Il segretario generale della Cgil: «Occupazione al 62,5%? Il lavoro deve permettere di vivere con dignità, senno non è lavoro, saremo in piazza anche contro il ddl sicurezza»
Dieci giorni dopo lo sciopero generale e con la crisi di Stellantis accelerata dalle dimissioni di Tavares, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, parla con Open della stretta attualità ma anche della prospettiva per il 2025 a partire dai referendum su lavoro e autonomia differenziata.
Segretario Landini, partiamo prima di tutto dal caso Stellantis. Le dimissioni di Tavares sono state una sorpresa anche per voi?
«Le dimissioni di Tavares indicano le difficoltà e gli errori del gruppo Stellantis. I licenziamenti in atto a Pomigliano, nelle aziende dell’indotto, devono essere ritirati. La Fiom e la Cgil tante volte, in perfetta solitudine, dal 2009 ad oggi, in tutto il percorso prima Fiat, poi FCA, ora Stellantis, hanno denunciato problemi, proposto soluzioni e contrastato scelte sbagliate con la mobilitazione e anche ricorrendo ai tribunali, fino alla Corte Costituzionale. Ora che tutti riconoscono il problema chiediamo che palazzo Chigi convochi il gruppo e i sindacati per definire un vero piano industriale e di investimenti in grado di tutelare l’occupazione. Una vera strategia per dare un futuro ad una nuova mobilità ha bisogno di una visione e una dimensione europea di investimenti, condizione necessaria per recuperare il divario che si è determinato con il resto del mondo, valorizzando le competenze e il saper fare delle lavoratrici e dei lavoratori».
L’errore è stato fare il Green deal?
«Detta così ė una sciocchezza e un modo per non affrontare i problemi veri. Stiamo di fronte ad un processo reale di cambiamento climatico e quindi anche a una nuova idea di mobilità, e stiamo pagando i ritardi di scelte che non sono state fatte. Dieci anni fa si sosteneva che l’auto elettrica non era il futuro e che si poteva andare avanti con le macchine attuali o a gas, e non sono stati fatti gli investimenti infrastrutturali necessari. Politiche energetiche, un nuovo concetto di mobilità (car sharing) e prodotti sostenibili (dall’elettrico all’ibrido, fino all’idrogeno) sono le nuove frontiere dell’ innovazione con cui misurarsi».
Lei è un leader sindacale sempre in prima linea, e guardando al passato spesso si è lamentato di governi sordi alle vostre richieste. Una volta è stato persino caricato mentre era in carica un governo di centrosinistra e le prese anche lei (governo Renzi, 2014), verrebbe da dire che quindi la destra non fa peggio della sinistra, nei vostri confronti.
«Nella vertenza di Terni, seppure in ritardo, ci fu una capacità di ascolto e ci si rese conto, che menare i lavoratori non poteva essere né il ruolo della Polizia, né il ruolo del Governo, dello Stato in quel momento. Questa cosa fu possibile perché noi non perdemmo mai la testa, neanche quando ci accusarono falsamente di voler occupare i binari o quando avevamo persone a terra o ricoverate. L’intelligenza collettiva delle lavoratrici e dei lavoratori divenne un elemento per prendere la parola. Dopo quel punto di svolta, il governo capì che stava sbagliando e cambiò idea, non è un dato da poco saper ascoltare quello che sta succedendo. Oggi, e non è una questione di governo di destra o di governo di sinistra, io questa capacità di ascoltare e di rispettare la rappresentanza del lavoro non la vedo. Anzi, vedo un tentativo opposto di mettere in discussione l’esistenza di un’autonoma rappresentanza del mondo del lavoro. E una prova di questo è anche il DDL sicurezza approvato in Parlamento».
Perché il sindacato dovrebbe occuparsi di una cosa come il DDL sicurezza?
«Se passa quel disegno di legge occupare le strade, occupare le fabbriche, per difendere il lavoro, diventa un reato penale e ti possono addirittura arrestare. Per questo chiediamo che venga ritirato, non emendato, e il 14 dicembre siamo pronti a scendere di nuovo in piazza in coerenza con quella che è una delle richieste dello sciopero generale. E’ un attacco alla libertà dei cittadini di dissentire e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. E’ una scelta preoccupante perché, anche se Meloni racconta un mondo bellissimo di crescita e risultati positivi, siamo al ventesimo mese consecutivo di riduzione della produzione industriale, sta aumentando la cassa integrazione, stanno riprendendo i licenziamenti, le chiusure di imprese e le riorganizzazioni aziendali. E in questo contesto, è inaccettabile la scelta del governo di mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale e della sua funzione di soggetto negoziale».
Negli ultimi mesi ha usato il termine “rivolta sociale” che è stato molto criticato.
«Quando noi andiamo in piazza, lo facciamo per ottenere dei risultati, non per far casino. Non è mai successo, neanche negli anni peggiori, che fossero i lavoratori a sparare alla polizia. A sparare e mettere le bombe contro i lavoratori sono stati i terroristi, neofascisti e brigatisti, sconfitti grazie alle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori. La rivolta sociale vuole affermare la democrazia e la libertà conquistata dalle lavoratrici e dai lavoratori. Rivolta sociale è quando di fronte alle ingiustizie e alle cose sbagliate tu non ti volti da un’altra parte ma ti metti assieme a tutte le persone che hanno il tuo stesso problema e provi a cambiare la situazione. Ho usato queste parole non perché mi sono sbagliato, non perché la volevo alzare alta, ma perché ho la preoccupazione che di fronte al livello di ingiustizie attuale anziché scattare una rivolta sociale per cambiare la situazione nasca un senso di rassegnazione generalizzato. L’abbiamo visto anche nelle elezioni dell’ultimo periodo: io vivo come un problema il fatto che il 50% e in alcuni casi anche di più dei cittadini non va più a votare. Siamo dentro una crisi della democrazia pericolosissima. E visto che i problemi che denunciamo sono ogni giorno più evidenti, la nostra mobilitazione deve andare avanti».
Spesso parlate di salari bassi, ma molti esperti ribattono che il problema è la scarsa produttività del lavoro.
«Il tema della produttività è legato alla mancanza degli investimenti. Quello che fa la differenza non è quante ore lavoro, ma quale contenuto e quale valore aggiunto ha il prodotto che realizzo con il lavoro. In Italia in questi 20 anni è prevalsa un altra idea di competitività giocata sulla precarietà, sulla riduzione dei diritti e sulla riduzione dei salari. Questo ha generato progressivamente un indebolimento perché hai continuato a mantenere una dimensione piccola di impresa, non sono cresciuti grandi gruppi o reti, ovviamente non è tutto così ma le imprese che vanno meglio sono andate in un’altra direzione. Si dice che siamo un Paese che esporta molto ma il grosso dell’export lo fa il 25-30% delle imprese. Il modello di fare impresa che si è affermato, attraverso la logica del sub appalto, sta determinando una riduzione della sicurezza e un aumento dei morti sul lavoro. Non sono stati realizzati quegli investimenti che permettono di fare sistema: continuiamo a non avere infrastrutture fisiche, la ferrovia, le strade e tutto il resto, ma anche quelle telematiche e digitali e a non investire sul diritto alla formazione permanente. Le scelte che sono state fatte, sia dalla classe politica che da quella imprenditoriale, dagli anni 90 ad oggi, dovrebbero essere radicalmente cambiate perché hanno prodotto impoverimento sociale, la riduzione della domanda interna e anche un arretramento del sistema industriale del nostro Paese. Un problema, questo, che oggi riguarda anche l’Europa e la sua capacità di competere, in un mondo in cambiamento, sui grandi mercati».
Il problema riguarda anche l’automotive…
«La Cina produce già auto elettriche che costano meno di 15.000 euro, noi non ce le abbiamo e non abbiamo neanche costruito un sistema infrastrutturale per alimentarle e favorirne la circolazione. Oggi il più grande produttore di auto al mondo è la Cina, non era così 20 anni fa. Oggi la Cina laurea un milione di ingegneri ogni anno, non può essere una sfida affrontata da soli. E in ogni caso non si può discutere di produttività senza affrontare i nodi che hanno determinato il ritardo del nostro Parse sul terreno anche dell’innovazione e della ricerca».
Nei giorni dello sciopero generale Istat ha pubblicato i dati sull’occupazione, certificata al 62,5%. Perché non va bene? Il sindacato non dovrebbe esserne soddisfatto?
«Se aumenta il lavoro e aumentano quelli che lavorano e sono poveri vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Quale lavoro sta crescendo, quale occupazione si sta creando? Io mi sono rotto di questa idea che pur di lavorare va bene qualsiasi lavoro, anche se non permette di vivere con dignità. Quello non è lavoro diciamocelo se no non ne veniamo mica fuori. Dobbiamo essere contenti che i part time involontari dal 1990 ad oggi sono passati da un milione a 4 milioni e mezzo? Vogliamo sentire se è contento il milione di persone che lavora a chiamata? Vogliamo parlare con il milione di persone interinale? Vogliamo parlare con le partite iva del lavoro autonomo che è quello che sta crescendo di più? Gli fanno pagare meno tasse ma sono più sfruttati di tutti perché non hanno la malattia, gli infortuni, semplicemente costano meno per le imprese ed è più facile lasciarli a casa rispetto ad altri rapporti di lavoro. Ce lo vogliamo dire che i salari diminuiscono o diminuisce il potere d’acquisto e buona parte dei nostri giovani appena può dal nostro paese se ne va via? Si fa finta di non sapere che la popolazione invecchia e che l’arrivo di nuovi lavoratori è indispensabile. E poi c’è un tema di fondo: non è vero che non ci sono i soldi, il problema è che c’è una concentrazione di ricchezza in mano a pochi che non ha precedenti e noi abbiamo un sistema fiscale iniquo in cui l’unico reddito veramente tassato con l’irpef è quello dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. E invece di affrontare il tema, il governo sta andando avanti con una delega fiscale che usa il fisco come una marchetta elettorale».
Il governo rivendica il taglio del cuneo fiscale.
«Adesso non è più il taglio del cuneo, è un intervento fiscale e fino a 35.000 euro prendi meno di prima, non ce n’è uno che prende gli stessi soldi. La riduzione del cuneo fiscale, poi, inizia con il governo Draghi, su richiesta della Cgil e della Uil, sostenuta anche da uno sciopero generale. Non può essere che ogni anno la stessa cosa viene promossa come se fosse nuova. E che c’è nessun aumento salariale mentre i lavoratori semmai prendono meno dell’anno prima».
Mantenerlo non è stato comunque un impegno da poco.
«Noi chiediamo un rinnovo dei contratti di lavoro, che nel settore pubblico sono scaduti da tre anni e una vera riforma fiscale per aumentare davvero il valore del potere di acquisto dei salari. Non siamo più disponibili ad accettare una progressiva riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. I soldi da andare a prendere ci sono, vedi l’aumento record dei profitti. E non stiamo parlando solo di quelli presi alle banche che poi si scopre che sono un prestito e devono essere restituiti. Non è un tema banale, nel 2024 di IRPEF entreranno 17 miliardi in più. Questo vuol dire che i lavoratori dipendenti e i pensionati hanno pagato più di prima e che gli aumenti formali che ti hanno dato sulla carta al lordo non sono quelli al netto perché buona parte sono andati in tasse e in contributi. Io sulla mia busta paga o sulla mia pensione arrivo a pagare anche il 40%, i profitti sono tassati al 24%, la rendita immobiliare a volte è tassata anche al 12%, la flat tax per il lavoro autonomo è il 15%. Di che cosa stiamo parlando? Non sono stati capaci di aumentare di un punto la tassazione sui profitti e sulle rendite finanziarie».
Lei parla di preoccupazioni autoritarie, Meloni è certamente di destra ma è anche una persona con una lunga militanza politica, è apprezzata dalle istituzioni europee, le pare credibile che il suo governo prenda una piega autoritaria?
«Io giudico i provvedimenti e la politica che stanno facendo, non le intenzioni o le parole. E se metto assieme una serie di provvedimenti penso che sia in atto una svolta autoritaria e faccio nomi e cognomi. Parliamo di lavoro: stanno discutendo il collegato lavoro dove aumenta ulteriormente la precarietà, stanno liberalizzando non solo i contratti a termine, anche il lavoro somministrato, addirittura chi è part time involontario anziché aumentargli l’orario di lavoro gli prospettano apertura di una partita Iva. Con questa legge in Italia uno potrà fare l’imprenditore anche senza avere neanche un dipendente, perché potrà usare tutte le forme di precariato che ci sono. Stanno in queste ore mettendo mano anche al codice degli appalti, dove di nuovo liberalizzano qualsiasi forma di appalto senza alcuna tutela. L’autonomia differenziata è un altro elemento che mette in discussione la democrazia nel nostro Paese, rompendo l’equilibrio tra i poteri e svuotando il ruolo del Parlamento. Per non parlare poi del progetto del premierato. Il modo che hanno di governare è quello di chi pensa che ha una maggioranza in Parlamento e la può usare per arrivare a cambiare anche la Costituzione e le leggi senza discutere con nessuno. Hanno fatto una legge delega sul fisco? Bene: hanno discusso con quelli che pagano le tasse, hanno fatto una trattativa? No, con nessuno. Se parlo poi del DDL sicurezza, mi sembra molto chiaro: la sicurezza per loro è arrestare chi manifesta o aumentare i salari, non essere precario, avere la sanità pubblica, non morire sul lavoro? Cosa devono fare ancora di più rispetto alla messa in discussione della democrazia del nostro Paese ? La nostra Costituzione dice esattamente l’opposto e cioè che siamo un Paese democratico se i diritti fondamentali delle persone vengono garantiti, dal lavoro alla sanità e all’istruzione pubblica».
Molte delle cose di cui parla erano state ampiamente avviate dai governi precedenti, però, e non sempre la mobilitazione della Cgil è stata altrettanto energica.
«Non sto dicendo che queste cose le sta facendo solo il governo di destra io sto dicendo che purtroppo queste cose le han fatte tutti i governi che ci sono stati negli ultimi venticinque anni e infatti noi abbiamo raccolto le firme per fare il referendum e abrogare delle leggi balorde, non solo quelle che ha fatto il governo Meloni. E poi se c’è una cosa che ho imparato è che non esserci mobilitati quando era ora non solo non ha prodotto risultati, ma ha prodotto sfiducia perché le persone ci imputano ancora, ad esempio, che nel caso della legge Monti Fornero non abbiamo fatto quello che dovevamo fare fino in fondo. Ci sono dei momenti in cui è importante imparare dall’esperienza. Ci troviamo poi in una condizione particolare: dal momento in cui è stato proclamato lo sciopero generale gli attacchi e le diffamazioni alla Cgil e alla Uil sono aumentati con l’obiettivo di non dare risposte alle richieste di cambiamento avanzate dalle 500.000 persone che sono scese in piazza. A questa domanda di cambiamento noi vogliamo dare voce utilizzando tutti gli strumenti democratici che abbiamo a disposizione, incluso il referendum».
Con i referendum lei si espone al rischio che se non passa il quorum le diranno che non è poi cosi rappresentativo, ci ha pensato?
«Non c’è dubbio, è una scelta che ha richiesto il coraggio di osare. Vorrei però sottolineare una differenza di fondo sul sistema di voto che può essere un elemento di mobilitazione: se io vado a votare per le amministrative, per le politiche, per le europee il mio è un voto che delega qualcuno a rappresentarmi. Col referendum non deleghi proprio nessuno sei tu cittadino con il tuo voto che può decidere. E i sei referendum, i quattro sul lavoro proposti dalla cgil, quello contro l’autonomia differenziata e quello sull’ cittadinanza, vogliono proprio affermare la libertà di esistere. E sono convinto che l’obiettivo del quorum è alla nostra portata».
Se però perdete rischiate una profonda delegittimazione.
«Ci sono dei momenti in cui non sai come vanno a finire le cose ma sai di sicuro che se non fai nulla è già finita prima ancora di cominciare».
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