da parte della Corte penale internazionale, dei mandati d’arresto a carico di Vladimir Putin, il 17 marzo 2023, e, più recentemente, a carico di Benyamin Netanyahu, il 21 novembre 2024.
L’irritazione manifestata da molte Cancellerie europee per i provvedimenti della Corte penale internazionale riflette, in fondo, la stessa indisponibilità a consentire alla giurisdizione di emettere decisioni vincolanti a conflitti ancora in corso, così sovrapponendosi alle valutazioni strategiche delle guide politiche degli Stati, le quali hanno reagito cercando di neutralizzare il carattere vincolante di quelle decisioni. In Italia, ad esempio, i mandati d’arresto della Corte penale non sarebbero, oggi, facilmente eseguibili, proprio a causa della mancanza di una normativa sostanziale e processuale di attuazione dello Statuto di Roma, che disciplini specificamente l’arresto su mandato della Corte e la procedura di consegna con le relative garanzie.
Il punto di rottura è sempre lo stesso: la Corte penale internazionale è infatti nata per garantire una giurisdizione universale, permanente e indipendente dagli Stati sui cimini di guerra, contro umanità e contro la pace, a tutela delle vittime civili dei conflitti e in particolare delle vittime vulnerabili.
4. Storie e formule che ritornano
Il carattere inevitabilmente allargato e politicamente sensibile dei diritti universali come fonte del diritto non è, però, una novità nella storia giuridica europea; anzi, è connaturato alla stessa ragione storica della loro introduzione, la quale ha preso le mosse da quello che è stato sempre il principale interrogativo dei giuristi da quando il diritto ha preso coscienza di sé stesso: il diritto può essere solo uno strumento in mano al potere dominante o può avere una sua autonomia dai rapporti di forza, tanto da potersi definire “diritto”, e non semplicemente “legge”, proprio in contrapposizione alla mera forza politica espressa dalla maggioranza; e da non potersi invece definire “diritto”, ma appunto solo “legge”, quando tale contrapposizione, come avviene nei regimi autoritari, manchi del tutto?
L’idea di individuare il punto di arresto del carattere giuridico di una norma validamente coniata, se non addirittura di un complesso o di un sistema intero di norme, in quanto ingiusti e non rispondenti a un ordinamento superiore, ha caratterizzato, invero, uno dei momenti più elevati dell’elaborazione giurisprudenziale in Europa, quello della punizione dei crimini di stato nella Germania post-nazista e post-comunista. La teoria (meglio conosciuta come Formula) del giurista tedesco Gustav Radbruch ha rinvenuto e cristallizzato questo criterio nel concetto di intollerabilità:
«Il conflitto tra giustizia e certezza del diritto dovrebbe potersi risolvere nel senso che il diritto positivo, garantito da statuto e potere, ha la preminenza anche quando è, nel suo contenuto, ingiusto e inadeguato, a meno che il conflitto tra la legge positiva e la giustizia raggiunga una misura così intollerabile (o un tale grado di intollerabilità) da far sì che la legge, quale “diritto ingiusto” debba cedere alla giustizia.
È impossibile tracciare una più netta demarcazione tra casi di torto legale e leggi tuttavia valide malgrado il loro contenuto ingiusto; vi è però un’altra linea di demarcazione che deve essere tracciata con la massima decisione: dove non vi è neppure aspirazione alla giustizia, dove nel porre diritto positivo venne di proposito negata l’eguaglianza, che costituisce il nucleo della giustizia, là la legge non è soltanto «diritto ingiusto», ma piuttosto sfugge del tutto alla natura di diritto. E infatti il diritto, anche il diritto positivo, non può essere altrimenti definito che come un ordinamento e una posizione di norme che in relazione al proprio stesso significato è destinato a servire la giustizia»[13].
Del criterio della intollerabilità come fattore invalidante della norma, che regredisce da diritto a “non diritto”, è stato fatto ampio uso nella giurisprudenza tedesca prima di tutto nella punizione dei crimini commessi durante il regime nazista, in riferimento al quale la Formula era nata. E poi, nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, anche in materia di crimini di stato commessi sotto il regime comunista della Germania orientale (1949-1989), in particolare gli omicidi commessi al Muro di Berlino per impedire la fuga di chi intendeva sottrarsi al regime. La ragione della fortuna della Formula è evidente: in entrambi i casi ci si trovava davanti a crimini brutali e ad atti terroristici commessi sotto la vigenza di regimi autoritari che offrivano a tali crimini una copertura legale formalmente valida, mentre la normativa post-dittatoriale in base alla quale tali crimini venivano processati e puniti era entrata in vigore successivamente. Stando quindi al principio di legalità nella sua rigida applicazione post e neoilluminista, quei crimini non avrebbero potuto essere giustiziati in base a una legge entrata in vigore successivamente al loro compimento, vieppiù che la legge in vigore in quel momento li ammetteva come rispondenti all’interesse del regime al potere.
La Formula ha offerto ai giuristi tedeschi la possibilità teorica di far prevalere sulle leggi di regime l’ordinamento dei diritti, non tanto perché successivo, ma perché ontologicamente sopraelevato e quindi già immanente, anche se non scritto, al momento della commissione dei crimini, a segnare l’intollerabilità di quella legge, formalmente valida, sulla base della quale quei crimini erano stati commessi.
Il punto di svolta di questa teoria non è tanto il suo momento negativo, quello, vale a dire, dell’affermazione d’intollerabilità e dunque di invalidità della legge vigente ratione temporis (per questo si sarebbe trovato comunque un metodo di disapplicazione delle leggi di regime), quanto invece il suo momento positivo: quello dell’affermazione di un diritto sovra elevato o sovra positivo che sostituisce la normazione esistente degradandola a “non diritto” e contestualmente si impone come unico diritto valido ancorché non posto da alcuna fonte legale o analoga.
Questo è stato il punto di svolta della Formula di Radbruch e ne ha segnato la straordinaria fortuna che è andata ben oltre la giurisprudenza tedesca e l’ha portata a essere recepita, almeno in parte, dalla Convenzione europea dei diritti umani (l’articolo 7, dopo avere statuito, al § 1, il principio del nulla poena sine lege, chiarisce, al § 2, che «Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era un crimine secondo i principi generale di diritto riconosciuti dalle nazioni civili e anche ad affermarsi come canone ermeneutico nella giurisdizione sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia»[14].
5. L’Europa di nuovo al bivio
L’accentuarsi anziché il ridursi dello iato tra l’enunciazione formale dei diritti e la loro sistematica disapplicazione ripropone, mutatis mutandis, la questione del diritto intollerabilmente ingiusto anche nel contesto democratico-liberale europeo dei nostri giorni.
Lo spazio giuridico europeo come strumento di attuazione dei diritti universali costituisce, oltre che una possibilità storica, per l’Europa, di riconquistare uno status di primauté nell’attuazione dei diritti, anche un criterio di ridefinizione, o meglio un “riassetto costituzionale”, del ruolo della giurisdizione nazionale, intesa anche come giurisdizione comune europea, nella quale il tratto della assoluta indipendenza dal potere politico si unisce, per la prima volta, alla vocazione incondizionata a proteggere.
Stati giurisdizione, potremmo forse dire, indipendenti dagli Stati nazione e chiamati ad alterare la linea della forza, invertendone il flusso e spiegandola a proteggere invece che a opprimere.
È un nuovo modello culturale quello che sta bussando alle porte della storia e che incontra una prevedibilissima resistenza da parte di un potere politico che intende difendere strenuamente i confini della propria sovranità nazionale, soprattutto in un periodo storico nel quale, come in tutti quelli caratterizzati dal riemergere delle guerre e dei conflitti internazionali, tale sovranità si vorrebbe tendenzialmente illimitata e indiscussa.
La comunità dei giuristi, ma anche la società civile e la cittadinanza, dovrebbero essere davvero consapevoli dell’importanza della partita che si sta giocando in Occidente, la quale va molto al di là dello scontro rappresentato dai media tra governo e magistratura, e vieppiù tra singoli partiti e singole associazioni di magistrati o addirittura singoli giudici.
La posta in gioco riguarda l’alternativa tra l’evoluzione del sistema giuridico europeo verso uno stadio più avanzato di democrazia, in cui la forza cogente del diritto è attribuita, in senso inversamente proporzionale a quella oppressiva, anche ai diritti fondamentali; e un modello regressivo di sostanziale ritorno al nazionalismo illimitato, come se quel “Mai più!” non fosse mai stato pronunciato sul serio.
Una partita ancora più importante per la stessa essenza degli Stati d’Europa, ora che gli Stati Uniti d’America sembrano invece avere scelto di avviarsi per questa seconda strada e che l’Europa, confusa e nuovamente ferita dalla guerra, si interroga, come ci suggerisce la citazione di apertura, su quali saranno, nel prossimo futuro, i valori supremi capaci di unirci in un popolo europeo.
[1] M. KUNDERA, Un Occident kidnappé ou la tragédie de L’Europe centrale, Gallimard, Paris 2021; Un Occidente prigioniero, Adelphi, Milano 2022, pp. 65-66.
[2] P. COSTA, Dai diritti naturali ai diritti umani: episodi di retorica universalistica, in AA. VV., Il lato oscuro dei Diritti umani: esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo, a c. di Massimo Meccarelli, Paolo Palchetti, Carlo Sotis, Carlos III University of Madrid, Madrid 2014, p.36.
[6] È, in un certo senso, l’altra faccia del deficit di democraticità delle istituzioni decisionali europee, Consiglio e Commissione, le quali, non avendo un rapporto diretto con le cittadinanze degli stati membri, sono meno vincolate al consenso mediatico-politico.
[7] Il Trattato di Lisbona, fatto il 13 dicembre 2007, ha riconosciuto l’uguaglianza democratica, la democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa come principi fondamentali dell’UE e ha reso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea un documento giuridicamente vincolante. La Carta, redatta sula falsa riga della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), riunisce tutti i diritti personali, civili, politici, economici e sociali di cui godono i cittadini dell’Unione europea e può essere interpretata, nelle materie di interesse dell’Unione, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU.
[8] The Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women, Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata nel 1979 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
[9] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con LEGGE 27 giugno 2013, n. 77.
[10] Non si può trascurare, in proposito, la tolleranza mostrata dall’Unione europea nei confronti delle svolte autoritarie di alcuni Paesi membri che hanno imposto regressioni nell’indipendenza della magistratura, nella supremazia del diritto euro-unitario e nella garanzia dei diritti fondamentali: cioè il trinomio che, nel lessico europeo, viene definito Rule of Law. I casi più evidenti sono quelli della Polonia e dell’Ungheria, che hanno fornito un esempio inedito di attuazione “forte” della governance, sino a vere e proprie torsioni autoritarie.
[11] Grande Sezione, causa C-406/22.
[12] Il sistema della disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto (già comunitario e poi) dell’Unione si è consolidato nella giurisprudenza della Corte di giustizia a partire dalla sentenza ‒ anch’essa un pilastro del sistema giuridico europeo ‒ del 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato c. SpA Simmenthal, e costituisce, ormai da quarant’anni, l’indiscusso sistema di tutela dell’efficacia del diritto dell’Unione nello Stato membro.
[13] Il testo della Formula di Radbruch è riportato, anche in lingua originale (in nota), in G. VASSALLI, Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei “delitti di Stato” nella Germania postnazista e postcomunista, Giuffré, Milano 2001, pp. 6-8.
[14] Cfr. in proposito, Corte EDU, caso Maktouf e Damjanovic c. Bosnia Erzegovina, Sentenza della Grande Camera, 18 luglio 2013, nella quale si confrontano, soprattutto nelle Concurring opinion, le tesi che l’articolo 7 § 2 della Convenzione EDU possa essere applicato esclusivamente ai crimini commessi nella Seconda guerra mondiale (così conferendogli una portata più ristretta rispetto a quella adottata dalla Giurisprudenza tedesca), ovvero anche a fatti successivi.
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