Di Angelo Panebianco
Tra il dire e il fare. Di fronte al sempre più pericoloso ambiente internazionale, e con la possibilità che gli Stati Uniti non garantiscano in futuro la protezione militare dell’europa, l’istinto di sopravvivenza dovrebbe spingere gli europei a investire nella propria sicurezza, a dare vita alla tanto evocata difesa militare. Una difesa che richiederebbe (anche se non solo) un esercito europeo. Come hanno ribadito, su questo giornale, Romano Prodi (Corriere, 30 novembre) e Paolo Gentiloni, commissario europeo uscente (Corriere,1 dicembre). Non si può sensatamente dissentire. Ma chi è d’accordo ha il dovere di identificare gli ostacoli che rendono difficile realizzare l’obiettivo. Ci sono aspetti contingenti: fin quando Germania e Francia non avranno superato le loro interne difficoltà, il processo di integrazione europea resterà in stallo. Mete ambiziose come la difesa sembrano al momento fuori dalla nostra portata.
Gli ostacoli principali, tuttavia, non sono contingenti. Hanno a che fare, da un lato, con la natura dell’unione europea e, dall’altro, con il funzionamento delle democrazie che ne fanno parte. Consideriamo la natura dell’unione: la scelta di dare vita a un esercito europeo implicherebbe un «cambio di paradigma», una rivoluzione. Il tema della difesa militare ha caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti gli altri temi presenti oggi nell’agenda europea: immigrazione, contrasto al cambiamento climatico, eccetera. Dare vita alla difesa europea significherebbe introdurre una discontinuità radicale nel modo d’essere dell’europa dai trattati di Roma (istitutivi delle Comunità europee nel 1957) in poi. Quei trattati arrivarono dopo il fallimento (1954) del progetto della Comunità europea di Difesa(ced), primo e unico tentativo di fare nascere una Europa sovrana. Niente esercito uguale niente sovranità. Dopo quel fallimento i fautori dell’integrazione mutarono indirizzo e prospettiva: se non era possibile fare nascere una Europa sovrana, allora si doveva ripiegare sull’integrazione economica. Accantonate, insieme alla Ced, le aspirazioni sovraniste, la Comunità europea (poi Unione) diventò una impresa di successo. L’integrazione portò importanti benefici all’europa, favorì la modernizzazione delle economie e della vita sociale. Contemporaneamente, l’ombrello militare americano consentì agli europei di non destinare troppe risorse alla difesa e di investirle nei loro costosi sistemi di welfare. Una Europa dedita agli affari e alla cura del benessere materiale dei suoi cittadini e che non doveva difendersi dai nemici (c’era qualcun altro che lo faceva al posto suo) poté persino permettersi il lusso di vantare virtù forse inesistenti: da qui la retorica sull’europa «potenza civile». Come nella favola della volpe e dell’uva. Poiché una potenza militare autonoma è irraggiungibile mi invento che è molto meglio così. Ecco perché puntare oggi sulla difesa europea comporterebbe un cambio di paradigma, uno strappo profondo rispetto alla storia dell’integrazione europea. Si può immaginare qualcosa di più difficile?
Ci sono poi gli ostacoli che hanno a che fare con il funzionamento delle democrazie europee. Se gli elettori non vogliono non si va da nessuna parte. Gli elettori dei principali Paesi europei, fin qui, non hanno dato segni di volere rinunciare allo Stato nazionale. È facile puntare il dito contro i cosiddetti sovranisti, i movimenti anti-europei. Ma è un fatto che il cancelliere tedesco, dopo l’invasione dell’ucraina, annunciò un ambizioso piano di riarmo della Germania, non un investimento tedesco nella difesa europea. In sintonia, presumibilmente, con la sensibilità dei suoi elettori. E il presidente francese Macron, tanto impegnato nel sostenere la causa dell’integrazione europea, non si è mai sognato di mettere a disposizione dell’europa l’armamento nucleare francese. Tanti elettori non lo avrebbero sicuramente seguito.
L’opinione pubblica può essere un potente ostacolo anche da altri punti di vista. Ipotizziamo (cosa di cui però è lecito dubitare) che sia possibile generare le ingentissime risorse necessarie per dare vita a una vera difesa europea senza toccare i sistemi di welfare né innalzare troppo la pressione fiscale. Poiché
la politica è in larga misura competizione intorno a risorse scarse, sorgerebbero comunque forti resistenze da parte di chi (per esempio, varie organizzazioni sindacali) vorrebbero più investimenti, non in sicurezza e armi, ma in pensioni, sanità eccetera.
Sempre in relazione agli orientamenti dell’opinione pubblica va citato un altro aspetto che ha una particolare rilevanza nel caso dell’italia. Un Paese, peraltro, davvero speciale: quale che sia il colore del governo l’italia non riesce neppure a soddisfare la richiesta Nato di portare al 2 per cento del Pil la spesa militare. Difficilmente, se dal dire si passasse al fare (se si investisse massicciamente nella difesa), ciò non urterebbe la sensibilità di una parte, forse rilevante, del mondo cattolico. Plausibilmente, sorgerebbero in quel mondo forti resistenze contro quello che verrebbe subito denunciato come il nuovo «militarismo» dell’europa.
Conclusione: la storia dell’integrazione europea da un lato e gli orientamenti delle opinioni pubbliche dall’altro, rendono difficile dare vita in un prossimo futuro a una vera e solida difesa europea (che poi, realisticamente, potrebbe essere solo la gamba europea della Nato). A meno che l’europa non si trovi a fronteggiare una minaccia mortale, immediatamente riconosciuta come tale dalla schiacciante maggioranza degli elettori europei. Se questo accadesse, plausibilmente, gli europei si dividerebbero fra una parte disposta ad approntare una difesa europea contro la minaccia e un’altra parte pronta a cedere ai diktat dell’autore della minaccia, a blandirlo, a tentare di ingraziarselo. Quale delle due parti prevarrebbe sull’altra non è oggi possibile prevedere.
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