Danni da vaccino, il nesso stabilito dalla Commissione medica ospedaliera non vincola il giudice
La Cassazione, sentenza n. 30267 depositata oggi, ha chiarito che nonostante l’esito affermativo della Cmo, il tribunale può disporre una Ctu e adottarne le diverse conclusioni
In una controversia per il risarcimento del danno da vaccino il verbale della Commissione medica ospedaliera (C.M.O.) che ne attesta il nesso non ha valore di prova e il giudice può liberamente disporre una consulenza e all’esito decidere in senso opposto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza n. 30267 depositata oggi, respingendo la domanda del ricorrente contro la decisione della Corte di appello per vedere affermata la responsabilità del ministero della Salute.
Il giudice di secondo grado, a sua volta, aveva confermato la decisione del Tribunale che aveva bocciato la richiesta di indennizzo ex lege n. 210/92 per la patologia (cerebropatia epilettogena) contratta a seguito di somministrazione di vaccino antipolio. La decisione ricordava che era stata disposta consulenza tecnica d’ufficio medico-legale sia in primo sia in secondo grado, e che ambedue le relazioni avevano concluso come assolutamente più probabile l’assenza di nesso causale tra la somministrazione vaccinale e il quadro clinico riscontrato, nonostante i sintomi della patologia fossero comparsi pochi giorni dopo la somministrazione, e nonostante il nesso causale fosse stato riconosciuto dalla Commissione Medico Ospedaliera (C.M.O.). La letteratura scientifica escludeva infatti il nesso causale.
Una lettura confermata dalla Suprema corte che ricorda come non è vero che la Corte di appello abbia omesso di considerare il verbale della C.M.O., “ma ha ritenuto che i dati di fatto ivi menzionati – prossimità cronologica tra somministrazione e insorgenza dei sintomi, letteratura scientifica a sostegno della eziologia – non fossero attendibili, alla luce delle due relazioni mediche”. Entrambe infatti avevano negato che “alla luce della letteratura scientifica, potesse sussistere un nesso causale tra la somministrazione del vaccino antipolio e il quadro clinico del ricorrente”.
La Cassazione aggiunge che il verbale della C.M.O. attestante il nesso causale non ha efficacia di prova legale (Cass. S.U. 19129/23), ma di prova liberamente valutabile dal giudice (Cass.36504/23), il quale può utilizzarlo in giudizio e apprezzarlo.
Per cui, non avendo efficacia di prova legale, la valutazione della C.M.O. non impediva al tribunale e alla Corte d’appello di disporre una c.t.u. medico legale. La Cassazione del resto ha già in passato precisato che la P.A., e quindi il Ministero della Salute, può riesaminare in sede di procedimento amministrativo le conclusioni della C.M.O.; mentre il giudice, investito della domanda di accertamento del diritto all’indennizzo, deve procedere all’accertamento della sussistenza o meno delle condizioni richieste e, quindi, anche al riesame, eventualmente in senso sfavorevole all’interessato, della valutazione della C.M.O..
Infine neppure è vero che la Corte avrebbe violato il principio del “più probabile che non”, avendo richiesto una forte probabilità, prossima alla certezza, in ordine alla sussistenza del nesso causale. Entrambe le Ctu infatti hanno escluso “con grande probabilità se non con certezza – ovvero secondo un criterio di maggior probabilità – che la somministrazione del vaccino sia stata causa della patologia riscontrata”.
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Marittimi, il ricorso abusivo del contratto a termine trasforma il rapporto a tempo indeterminato
Principio che va contro la sentenza n. 2980/21 secondo cui l’utilizzo eccessivo del contratto a termine è sanzionato con il risarcimento del danno
Nel comparto marittimo il ricorso arbitrario a una serie di contratti a tempo determinato può convertire il contratto a termine in rapporto “indeterminato”.
Una sentenza che va contro una recente pronuncia di legittimità (Cassazione sentenza n. 2980/21) che – in materia di pubblico impiego privatizzato – in caso di abuso di contratti a termine, non ha ritenuto che ci fosse l’obbligo di convertire il contratto a tempo determinato in indeterminato, ritenendo adeguato invece il risarcimento del danno.
La Cassazione esclude la responsabilità della vittima di una diagnosi sbagliata. Va verificato se sono state date compiute indicazioni sullo stato di salute e i rischi
Il rifiuto del ricovero ospedaliero, da parte di un paziente poi deceduto, esclude, di regola, la responsabilità dei sanitari. Non sempre però. Occorre infatti anche indagare se il paziente abbia rifiutato il ricovero sulla base di una corretta informazione circa il proprio stato di salute e i correlati rischi.
Lo ha affermato la Cassazione che, con l’ordinanza 21362 del 30 luglio 2024, si è occupata del caso di una paziente alla quale, in pronto soccorso, non fu colpevolmente diagnostica un’ischemia…
Stalking, elemento soggettivo: i chiarimenti della Cassazione
La Cassazione chiarisce che nel delitto di atti persecutori l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico
Nello stalking, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di queste condotte le quali possono essere anche in parte casuali. E’ quanto ha chiarito la seconda sezione penale della Cassazione con sentenza n. 32376/2024.
Nella vicenda, la Corte di Appello di Catania confermava la pronuncia di condanna di primo grado per il delitto di cui all’art. 612-bis cod.pen. commesso da un uomo in danno dell’ex convivente.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione, denunciando erronea interpretazione della legge penale con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo previsto dall’art. 612-bis cod. pen., lamentando che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto integrato il dolo assumendo, erroneamente, che non sarebbe stato a tal fine indispensabile che il soggetto agente voglia cagionare turbamento nella persona che subisce la sua condotta, né che le minacce non abbiano avuto seguito.
Per la S.C., però, il motivo è manifestamente infondato. La decisione impugnata, “nel ritenere prive di rilievo le circostanze che il ricorrente non si sarebbe reso conto del tenore gravemente minaccioso dei propri messaggi (asserzione che, peraltro, correttamente la pronuncia ha sottolineato essere rimasta indimostrata) e che non avrebbe poi dato corso alle stesse ponendo in essere atti di violenza nei confronti del’ex convivente, ha fatto corretta applicazione del principio, più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale nel delitto di atti
persecutori l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, li cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (v. Sez. 1, n. 28682 del 25/09/2020; Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015)”.
Per cui, il ricorso è inammissibile.
Il maresciallo ferito in una rissa non è considerato vittima del dovere
Negati i benefici speciali. In assenza di una missione o del contrasto alla criminalità organizzata, in pattuglia il rischio di imbattersi nella delinquenza comune è routine
Sedare una rissa nel corso di una pattuglia rientra nella “routine” dell’attività di un maresciallo, compreso il rischio di restare ferito. Per questo al carabiniere non può essere riconosciuto lo status di vittima della criminalità o del dovere che dà diritto ad una pensione privilegiata. La Corte di cassazione (sentenza 22778) ha così respinto il ricorso fatto dal militare dopo che il ministero dell’Interno gli aveva negato i benefici che sarebbero derivati dal riconoscimento richiesto.
E la Corte d’Appello aveva confermato il no del Viminale, malgrado le lesioni gravi subìte dal carabiniere che era intervenuto in una missione a suo avviso non “ordinaria”, cercare di evitare il peggio in una rissa scatenata tra automobilisti per motivi di circolazione stradale.
Criminalità comune o organizzata
Per la Corte territoriale non era stata un’azione di contrasto alla criminalità organizzata e mancava “un rischio specifico per la particolare pericolosità dell’attività concretamente svolta” in genere connesso ad operazioni di polizia preventiva o repressiva.
Infine il militare non era in missione. Per queste ragioni la Corte di merito aveva considerato il rischio insito nell’attività ordinaria ed escluso “la dipendenza da causa di servizio correlata a particolari condizioni ambientali e operative”. Ad avviso della Corte d’Appello, nei giri di pattugliamento costituisce “circostanza normale l’eventualità di imbattersi in soggetti a rischio”. Non passa dunque la tesi del ricorrente, secondo il quale fronteggiare la criiminalità comune non è diverso dall’affrontare quella organizzata.
L’accatastamento non basta a certificare il completamento delle opere in una istanza di condono
E’ quanto emerge da una sentenza pronunciata dal Tar di Palermo
L’accatastamento, così come il pagamento delle imposte (Imu, Tasi e tari) e il pagamento della rata di oblazione, oltre che l’allacciamento Enel non bastano a certificare il completamento delle opere in una istanza di condono di un edificio abusivo.
E’ quanto emerge da una sentenza pronunciata dal Tar di Palermo, in merito al ricorso di una persona che aveva impugnato il diniego all’istanza di concessione in sanatoria di un edificio realizzato oltre il termine del 31 marzo 2003…
Autovelox illegali, sequestri in tutta Italia: in quali città si trovano e chi può fare ricorso per le multe
È stato disposto il sequestro preventivo di alcuni autovelox illegali, autorizzati e attivi su tutto il territorio nazionale ma privi di omologazione del sistema Exspeed v 2.0. Sono stati localizzati in diversi comuni come Cosenza, Venezia, Modena e Cerignola. Le multe determinate da questi autovelox potrebbero essere annullate, a meno che non siano state già pagate.
Pochi giorni fa è stato disposto il sequestro preventivo di alcuni autovelox illegali, apparecchi autorizzati e attivi su tutto il territorio nazionale ma privi di omologazione del sistema.
Delle indagini e del sequestro si è occupata la Polstrada di Cosenza che ha localizzato questi apparecchi in almeno 10 regioni italiane: Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Basilicata, Molise, Puglia, Calabria e Sicilia. Il legale rappresentante della società appaltatrice è stato denunciato in stato di libertà per frode nella pubblica fornitura.
Il 28 maggio è inoltre entrato in vigore il cosiddetto decreto Autovelox voluto dai ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’Interno che disciplina le modalità di collocazione e uso dei dispositivi.
La Lega, partito del ministro Salvini, commentando i recenti sequestri ha riferito in una nota di essere “al lavoro per mettere ordine in una situazione di caos. La salvaguardia degli utenti della strada e dei pedoni è una priorità, ma senza tartassare i cittadini con migliaia di autovelox illegali che non aumentano la sicurezza ma solo le multe”.
Dove si trovano gli autovelox illegali: l’elenco delle città in Italia
La Polizia stradale di Cosenza ha sequestrato gli autovelox illegali attivi “con postazioni fisse per il rilevamento della velocità sia media che puntuale, dislocate lungo la statale 107 e la provinciale 234 del territorio della provincia di Cosenza e la statale 106”, riportava la nota diffusa dalle forze dell’ordine.
Ma non solo: gli accertamenti della Polstrada hanno riscontrato apparecchiature non omologate e prive del prototipo del sistema di rilevamento anche in altri comuni e città, quali Venezia, Vicenza, Modena, Reggio Emilia, Pomarico, Cerignola, Pianezza, Piadena, Formigine, Arcola, Carlentini, San Martino in Pensiliis.
Cosa fare con le multe: chi può contestare le sanzioni
Il problema nasce a seguito di una sentenza della Corte di Cassazione che alcuni mesi fa ha dato ragione a un automobilista di Treviso che aveva impugnato una multa per un eccesso di velocità registrato da un autovelox approvato ma non omologato, creando un precedente importante.
Le multe determinate dagli autovelox non omologati possono essere contestate, a meno che le sanzioni non siano state già pagate, ha spiegato ancora il Codacons parlando dei sequestri. Secondo quanto stabilisce la legge, infatti, non devono passare più di 60 giorni dalla data di contestazione o notifica per presentare ricorso al Prefetto. In questo caso la procedura è gratuito ma determina il pagamento del doppio della sanzione nel caso in cui l’istanza venga respinta. Entro 30 giorni invece è possibile rivolgersi al giudice di pace pagando il contributo unificato.
Per avere certezze circa l’omologazione del dispositivo autovelox che ha accertato la violazione, bisogna presentare un‘istanza d’accesso agli atti presso il Comune dove è installato l’apparecchio e, una volta ottenuta l’autorizzazione, analizzare le specifiche tecniche sull’autovelox.
Il Codacons ha deciso di presentare un esposto alla Corte dei Conti della Calabria e alle Corti delle altre 9 Regioni dove erano installati gli apparecchi al centro dell’inchiesta per verificare possibili danni erariali per le casse pubbliche e verificare le relative responsabilità.
Il sequestro “porterà inevitabilmente ad una raffica di ricorsi da parte di chi ha ricevuto sanzioni ed è ancora nei termini per impugnare le multe, col rischio di condanna dei Comuni al rimborso delle spese legali”, ha spiegato Francesco Di Lieto, rappresentante di Codacons Calabria.
“I costi per le casse degli enti locali, tra rimborsi agli automobilisti e mancate sanzioni legate allo spegnimento degli autovelox, potrebbero essere ingenti e ricadrebbero sulla collettività. – ha spiegato Carlo Rienzi, presidente del Codacons – Ricordiamo in ogni caso che la velocità eccessiva è tra le prime cause di morte sulle strade italiane, ed è importante colpire con la massima severità i trasgressori, nel rispetto però delle leggi e ricorrendo a strumenti omologati e a norma
Danno da emotrasfusione in sala parto: donna risarcita dopo 54 anni. Riconoscimento di un sussistente danno morale: “L’acquisita consapevolezza della specifica e grave patologia può far sorgere il diritto al risarcimento del danno morale da sofferenza”
Epatite C da emotrasfusione in sala parto
La vicenda ha visto protagonista una donna che, a seguito di una trasfusione di sangue infetto ricevuta in un Ospedale di Arezzo durante il parto nel 1970, ha contratto l’infezione HCV. Dopo decenni di sofferenze e battaglie legali, la donna ha finalmente ottenuto il riconoscimento del proprio diritto al risarcimento del danno. Il danno biologico rappresenta una lesione all’integrità psicofisica della persona, che incide sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto.
Tale concetto non si riferisce solo ai danni fisici, ma anche a quelli psichici. Analizziamo una recente sentenza del Tribunale di Firenze, che affronta il caso di un danno biologico causato da un’emotrasfusione e che rappresenta un importante precedente giurisprudenziale in materia di responsabilità civile per danni da emotrasfusione infetta.
Nel Maggio 1970, alla donna, poco più che ventenne, fu praticata un’emotrasfusione presso l’Ospedale di Arezzo in occasione del parto, contraendo l’infezione HCV;
Nel 1999 all’età di circa 50 anni, le venne diagnosticata l’Epatite C;
Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 85/2017, ha rigettato l’eccezione di prescrizione e ha dichiarato la responsabilità del Ministero della Salute per il trattamento sanitario del maggio 1970;
Nel 2000 presentò la domanda di indennizzo ai sensi della legge 210/92 la quale venne respinta dalla CMO di Firenze per insussistenza del nesso causale;
Successivamente propose ricorso giudiziale e il Tribunale di Arezzo con sentenza n. 320/07 le aveva riconosciuto l’indennizzo, sentenza poi annullata dalla Corte di Appello di Firenze;
La Corte di Cassazione nel 2023 ha confermato il rigetto dell’indennizzo per completa remissione della patologia infettiva e per l’esclusione del danno psichico dalla tabella degli indennizzi. Dopo sei anni di sospensione del giudizio, la causa è stata riassunta ed è stata disposta una consulenza medico-legale che ha confermato la presenza di un danno permanente del 5% a causa della fibrosi epatica in esito all’epatite C contratta dalla paziente;
Nell’azione legale intrapresa contro il Ministero della Salute, l’attrice si è fatta rappresentare in giudizio dall’avv. Nicola Fabbri e dall’avv. Luca Fanfani del Foro di Arezzo;
L’11 Giugno 2024 il Tribunale di Firenze, in sede di giudizio di merito, con sentenza del Giudice Susanna Zanda accoglie la sua domanda, condannando il Ministero della Salute a risarcire i danni, da emotrasfusione, biologici, esistenziali, dinamico-relazionali e morali liquidandoli in euro 50 mila.
Nella recente sentenza del tribunale Ordinario di Firenze 2 Sez. civile dell’11 Giugno 2024 (sotto allegata), viene riportata la sentenza della Corte di cassazione n. 5119/2023 riguardante la giurisprudenza in materia di danni lungolatenti, ossia quei danni che si manifestano a distanza di tempo.
Con la sentenza emessa dal Giudice dott.ssa Susanna Zanda del Tribunale di Firenze l’11 giugno 2024, il Ministero della Salute è stato condannato a risarcire i danni da emotrasfusione all’attrice per 50.000 euro e a rimborsare le spese processuali e delle consulenze tecniche.
Doppia conformità: si applica anche alle regioni speciali
Per la Corte Costituzionale il requisito della doppia conformità trova applicazione anche alle regioni a statuto speciale, per ricondurre a legittimità gli abusi edilizi
La Corte costituzionale (con la sentenza n. 125/2024 sotto allegata) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 135, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Trento 4 marzo 2008, n. 1 (Pianificazione urbanistica e governo del territorio), per contrasto con il requisito della cosiddetta “doppia conformità”, sancito dall’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
In base a tale requisito, il permesso di costruire in sanatoria si può ottenere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
La sentenza ha ribadito che il requisito della “doppia conformità” riveste un’importanza cruciale nell’ordinamento italiano, mirando ad assicurare, sull’intero territorio nazionale, “l’uniformità delle condizioni per ricondurre a legittimità gli abusi edilizi: ciò a tutela dell’effettività della disciplina urbanistica ed edilizia e, quindi, indipendentemente dalla concreta estensione del fenomeno dell’abusivismo nei singoli contesti territoriali”.
In tal senso, tale requisito deve trovare applicazione sia in relazione alle regioni a statuto ordinario (costituendo un principio fondamentale della materia “governo del territorio”), sia in relazione alle regioni a statuto speciale (trattandosi di una norma fondamentale di riforma economico-sociale).
Anche alla luce delle recenti modifiche di semplificazione della disciplina statale apportate dal decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica), la Corte ha ribadito che spetta comunque allo Stato il compito di stabilire, a tutela dell’effettività della disciplina urbanistica ed edilizia su tutto il territorio nazionale, i casi in cui il requisito della “doppia conformità” debba trovare necessaria applicazione ai fini del rilascio del permesso in sanatoria, nonché i casi in cui possano ammettersi circoscritte limitazioni alla sua concreta operatività.
Buono postale prescritto: Poste condannata a pagare per omesse informazioni
Tutti i buoni postali fruttiferi emessi da Poste Italiane e dichiarati prescritti potrebbero essere messi in discussione, a seguito della recente ed innovativa sentenza ottenuta dall’UNC Calabria che condanna Poste Italiane a pagare lo stesso, per non avere informato adeguatamente i risparmiatori.
La domanda, per non avere Poste Italiane, consegnato il foglio informativo, è stata ritenuta provata, per cui effettivamente va condannata (in quanto gravata dall’onere informativo), al risarcimento del danno liquidato in misura pari al capitale investito euro 5000,00 complessivo.
Invero, il D.M. 19 dicembre 2000 prescrive all’art. 3 “Per il collocamento dei buoni fruttiferi postali, viene consegnato al sottoscrittore il titolo e il foglio informativo contenente la descrizione delle caratteristiche dell’investimento” e all’art. 6 stabilisce l’obbligo in capo a Poste Italiane s.p.a. di esporre al pubblico le condizioni praticate, rinviando al foglio informativo, che sarà consegnato al sottoscrittore, la descrizione dettagliata delle caratteristiche del buono sottoscritto. Detto corredo informativo è a contenuto predeterminato ed è posto a garanzia della trasparenza dell’attività dell’intermediario nonchè a tutela della consapevole volontà del risparmiatore, il quale deve essere messo nelle condizioni di comprendere correttamente (a prescindere dal grado di istruzione e/o da pregresse esperienze in analoghi investimenti), quali siano le caratteristiche del buono acquistato, tra cui la sua data di scadenza.
La domanda risarcitoria quindi è stata accolta e quindi il Giudice di Pace con sentenza dell’8 luglio 2024, ha condannato Poste Italiane s.p.a., al pagamento di euro 5000,00 a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi legali e spese legali.
Favor rei irretroattivo: uccisa la gallina dalle uova d’oro
Una volta in un regno (non) molto lontano, un imprenditore di successo, che aveva costruito un impero commerciale. Un giorno ricevette una notifica dall’agenzia dell’entrate, la quale affermava che dovesse pagare una somma enorme a causa di alcune irregolarità nelle sue dichiarazioni fiscali.
L’imprenditore era sconvolto. non aveva idea di come avrebbe potuto pagare una somma così grande. Corse così dal suo avvocato, il quale lo rassicurò, dicendogli che tanto avrebbe beneficiato del favor rei e il dovuto si sarebbe ridotto significativamente. Eppure, così non fu. dopo un lungo processo, il giudice decise contro l’imprenditore. A nulla valse l’appello del fedele avvocato, la sanzione originale fu mantenuta e i beni dell’imprenditore confiscati.
Nel frattempo, all’Agenzia delle entrate, si respirava aria di trionfo, ridendo e festeggiando per la ricca vittoria ottenuta. La gioia, però, fu di breve durata, perché presto realizzarono di aver ucciso la gallina dalle uova d’oro.
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Il principio del favor rei è stato improvvisamente e inaspettatamente messo in discussione dal legislatore con la recente riforma delle sanzioni tributarie, vietando gli effetti retroattivi dell’istituto. Il principio del favor rei è un concetto fondamentale nel diritto, che sostiene che in caso di dubbio o incertezza, la decisione dovrebbe essere presa a favore del responsabile. Questo principio si basa sul concetto di retroattività della legge norma più favorevole al responsabile, ma soprattutto ad un principio di civiltà giuridica. Non ha alcun senso punire un soggetto per un fatto che non costituisce più illecito nella logica del legislatore e dell’opinione pubblica o punirlo con una sanzione più grave rispetto a quella che si è introdotta nel nostro ordinamento.
Nel contesto del diritto dell’Unione Europea[1], il principio del favor rei ha assunto un ruolo significativo. Esso stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge successiva, non è più considerato una violazione punibile. Questo principio si applica in presenza di qualsiasi modifica in melius della disciplina sanzionatoria, salvo espressa indicazione contraria del legislatore
La Corte di Cassazione ha riconosciuto l’applicabilità del principio del favor rei anche in ambito tributario, stabilendo che al soggetto trasgressore si applica sempre la sanzione più favorevole, ancorché emanata successivamente alla commissione del fatto che integra la violazione. Tuttavia, l’ambito di operatività del principio del favor rei non è precisamente definito nella giurisprudenza di Cassazione, che in alcuni casi non ne ha tenuto conto anche in presenza di innovazioni della normativa sostanziale del tributo.
In conclusione, il principio del favor rei rappresenta un importante baluardo per la protezione dei diritti degli individui nel contesto del diritto dell’Unione Europea. In un paese a cultura democratica non si possono mettere in discussione i diritti fondamentali. Per nulla al mondo, si può anteporre il bilancio dello stato ai diritti degli individui se non si vuole tornare a quella forma di autoritarismo, monarchie assolute, che portarono a tanti conflitti, per elevare gli individui dal rango di sudditi al rango di cittadini.
Per comprendere bene dal punto di vista giuridico e sociologico il problema del favor rei, non possiamo prescindere dal contesto in cui è collocata l’Italia, essendo un pericoloso paradosso che la classe politica italiana indistintamente si lamenti di dovere introdurre norme non condivise per ottemperare a disposizioni comunitarie, violandone contestualmente altre di carattere cogente stabilite dai trattati comunitari a tutela dei diritti dei cittadini.
A) L’Italia ha ceduto all’Unione Europea, secondo l’articolo 11 della Costituzione, l’autorità di creare leggi nelle aree coperte dai Trattati. La Corte di Giustizia sostiene che il diritto dell’UE e le leggi nazionali formano un sistema unico, in cui le leggi dell’UE hanno la precedenza sulle leggi nazionali, che non dovrebbero essere applicate. Tuttavia, per la Corte Costituzionale, i sistemi sono separati ma coordinati; le leggi dell’UE rimangono estranee al sistema delle fonti interne, ma il giudice nazionale, agendo come giudice dell’UE, deve applicare le leggi dell’UE[3] e non applicare la legge interna[4].
B) Le fondamenta del diritto dell’UE sono stabilite dal Trattato sull’Unione Europea (TUE), dal Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) e dalla “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea” (conosciuta come Carta di Nizza). L’articolo 6 del TUE stabilisce che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella “Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”, che ha lo stesso valore legale dei trattati. Prevede inoltre che l’Unione aderisca alla CEDU (Carta Europea dei Diritti dell’Uomo) e che i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione come principi generali.
C) Il diritto europeo “derivato” è costituito dagli atti normativi emessi dagli organi dell’Unione (regolamenti, direttive, decisioni, sentenze). Si aggiunge la soft law: raccomandazioni e pareri. I regolamenti entrano immediatamente in vigore in tutti gli Stati dell’Unione, rendendo non più applicabili le leggi nazionali. Gli Stati non devono e non possono emanare leggi per recepire i regolamenti nell’ordinamento interno, e neppure leggi riproduttive (perché ciò nasconderebbe l’origine delle leggi dall’UE); gli Stati possono emanare leggi di attuazione dei regolamenti, ma solo quando lo prevede la stessa normativa europea.
D) Le direttive vincolano gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere, mentre è lasciata alla discrezionalità dei singoli Stati l’adozione degli strumenti e dei mezzi per raggiungerlo. Tuttavia, se gli Stati non adottano leggi di recepimento, viene riconosciuto alle direttive l’effetto diretto, quando contengono disposizioni precise e incondizionate, la cui applicazione non richiede l’emanazione di ulteriori disposizioni (self executing). Una volta scaduto il termine entro cui gli Stati devono attuare le direttive, le disposizioni precise e incondizionate acquisiscono “efficacia diretta” nell’ordinamento dello Stato inadempiente. L’effetto diretto implica che i singoli acquisiscono diritti che i giudici nazionali devono tutelare, e gli Stati non possono opporsi, invocando leggi nazionali contrarie al diritto comunitario e possono essere applicate senza bisogno di leggi di recepimento.
E) Le decisioni sono atti dell’UE che riguardano casi specifici; sono simili ai provvedimenti amministrativi, hanno effetto diretto e sono obbligatori per i destinatari in esse indicati. Interessano in modo particolare il diritto fiscale le decisioni della Commissione, che ordinano agli Stati di revocare dei benefici fiscali, in quanto aiuti di Stato non compatibili con il TFUE. Anche le sentenze della Corte di giustizia hanno “effetto diretto” negli ordinamenti degli Stati membri. Le raccomandazioni e i pareri (c.d. soft law), invece, non sono vincolanti.
A) Nel diritto internazionale pubblico ci sono norme fiscali che derivano da convenzioni la cui ratifica, secondo l’articolo 80 della Costituzione, deve essere autorizzata con legge. A seguito della legge che autorizza la ratifica, e ne ordina l’esecuzione, le norme delle convenzioni diventano leggi interne. Secondo l’articolo 117, comma 1, della Costituzione, il legislatore deve rispettare i “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Le leggi che non rispettano gli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali, tra cui la CEDU[6], non sono disapplicabili (come accade per le leggi nazionali non compatibili con il diritto dell’UE), ma incostituzionali, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione: le norme internazionali rilevano come norme interposte.
B) Le convenzioni internazionali in materia fiscale riguardano principalmente la doppia imposizione dei redditi, dei patrimoni e delle successioni; riguardano, inoltre, i dazi. Le convenzioni internazionali in materia fiscale prevedono, inoltre, la collaborazione tra autorità fiscali di Stati diversi, la lotta all’evasione e all’elusione fiscale internazionale, ecc. Di regola, le norme delle convenzioni, in quanto norme speciali, prevalgono sulle norme interne: ad esempio, se una convenzione tra l’Italia e un altro Stato prevede che determinati redditi prodotti in Italia da un soggetto residente nell’altro Stato non sono tassabili in Italia, quei redditi non possono essere tassati in Italia, anche se, di regola, i redditi dei non residenti prodotti in Italia sono soggetti alle nostre imposte sul reddito. Tuttavia, nei casi in cui la norma interna è più favorevole di quella del trattato, si applica la norma interna.
B) L’articolo 11, comma 1, delle “preleggi” stabilisce che la legge non ha effetto retroattivo e si applica solo al futuro. La regola generale è quindi la non retroattività. Tuttavia, questa è una regola stabilita da una legge ordinaria, che può essere derogata da altre leggi ordinarie.
D) Una volta individuato il momento in cui inizia l’efficacia di una legge, può sorgere il dubbio su quale sia il trattamento giuridico di fatti o situazioni che si verificano in parte sotto l’effetto di una legge, in parte sotto l’effetto della legge successiva. Ogni legge regola i fatti che si verificano dopo la sua entrata in vigore (e prima della cessazione della sua efficacia). Possono esserci situazioni o eventi che iniziano ma non si concludono sotto l’effetto di una legge, e che non sono regolati né da tale legge, né da quella successiva (non dalla prima, perché incompleti; non dalla seconda, perché già in corso). Nel caso in ispecie sarebbe giusto e doveroso che il giudice tributario condanni l’Agenzia delle Entrate, senza timori riverenziali, al pagamento delle spese di giudizio significativamente per avere coltivato una controversia che l’ha visto soccombente e per la quale aveva preteso le sanzioni in misura non proporzionale, come dimostrato dal fatto che dette sanzioni sono state abolite a far data dal 1° settembre 2024. Inoltre, sarebbe doverosa la condanna per lite temeraria, avendo con l’irretroattività della norma più favorevole violato ben quattro disposizioni normative dui si dirà a breve.
E) Le norme procedurali e processuali sono, di regola, norme ad applicazione immediata, cioè norme che si applicano anche ai procedimenti e ai processi in corso di svolgimento al momento dell’entrata in vigore delle nuove norme, anche se il procedimento o processo riguarda fatti accaduti in precedenza.
F) In caso di overruling – cioè in caso di mutamento giurisprudenziale di un orientamento consolidato – occorre distinguere tra interpretazione di norme sostanziali e di norme processuali. La nuova interpretazione di norme sostanziali vale anche per i fatti pregressi; invece, la nuova interpretazione di norme processuali non può avere effetto su atti compiuti in precedenza, per il principio secondo cui le regole del processo non possono cambiare durante il suo svolgimento (ad esempio, predeterminazione delle regole processuali).
G) Le leggi cessano di essere efficaci quando sono abrogate, quando sono dichiarate incostituzionali, e – in caso di “leggi temporanee” – quando scade il termine previsto. L’abrogazione di una legge può avvenire in tre modi: “per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore” (art. 15 delle “preleggi”). Con l’abrogazione, l’efficacia della legge abrogata cessa ex nunc: essa continua a regolare i fatti avvenuti nell’arco temporale che va dalla sua entrata in vigore (o dal diverso momento in cui inizia la sua efficacia) alla data della sua abrogazione. Una legge tributaria abrogata continua ad essere applicabile ai fatti avvenuti prima dell’abrogazione, e continuano ad essere dovuti i tributi sorti in relazione a presupposti d’imposta avvenuti sotto il suo vigore. Invece, la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne fa cessare l’efficacia ex tunc; dopo la pronuncia della Corte costituzionale, la legge giudicata illegittima è da considerare come mai esistita; tutti gli effetti della legge dichiarata incostituzionale sono da considerare come mai venuti ad esistenza. I tributi riscossi in base a norme dichiarate incostituzionali devono essere rimborsati, se il rimborso non sia impedito, ad esempio, dal fatto che è trascorso il termine per richiederlo o da un provvedimento divenuto definitivo. Infine, le norme nazionali (legislative o regolamentari), pur rimanendo formalmente vigenti, cessano di essere applicabili quando la materia è regolata da norme dell’UE direttamente applicabili o dotate di “effetto diretto”.
H) Come abbiamo già notato, per le disposizioni dello Statuto non vale quanto disposto dall’art. 15 delle “preleggi”, nella parte in cui prevede l’abrogazione “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”; inoltre, l’art. 15 è derogato anche in tema di abrogazione espressa, perché le norme dello Statuto non possono essere abrogate da leggi speciali, ma solo da leggi generali.
I) Le leggi tributarie non possono essere abrogate con referendum (art. 75 Cost.). La giurisprudenza costituzionale adotta in proposito una nozione di tributo particolarmente ampia, comprensiva dei contributi previdenziali; inoltre, tra le leggi tributarie sottratte al referendum, sono comprese non solo le leggi sostanziali (quelle che istituiscono e regolano un tributo), ma anche quelle strumentali (come le norme sulle ritenute e sulla riscossione).
Il quadro normativo appena accennato è stato sconvolto da una riforma che lede principi fondamentali, tra l’altro, introdotti formalmente di recente basti leggere l’incipit dello Statuto del Contribuente dopo la modifica ove si legge: “Le disposizioni della presente legge, in attuazione delle norme della Costituzione, dei principi dell’ordinamento dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario, criteri di interpretazione della legislazione tributaria e si applicano a tutti i soggetti del rapporto tributario. Le medesime disposizioni possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali.
Chiunque legga il disposto che precede prende atto che il legislatore è riuscito in un miracolo: violare con una sola disposizione addirittura ben quattro disposizioni: lo Statuto del Contribuente, la Costituzione, i Principi comunitari e la Convenzione Europea.
L’articolo 5 del progetto di decreto legislativo afferma che le disposizioni degli articoli 2, 3, comma 1, lettere a), b), c), d), e), h), i), l), m), n), e o) e 4, si applicheranno alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore del decreto. Le modifiche discusse finora non avranno quindi effetto sugli atti emessi, ma non ancora definitivi, in deroga al principio del favor rei dell’art. 3, comma 3, D.lgs. n. 472/1997.
Questa scelta si basa sull’idea, espressa anche nella Relazione illustrativa al progetto di decreto, che il principio di retroattività della legge più favorevole avrebbe copertura costituzionale solo per il diritto penale. Infatti, la deroga al favor rei non si applica all’art. 1, che interviene sul D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Questo è possibile grazie agli articoli 3 e 117, comma 1, della Costituzione, che danno valore costituzionale all’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 49, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Non è ovviamente questo il luogo per approfondire la questione dell’estendibilità o meno del principio della necessaria applicazione della lex mitior alle sanzioni tributarie. Queste, come è noto, non possono essere qualificate come non penali nell’ambito della CEDU, a causa della classificazione effettuata dal singolo legislatore nazionale. L’indagine sul carattere di una sanzione deve essere condotta secondo i tre criteri Engel, tenendo conto del suo carattere punitivo, delle finalità di deterrenza e dell’applicabilità alla generalità dei cittadini.
Resta comunque, anche a prescindere dalla costituzionalità, dubbia la scelta fatta, che rende la deroga descritta discriminatoria e inopportuna. Non convincono affatto, in questa prospettiva, le osservazioni contenute nella Relazione illustrativa. Sarebbe quindi “irragionevole applicare anche al sistema precedente norme concepite esclusivamente in vista di un nuovo corso”. Sembra a chi scrive, infatti, che le conclusioni che si traggono dall’argomentazione dell’estensore della relazione dovrebbero essere esattamente opposte a quelle a cui si è ritenuto di arrivare.
La tesi già indicata non regge poi al vaglio dell’obiettivo fondante dell’intervento riformatore, che è il “miglioramento” della proporzionalità tra penalità e gravità dell’illecito. Se si è ritenuto di diminuire la misura edittale delle misure sanzionatorie perché le stesse non erano in linea con quelle di altri Paesi europei allo scopo di dare adeguata attuazione all’anzidetto principio, perché mai tale finalità dovrebbe essere limitata alle condotte future, lasciando quindi consapevolmente in una situazione che non è in linea con il fondamentale principio coloro che l’illecito l’hanno già commesso”
In questa prospettiva, si pone un ulteriore problema, che è quello connesso al fatto che nella legge di delega non esiste alcun appiglio che consenta al delegato di adottare un’opzione di così grande momento. Come può attribuirsi a quest’ultimo, nel silenzio della delega, la facoltà di porre nel nulla uno dei principi che fondano l’ordinamento di settore, quello, come si è ricordato, cristallizzato nel già citato art. 3, comma 3, D.lgs. n. 472/1997″
Infine, non può non apparire evidente che il ripristino del principio di ultrattività delle norme sanzionatorie tributarie confligge, mettendone a rischio il conseguimento, con lo scopo ultimo dell’intera riforma fiscale, che è quello di riguadagnare la fiducia del contribuente. Quest’ultimo, persuaso della recuperata ragionevolezza delle leggi tributarie e del diverso atteggiamento dell’Amministrazione finanziaria nei suoi confronti, sarà più compliant, adempiendo spontaneamente in misura maggiore agli obblighi tributari rispetto a quanto oggi accade.
I commi 2 e 3 dell’art. 3 del D. Lgs. 472/1997 stabiliva le regole per le situazioni in cui cambia nel tempo il quadro normativo che definisce un illecito e una sanzione. Questo può accadere quando una norma sanzionatoria viene abrogata dopo la sua entrata in vigore, o quando viene modificata in modo favorevole o sfavorevole per chi ha commesso l’illecito. In questi casi, si può verificare un’abrogazione dell’illecito o una semplice modifica della sua sanzione.
La norma del decreto legislativo allinea il trattamento dell’illecito tributario amministrativo alla disciplina generale del reato, come previsto dall’articolo 2 del codice penale. Di conseguenza, si applicano i seguenti principi, in linea con il principio generale del favor rei: a) retroattività dell’abrogazione dell’illecito; b) retroattività della norma più favorevole; c) irretroattività della norma più sfavorevole.
Per quanto riguarda il principio a), il comma 2 prevede espressamente che ogni “diversa previsione di legge” è rispettata. Questo significa che le regole e i principi stabiliti da una normativa ordinaria possono essere derogati da un’altra normativa speciale. Inoltre, questa clausola può essere interpretata come un rafforzamento del principio generale secondo cui la norma che prevede l’illecito deve rimanere in vigore fino al momento del suo accertamento e dell’applicazione definitiva della sanzione.
Il problema principale si pone quando l’abolizione dell’illecito avviene dopo che la relativa sanzione è stata già inflitta con provvedimento definitivo. Se l’abolizione avviene prima della conclusione del procedimento relativo all’accertamento dell’illecito e all’applicazione della sanzione, l’organo competente ne prenderà atto e deciderà di non procedere all’applicazione della sanzione per l’abolizione intervenuta dell’illecito. Se invece il procedimento si è già concluso, si possono avere diverse soluzioni. La soluzione scelta dal legislatore delegato è la seguente: si estingue il debito relativo al pagamento della sanzione, ma non si restituiscono le somme eventualmente già versate. Quindi, la definitività del provvedimento di applicazione delle sanzioni non impedisce gli effetti dell’abolizione; l’unico ostacolo è dato dal fatto che non possono essere restituite le somme già versate in esecuzione del medesimo provvedimento.
Nei casi in cui, a seguito di una successione normativa, non si verifica l’abolizione dell’illecito e delle relative sanzioni, ma solo una modifica del trattamento sanzionatorio, il terzo comma dell’art. 3 prevede la retroattività della legge successiva a quella vigente al momento della commissione del fatto illecito se vi è stata una modifica del trattamento sanzionatorio – da applicarsi in concreto – in modo favorevole all’autore; mentre prevede l’irretroattività della legge successiva se essa è intervenuta modificando il trattamento sanzionatorio in modo sfavorevole – sempre in concreto – per l’autore dell’illecito. Questa disciplina, chiaramente orientata al principio generale del “favor rei”, incontra tuttavia un limite preciso e tassativo costituito dalla definitività del provvedimento di irrogazione della sanzione.
Se quindi la legge vigente al momento della commissione dell’illecito viene successivamente modificata, attenuando e rendendo meno gravoso il trattamento sanzionatorio relativo a quell’illecito, non si potrà comunque tener conto di tale modifica “in melius” se nel frattempo (ossia prima dell’entrata in vigore della legge più favorevole) il provvedimento di irrogazione della sanzione è divenuto definitivo; e ciò a prescindere dal fatto che il debito relativo al pagamento della sanzione sia già stato, in tutto o in parte, adempiuto. Come si vede, la disciplina è ben diversa rispetto a quella dell’abolizione dell’illecito, prevista al precedente comma 2 dell’art.3.
Questo comporta l’importanza e l’essenzialità di verificare, nel caso di successione nel tempo di leggi che prevedono illeciti tributari, se si sia verificata una vera e propria abolizione dell’illecito o solo una modifica, a favore dell’autore, del relativo trattamento sanzionatorio.
Il Decreto Legislativo 14 giugno 2024, N. 87, che interviene sulle sanzioni fiscali, prevede l’applicazione di sanzioni più miti solo per le violazioni future, commesse dopo l’entrata in vigore del decreto a far data 1° settembre 2024. Questo approccio richiede un’analisi accurata del fondamento costituzionale del principio del favor rei, tenendo conto delle interpretazioni giurisprudenziali.
Sorprendentemente, il decreto delegato, pur cercando di adeguare le sanzioni fiscali al principio di proporzionalità – un’azione richiesta a livello dell’Unione europea e auspicata dalla Corte Costituzionale stessa – devia dal principio del favor rei. Limita l’applicazione delle sanzioni più miti solo alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle nuove norme, permettendo così la sopravvivenza delle sanzioni più severe (e sproporzionate, secondo la logica della modifica legislativa) per le stesse violazioni commesse in precedenza. Questo comporta una violazione evidente degli articoli 11 e 117 della Costituzione, dato che il principio del favor rei è un diritto fondamentale, esplicitamente codificato dall’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A questo principio non è stato data attuazione, benché presa in considerazione dalla legge delega, generando un vizio di legittimità nel decreto legislativo
Se si parte dal presupposto che il nuovo sistema sanzionatorio che la riforma ha inteso introdurre mira a garantire la sua adeguatezza al principio di proporzionalità sancito dall’art. 49, par. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si può affermare con sicurezza che l’intento del legislatore è quello di allineare il sistema tributario ai principi espressi da fonti superiori del diritto di natura internazionale condivisa.
D’altra parte, questa operazione non è lasciata alla discrezione del legislatore di turno, ma è un’esigenza giuridicamente vincolante di dare attuazione concreta a un principio costituzionale specifico, ovvero quello previsto dall’art. 11 della Costituzione[7].
Se questo è il contesto in cui si colloca la ristrutturazione del sistema sanzionatorio fiscale, crediamo che l’inserimento di una deroga esplicita al principio del favor rei rappresenti una macchia su un’opera che, nel suo complesso, poteva essere lodevole.
Ciò che colpisce di più è la faciloneria dell’iniziativa, perché non sono state considerate le conseguenze giuridiche di una tale scelta.
Il primo problema è il più immediato, è l’eccesso di delega. Infatti, prevedere una deroga a un diritto fondamentale come il principio del favor rei in un decreto delegato, derogando al contenuto della legge delega, può essere facilmente indicato come una previsione che va ben oltre i criteri e le direttive stabilite dalla legge delega. Questa violazione della legge delega oltre a violare la Costituzione impedisce la “razionalizzazione dei sistemi sanzionatori amministrativi, per semplificarli e renderli più coerenti con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, tra cui, in particolare, quelli di predeterminazione e proporzionalità alla gravità delle condotte”.
Nel ricostruire il fondamento costituzionale del principio del favor rei, bisogna fare riferimento all’orientamento della Corte Costituzionale che ha evidenziato che il principio del favor rei ha un duplice fondamento.
Uno, di origine nazionale, da individuare nell’art. 3 della Costituzione (e non nell’art. 25 della Costituzione). Il principio di uguaglianza, infatti, impone, tra le altre cose, di equiparare, per quanto possibile, il trattamento sanzionatorio degli stessi fatti, indipendentemente dal fatto che siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma più favorevole.
· Un altro, di origine internazionale, che ha trovato ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, comma 1 della Costituzione, riconducibile all’art. 7 della CEDU nell’interpretazione che di questa norma ha fatto la giurisprudenza di Strasburgo, e chiaramente individuabile nell’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, norma, questa, rilevante nel nostro ordinamento anche ai sensi dell’art. 11 della Costituzione.
In materia di favor rei per sanzioni amministrative, la Corte Costituzionale[8] ha adottato l’orientamento della Corte di Strasburgo, equiparando queste ultime alle sanzioni penali (considerandole quindi sostanzialmente penali) tutte le volte che esse hanno una natura e una funzione punitiva e non semplicemente riparativa. Secondo la Corte EDU, infatti, per qualificare una sanzione come penale occorre fare riferimento principalmente alla natura e alla gravità della sanzione, dove per natura si intende l’attitudine punitiva della stessa, e per gravità si intende il massimo edittale di una sanzione pecuniaria. E qui, il fatto stesso che le sanzioni fiscali siano sproporzionate e che ne sia stata mitigata la misura dal legislatore riformatore proprio in quest’ottica, mi sembra che la gravità delle sanzioni previste in precedenza sia praticamente evidente. “CEDU favor rei” sembra riferirsi al principio del “favor rei”, che è un principio fondamentale nel diritto penale. Secondo questo principio, se la legge in vigore al momento della violazione e le leggi successive stabiliscono sanzioni diverse (o prevedono che la fattispecie non è più punibile), si applica la norma più favorevole, salvo che il provvedimento di irrogazione sia divenuto definitivo
L’articolo 7 del CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) è spesso citato in relazione a questo principio. Questo articolo introduce un principio fondamentale: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile” (favor rei).
Inoltre, la Corte costituzionale italiana ha segnato un nuovo orientamento per il quale la legge mitior, prevista dall’art. 2 c.p., si applica anche alle sanzioni amministrative [9]. Questo principio è stato esteso dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo fino a farvi ricomprendere anche la retroattività favorevole.
Con questi elementi e con quest’orientamento già espresso dalla Corte Costituzionale in materia, credo che si possa affermare l’incostituzionalità della previsione di deroga al favor rei, dato che, per la stessa Corte Costituzionale, la possibilità di derogare al principio del favor rei è suscettibile di esame di compatibilità costituzionale, considerando che, legittimamente, esso “può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo […]. Con la conseguenza che l’esame di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al reo deve superare un esame positivo di ragionevolezza, non essendo sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole” (Corte Cost., sentenza 393 del 2006).
In definitiva la norma finirebbe davanti alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia UE, ma potrebbe anche essere semplicemente essere disapplicata dal giudice nazionale una volta riscontrato il contrasto con il diritto sancito dall’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Le conseguenze giuridiche delle scelte disinvolte del legislatore porterebbero in estrema sintesi alle seguenti conseguenze senz’altro dirompenti:
1. Eccesso di delega: Se la deroga al principio del favor rei è stata introdotta senza alcuna menzione nella legge delega, saremo in presenza di un eccesso di delega, che porterebbe a una sfida legale sulla validità del decreto delegato stesso.
2. Violazione dei diritti fondamentali: Il principio del favor rei è un diritto fondamentale, esplicitamente codificato nell’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Una deroga a questo principio potrebbe essere vista come una violazione di questo diritto fondamentale, portando a possibili sfide legali.
3. Incostituzionalità: Se la deroga è in contrasto con gli articoli 11 e 117 della Costituzione, potrebbe essere dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Questo potrebbe portare all’annullamento della deroga e potenzialmente all’intera legge o decreto.
4. Disapplicazione da parte del giudice nazionale: Se un giudice nazionale rileva un contrasto tra la deroga e il diritto sancito dall’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, potrebbe semplicemente disapplicare la norma nel caso specifico.
5. Ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea: Se la deroga fosse in contrasto con i diritti fondamentali dell’Unione europea, potrebbe essere portata davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Questo potrebbe portare a una sentenza che obbliga lo Stato a modificare la legge o il decreto per renderlo conforme al diritto dell’Unione.
Queste sono solo alcune delle possibili conseguenze giuridiche. La situazione specifica potrebbe variare a seconda dei dettagli del caso e dell’interpretazione delle leggi e dei diritti applicabili.
Gli argomenti contro questa deroga al principio del favor rei nel contesto delle sanzioni tributarie possono essere vari.
Problemi di proporzionalità: L’applicazione di sanzioni più severe per le violazioni commesse in passato potrebbe essere vista come sproporzionata, soprattutto se le nuove sanzioni sono state introdotte per rispondere meglio al principio di proporzionalità.
Gli effetti pratici di questa deroga sui contribuenti potrebbero essere ulteriori e valutabili caso per caso.
1. Maggiori sanzioni per violazioni passate: I contribuenti che hanno commesso violazioni prima dell’entrata in vigore del decreto potrebbero dover affrontare sanzioni più severe rispetto a quelle previste dalle nuove norme. Questo potrebbe comportare un onere finanziario significativo.
2. Incertezza legale: La deroga potrebbe creare incertezza legale per i contribuenti. Se la deroga contestasse in tribunale, i contribuenti potrebbero dover attendere una decisione giudiziaria prima di sapere quali sanzioni dovranno affrontare.
3. Differenze nel trattamento delle violazioni: I contribuenti che hanno commesso violazioni simili potrebbero essere soggetti a sanzioni diverse a seconda del momento in cui la violazione è stata commessa. Questo potrebbe essere visto come ingiusto.
4. Possibili sfide legali: I contribuenti che ritengono di essere stati trattati ingiustamente a causa della deroga potrebbero decidere di impugnare le sanzioni in tribunale. Questo potrebbe comportare ulteriori costi legali e un uso significativo del tempo.
5. Impatto sulla conformità futura: La deroga potrebbe avere un impatto sulla volontà dei contribuenti di conformarsi alle leggi fiscali in futuro. Se i contribuenti ritengono che il sistema sia ingiusto, potrebbero essere meno propensi a rispettare le regole.
Questi sono solo alcuni possibili effetti.
Il principio di proporzionalità è un concetto fondamentale nel diritto tributario. Esso prescrive che ci debba essere una proporzione tra la gravità della violazione e la sanzione che l’ordinamento impone come risposta a tale comportamento. In altre parole, la risposta sanzionatoria deve essere graduata in base al tipo di danno causato all’ordinamento dalla violazione commessa.
Inoltre, il principio di proporzionalità implica che l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo, non eccedente rispetto ai fini perseguiti e non limitare i diritti dei contribuenti oltre quanto strettamente necessario al raggiungimento del proprio obiettivo. Questo principio si applica anche alle misure di contrasto dell’elusione e dell’evasione fiscale e alle sanzioni tributarie.
La giurisprudenza europea ha riconosciuto che il principio di proporzionalità riveste un ruolo rilevante nel settore tributario, in quanto si tratta di un criterio essenziale per garantire che il perseguimento degli obiettivi di diritto interno produca il minor sacrificio possibile rispetto alle finalità europee.
Il principio di proporzionalità è un concetto fondamentale nel diritto dell’Unione Europea e viene applicato in vari settori, tra cui il diritto tributario. La sua interpretazione può variare tra i diversi paesi europei, ma ci sono alcuni temi comuni che emergono dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
1. Applicazione del principio: Il principio di proporzionalità viene utilizzato come parametro per verificare la legittimità di un atto di diritto derivato o di una sanzione comminata agli Stati membri o a persone fisiche e giuridiche comunitarie.
2. Proporzionalità e sanzioni: Il principio di proporzionalità richiede che ci sia un equilibrio tra la gravità della violazione e la severità della sanzione imposta. Questo principio è stato applicato in vari casi riguardanti le sanzioni tributarie.
3. Proporzionalità e diritti fondamentali: Il principio di proporzionalità è anche strettamente legato alla protezione dei diritti fondamentali. Ad esempio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il principio di proporzionalità impone che le sanzioni non siano sproporzionate rispetto alla gravità della violazione commessa.
4. Proporzionalità e normativa nazionale: La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che il principio di proporzionalità si impone agli Stati membri nell’attuazione del diritto dell’Unione, anche in assenza di armonizzazione della normativa dell’Unione nel settore delle sanzioni applicabili.
Questi sono solo alcuni esempi di come il principio di proporzionalità viene interpretato nel diritto tributario in Europa.
Il principio del favor rei è un diritto fondamentale, esplicitamente codificato dall’art. 49, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
Il principio del “favor rei” è un concetto fondamentale nel diritto penale che sostiene che, in caso di dubbio o incertezza, la decisione dovrebbe essere presa a favore dell’imputato. Questo principio si estende anche alla “irretroattività del favor rei”, che sostiene che se una legge successiva rende un certo comportamento non più punibile o meno severamente punito, questa legge dovrebbe essere applicata retroattivamente, a beneficio dell’imputato.
Questo articolo stabilisce che nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Inoltre, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.
Nel contesto del diritto tributario, il principio del “favor rei” può avere un impatto significativo. Ad esempio, se un contribuente ha commesso una violazione fiscale e successivamente la legge cambia rendendo quella violazione meno severamente punita, allora la nuova legge dovrebbe essere applicata retroattivamente al caso di quel contribuente. Questo può avere un impatto significativo sulle sanzioni fiscali e può influenzare le decisioni dei contribuenti.
Tuttavia, l’applicazione del principio del “favor rei” nel diritto tributario può variare a seconda delle specifiche circostanze del caso e delle interpretazioni delle leggi e dei diritti applicabili. L’articolo 5 del decreto stabilisce che le disposizioni si applicano alle violazioni commesse dopo la data di entrata in vigore del decreto. Questo significa che le modifiche non avranno effetto sugli atti emessi ma non ancora definitivi.
Il testo poi discute il principio del “favor rei”, che sostiene che se le leggi al momento della violazione e le leggi successive stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole, a meno che la sanzione non sia diventata definitiva. Tuttavia, il decreto propone una deroga a questo principio.
La deroga si basa sull’idea che il principio di retroattività della legge più favorevole avrebbe copertura costituzionale solo per il diritto penale. Questo è supportato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il testo solleva dubbi sulla costituzionalità di questa scelta, sostenendo che è discriminatoria e inopportuna. Inoltre, mette in discussione l’obiettivo dell’intervento riformatore, che è il “miglioramento” della proporzionalità tra penalità e gravità dell’illecito.
. L’irretroattività della disposizione del favor rei merita doverosamente di essere impugnata, come abbiamo già, indicato nel corso di questo scritto in ordine sparso per almeno due motivi:
1. Fondamentalmente per una questione etica, per ribadire che i contribuenti di questo Paese o addirittura della Comunità Europea non sono sudditi, ma cittadini ai quali sia pure nei limiti stabiliti dalla Costituzione appartiene la sovranità;
2. Per il ripristino della legalità gravemente lesa in materia di tutela dei diritti individuali anche in forma risarcitoria:
a. È stata violata la legge delega che prevedeva il favor rei di cui il governo in sede di redazione del decreto delegato ha deciso di fare scempio;
b. La Costituzione che ha fatto, in materia, sempre proprio il principio del favor rei sostenuto senza esitazione dalla Corte di Strasburgo;
c. Le sentenze della Corte di giustizia Europea che con giurisprudenza unanime hanno sempre difeso il principio del favor rei;
d. Il principio della Corte di Giustizia Europea può essere applicato senza necessita di sollevare il problema della legittimità costituzione, in forza del principio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno;
e. L’obbligo della Corte di Giustizia Tributaria di condannare alle spese l’Agenzia delle Entrate per avere sostenuto l’assunto della irretroattività del favor rei in violazioni di norme interne e internazionali;
f. L’obbligo della Corte di Giustizia Tributaria a condannare l’Agenzia delle Entrate per lite temeraria, spianando la via all’azione risarcitoria innanzi il giudice ordinario.
] Ecco un elenco di alcune delle principali sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) che trattano il principio del favor rei nelle sanzioni tributarie:
1. Causa C-205/20: La Corte ha stabilito che le sanzioni sproporzionate, già ritenute di carattere penale, violano l’articolo 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.
2. Causa C-482/18, Google: Questa sentenza ha affrontato la compatibilità comunitaria della normativa nazionale di repressione delle violazioni tributarie alla luce delle libertà fondamentali, verificando la proporzionalità delle sanzioni amministrative tributarie.
3. Causa C-189/02, Gdansk Rørindustri
4. Causa C-387/02, Berlusconi e altri
5. Causa C-420/06, Jager
Queste sentenze evidenziano come la CGUE abbia costantemente applicato il principio del favor rei per garantire che le sanzioni siano giuste e proporzionate, proteggendo così i diritti dei contribuenti.
) Sanzioni tributarie sproporzionate, il Giudice ha il potere di disapplicarle. La compatibilità europea degli ordinamenti sanzionatori nazionali alla luce del principio di proporzionalità : Sentenza Cassazione Civile n. 7301 del 16/03/2021
La sentenza C-189/02 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) riguarda un caso di concorrenza che coinvolge diverse aziende nel settore delle tubazioni per il riscaldamento. La Corte ha affrontato vari aspetti legati alle sanzioni imposte dalla Commissione Europea per pratiche anticoncorrenziali.
Punti Chiave della Sentenza
1. Non Retroattività delle Linee Guida: La Corte ha stabilito che le linee guida della Commissione Europea sulla determinazione delle sanzioni non possono essere applicate retroattivamente. Questo significa che le aziende non possono essere sanzionate in base a regole che non erano in vigore al momento della violazione.
2. Legittime Aspettative: La sentenza ha riconosciuto il principio delle legittime aspettative, affermando che le aziende devono poter fare affidamento sulla stabilità delle norme vigenti al momento della loro condotta.
3. Proporzionalità delle Sanzioni: La Corte ha ribadito l’importanza del principio di proporzionalità, affermando che le sanzioni devono essere proporzionate alla gravità della violazione e non devono eccedere quanto necessario per raggiungere gli obiettivi di deterrenza e punizione.
La sentenza C-205/20 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) riguarda l’applicazione del principio del favor rei in materia di sanzioni amministrative. La Corte ha stabilito che le norme più favorevoli devono essere applicate retroattivamente, anche nel caso delle sanzioni amministrative.
Punti Chiave della Sentenza
1. Effetto Diretto: La Corte ha confermato che le disposizioni del diritto dell’Unione Europea che prevedono sanzioni meno severe hanno effetto diretto e devono essere applicate dagli Stati membri anche retroattivamente
2. 3. Applicazione Retroattiva: La Corte ha sottolineato che, in caso di successione di norme nel tempo, deve essere applicata la legge più favorevole al contribuente, in linea con il principio del favor rei
La sentenza Scoppola c. Italia (n. 2) della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito un importante principio riguardante l’applicazione retroattiva delle leggi penali più favorevoli, noto come favor rei. Sebbene il caso specifico riguardasse una condanna penale, i principi enunciati possono essere applicati anche alle sanzioni tributarie.
Punti Chiave della Sentenza
1. Retroattività delle Leggi Più Favorevoli: La Corte ha stabilito che, in base all’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, le leggi penali più favorevoli devono essere applicate retroattivamente. Questo significa che se una nuova legge prevede una sanzione meno severa rispetto a quella in vigore al momento della violazione, deve essere applicata la sanzione più favorevole.
2. Proporzionalità delle Sanzioni: La sentenza ha ribadito l’importanza del principio di proporzionalità, affermando che le sanzioni devono essere proporzionate alla gravità della violazione e non devono eccedere quanto necessario per raggiungere gli obiettivi di deterrenza e punizione.
3. Tutela dei Diritti del Contribuente: Sebbene il caso riguardasse una condanna penale, i principi enunciati dalla Corte possono essere applicati anche alle sanzioni tributarie, garantendo che i diritti dei contribuenti siano tutelati e che le sanzioni siano giuste e proporzionate
] La sentenza Del Río Prada c. Spagna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito un importante principio riguardante l’applicazione retroattiva delle leggi penali più favorevoli, noto come favor rei. Sebbene il caso specifico riguardasse una condanna penale, i principi enunciati possono essere applicati anche alle sanzioni tributarie.
Punti Chiave della Sentenza
1. Retroattività delle Leggi Più Favorevoli: La Corte ha stabilito che, in base all’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, le leggi penali più favorevoli devono essere applicate retroattivamente. Questo significa che se una nuova legge prevede una sanzione meno severa rispetto a quella in vigore al momento della violazione, deve essere applicata la sanzione più favorevole.
2. Proporzionalità delle Sanzioni: La sentenza ha ribadito l’importanza del principio di proporzionalità, affermando che le sanzioni devono essere proporzionate alla gravità della violazione e non devono eccedere quanto necessario per raggiungere gli obiettivi di deterrenza e punizione
) La sentenza n. 171/2017 della Corte Costituzionale italiana ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Genova. La questione riguardava l’articolo 8, secondo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, che limita il cumulo giuridico delle sanzioni alle sole violazioni di leggi in materia di previdenza e assistenza obbligatorie.
Punti Chiave della Sentenza
1. Inammissibilità della Questione: La Corte ha dichiarato inammissibile la questione perché non rilevante nel giudizio a quo. Il Tribunale di Genova aveva sollevato la questione in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, ma la Corte ha ritenuto che la questione non fosse pertinente al caso specifico.
2. Discrezionalità del Legislatore: La Corte ha sottolineato che la configurazione del trattamento sanzionatorio per il concorso tra plurime violazioni rientra nella discrezionalità del legislatore. Non esistono soluzioni costituzionalmente obbligate che impongano un’estensione del cumulo giuridico delle sanzioni ad altre violazioni amministrative.
[8]La sentenza n. 223/2012 della Corte Costituzionale italiana ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 2010, n. 122. Queste disposizioni riguardavano misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica.
Punti Chiave della Sentenza
Proporzionalità delle Sanzioni: La Corte ha ribadito che le sanzioni devono essere proporzionate alla gravità dell’illecito commesso. Le norme che prevedevano sanzioni eccessive sono state dichiarate illegittime
[9] La sentenza n. 280/2005 della Corte Costituzionale italiana ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come modificato dal D.lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevede un termine di decadenza per la notifica della cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell’articolo 36-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600
Punti Chiave della Sentenza
1. Diritto di Difesa: La Corte ha stabilito che l’assenza di un termine di decadenza per la notifica della cartella di pagamento viola il diritto di difesa del contribuente. Senza un termine certo, il contribuente potrebbe essere soggetto all’azione esecutiva del fisco per un periodo di tempo indefinito, il che è irragionevole e lesivo dei suoi diritti.
2. Principio di Proporzionalità: La sentenza ha sottolineato che le sanzioni devono essere proporzionate e che la mancanza di un termine di decadenza rende la disciplina irragionevole
Niente bonus prima casa per il fabbricato collabente
L’immobile in categoria catastale F2 non è idoneo a soddisfare le esigenze abitative
L’acquisto di un fabbricato collabente classificato nella categoria catastale F2 non permette l’accesso alle agevolazioni prima casa in quanto lo stato di degrado che lo caratterizza è tale da non poter essere abitato o utilizzato. È questo il principio di diritto contenuto nella sentenza della Cgt Veneto.
Niente autorizzazione per le opere edilizie stagionali (a certe condizioni)
Non ci deve essere muratura, bisogna rispettare i requisiti generali e l’utilizzo annuale richiede una comunicazione di inizio attività, precisa il Tar Campania
Le opere edili stagionali devono essere prive di muratura per garantire una rimozione e reinstallazione; e se rispettano i requisiti generali non hanno bisogno di autorizzazione.
Inoltre, in materia edilizia, il carattere stagionale «non significa assoluta precarietà dell’opera», bensì «utilizzo annualmente ricorrente della struttura» che deve avvenire dietro comunicazione dell’avvio di attività. Con queste motivazioni il Tar della Campania, con la sentenza numero 4036/2024 ha accolto il ricorso .
L’obbligo di mantenimento non viene meno con la detenzione carceraria
Lo stato di detenzione non rappresenta una causa di forza maggiore che consente di non corrispondere gli alimenti al coniuge. Si tratta, infatti, di una situazione addebitabile completamente all’imputato che comunque non si è dato nemmeno da fare per poter svolgere lavori socialmente utili e corrispondere con regolarità gli alimenti. Lo precisa la Cassazione con l’ordinanza n. 12478/24.
Case in riva al mare, sanatorie legittime: ricorso contro norma regionale abbattimenti
A sollevare la questione una donna di Sciacca con il ricorso ai giudici di appello del Cga volto a chiedere l’annullamento di un provvedimento del Comune
Finisce davanti alla Corte Costituzionale, dopo ben 30 anni, la legge che ha esteso il vincolo di inedificabilità a tutte le case costruite sulla spiaggia ed entro i 150 metri dal mare. Tacciata di essere una sanatoria a tutti gli effetti, per chi la propone la norma serve solo a mettere ordine e sanare una ingiustizia commessa da una legge regionale che adesso finisce nel mirino dei giudici di legittimità.
Il ricorso
E’ stata una donna di Sciacca a presentare ricorso ai giudici di appello del Cga che per chiedere l’annullamento di un provvedimento del Comune che ha respinto il condono su una costruzione realizzata nel 1982 nella fascia dei 150 metri. Adesso, a pronunciarsi sulla legge regionale del 1991 che ha esteso retroattivamente l’applicazione del vincolo di inedificabilità delle abitazioni nei 150 metri dalla costa, sarà la Corte costituzionale.
Una decisione che, dagli uffici preposti arriva a 30 anni di distanza dalla presentazione della domanda, sostenendo l’insanabilità dell’immobile ai sensi dell’articolo 15 della legge regionale 78/76, trattandosi di opere realizzate dopo il 31/12/76 entro la fascia di rispetto di 150 mt dalla battigia. La proprietaria dell’immobile ha iniziato una battaglia legale assistita dagli avvocati Girolamo Rubino e Calogero Marino.
Provvedimento illeggittimo
Provvedimento ritenuto illeggittimo dai legali che hanno invocato l’applicabilità al caso in esame del limite dei 100 metri posto che l’immobile si trova entro i 150 metri ma comunque distante più di 100 metri dalla costa e non già dei limite dei 150 metri di cui alla legge regionale 78/76. Inoltre gli avvocati Rubino e Marino prospettavano anche la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge regionale 15/91. Articolo che, con effetto retroattivo, ha ritenuto applicabile il vincolo dei 150 metri introdotto dalla legge regionale 78/76 già a partire dall’entrata in vigore di quest’ultima norma.
“Il Cga – dicono i legali – ritenendo meritevole di approfondimento le incostituzionalità sollevate circa l’applicazione retroattiva del vincolo dei 150 metri, con sentenza non definitiva ha preannunciato la proposizione alla Corte Costituzionale dell’incidente di costituzionalità dell’articolo 2, comma 3, della legge regionale 15 del 1991 e, in subordine, dell’articolo 23 della legge regionale 37 del 1985”.
La corte costituzionale si pronuncerà sulla legge regionale del 1991 che ha esteso retroattivamente l’applicazione del vincolo di inedificabilità delle abitazioni nei 150 metri dalla costa. E’ stata una donna di Sciacca che ha presentato un ricorso ai giudici di appello del Cga che per chiedere l’annullamento di un provvedimento del Comune che ha respinto il condono su una costruzione realizzata nel 1982 nella fascia dei 150 metri.
La decisione degli uffici è arrivata a 30 anni di distanza dalla presentazione della domanda sostenendo l’insanabilità dell’immobile ai sensi dell’articolo 15 della legge regionale 78/76, trattandosi di opere realizzate dopo il 31/12/76 entro la fascia di rispetto di 150 mt dalla battigia. La proprietaria dell’immobile ha iniziato una battaglia legale assistita dagli avvocati Girolamo Rubino e Calogero Marino.
I legali hanno sostenuto l’illegittimità del provvedimento, invocando l’applicabilità al caso in esame del limite dei 100 metri di cui al previgente Piano Comprensoriale 6 (posto che l’immobile si trova entro i 150 metri ma comunque distante più di 100 metri dalla costa) e non già dei limite dei 150 metri di cui alla legge regionale 78/76. Inoltre gli avvocati Rubino e Marino prospettavano anche la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge regionale 15/91 che, con effetto retroattivo, ha ritenuto applicabile il vincolo dei 150 metri introdotto dalla legge regionale 78/76 già a partire dall’entrata in vigore di quest’ultima norma.
“Il Cga – dicono i legali – ritenendo meritevole di approfondimento le incostituzionalità sollevate circa l’applicazione retroattiva del vincolo dei 150 metri, con sentenza non definitiva ha preannunciato la proposizione alla Corte Costituzionale dell’incidente di costituzionalità dell’articolo 2, comma 3, della legge regionale 15 del 1991 e, in subordine, dell’articolo 23 della legge regionale 37 del 1985”.
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Volontariato. Bando Fondazione con il Sud
Gli enti avranno la possibilità di sviluppare proposte per il miglioramento delle proprie comunità attraverso la mobilitazione dei giovani.
Bambinə Rom, Sinti e Caminanti
Avviso pubblico per la presentazione di progetti mirati all’inclusione e all’integrazione
Assunzioni a UniRomaTre
Due bandi di concorso per 18 posti, in vari ambiti, rivolti a diplomatə e laureatə.
Tirocinio all’Ufficio UE per la proprietà intellettuale
Per laureatə da svolgere presso le sedi di diverse città Europee.
Concorso per allievə nella Guardia di Finanza
Per 16 posizioni nell’ambito Logistico Amministrativo
33 posti per assistenti con disabilità
Concorso del Ministero della Giustizia per l’impiego in diverse città Italiane
Associazione a delinquere se si creano bottiglie di falso vino pregiato
di Paola Rossi
Scatta l’associazione per delinquere se più persone organizzate con compiti diversi contribuiscono alla ralizzazione, commercializzazione o anche alla messa in vendita di vino contraffatto. Inoltre, la falsa identificazione del vino come Doc o Docg e l’uso del marchio protetto di vini pregiati comporta la violazione di plurime norme penali codicistiche e di quelle legislative speciali contro la sofisticazione di questo prodotto alimentare.
La Corte di cassazione – con la sentenza n. 13767/2024 – ha confermato per il ricorrente la condanna per assosciazione a deliquere in quanto aveva partecipato alla finalità illecita dell’organizzazione impegnandosi a reperire e a usare falsamente le fascette di garanzia del vino apposte sulle bottiglie col fine di ingannare i potenziali acquirenti sulla genuina provenienza e qualità del prodotto.
La Cassazione conferma la condanna anche dove il ricorrente aveva contestato l’imputazione per i reati previsti dagli articoli 473 e 517 ter del Codice penale che egli voleva far ritenere in rapporto di specialità e, di conseguenza, non contestabili entrambi separatamente. Le condotte di falsificazione del marchio e di falsa identificazione del vino, con utilizzo di segni distintivi e di cosiddette impronte ammnistrative, a tutela della genuinità del prodotto costituiscono i presupposti per l’applicazione di entrambe le fattispecie.
Infatti, non è solo la proprietà industriale a essere stata violata e punita, ma correttamente anche l’uso infedele di segni di stintivi del vino e della certificazione amministrativa relativa. Concorrono, quindi, per le etichette e i marchi indebitamente utilizzati nella vicenda di sofisticazione, i reati di “introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi” (articolo 474 Cp), di “contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni” (articolo 473 Cp) e di “contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazione o certificazione” (articolo 469 Cp).
Il danno da demansionamento del lavoratore può essere provato anche per presunzioni
Inquadramento del lavoratore – Demansionamento – Prova attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti – Ammissibilità – Sussistenza.
La prova del danno da demansionamento può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità .
Bonus edilizi, dallo stop rapido al rifiuto successivo: tutte le strade per annullare le cessioni
La circolare 6/E ha consentito di cancellare gli effetti di trasferimenti di crediti già accettati. Nel corso degli anni dall’agenzia delle Entrate sono arrivati molti strumenti per tornare sui propri passi
di Luca De Stefani
Il rifiuto della cessione di crediti effettuata nella piattaforma, previsto dalla circolare 6/E/2024, si aggiunge a molte altre possibilità di ripensamento per cedente e cessionario. La comunicazione di opzione di cessione di un credito generato da un bonus edile o di sconto in fattura, inviata alle Entrate, può essere annullata entro il quinto giorno del mese successivo a quello di invio.
Terzo condono edilizio in area vincolata: quando è ammissibile?
Le condizioni previste dalla legge n. 326/2003 sono più stringenti rispetto a quanto stabilito dalla precedente normativa in materia.
Ottenere il condono edilizio in caso di abusi edilizi commessi in area vincolata non è sicuramente cosa semplice e, oltre alla consistenza degli interventi, a rilevare sono la data di apposizione del vincolo e quella di ultimazione dei lavori.
Questo perché l’evoluzione della normativa condonistica ha imposto nel tempo dei limiti più stringenti, rendendo la sanatoria più complicata per edifici in area assoggettata a vincoli paesaggistici, che siano di natura relativa o assoluta, o in un’area in cui vige il divieto, anche solo relativo, di poter edificare.
A ribadirlo è il Consiglio di Stato con la sentenza n. 1707 del 20 febbraio 2024, che ha disposto l’inammissibilità del ricorso proposto contro il preavviso di rigetto dell’istanza di condono edilizio ai sensi della legge n. 326/2003, in riferimento ad un immobile residenziale costruito senza titoli in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico e idrogeologico.
Come ricordano i giudici di Palazzo Spada, il c.d. “terzo condono edilizio”, con l’art. 32, comma 27, del D.L. n. 269/2003, convertito con legge n. 326/2003, prevede disposizioni molto più restrittive rispetto a quelle previste dal primo condono (Legge n. 47/1985) e dal secondo condono (Legge n. 724/1994).
Nel dettaglio la norma: vieta, comunque, la sanatoria, per quelle opere che “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”;
esclude la possibilità di sanatoria per le opere abusive di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’allegato 1 alla legge, ossia le nuove costruzioni realizzate su aree soggette a vincoli paesaggistici, qualora non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, a prescindere dal se questi ultimi contengano vincoli di inedificabilità assoluta o relativa;
ammette la sanatoria solo in caso di interventi minori, rientranti nelle categorie di “restauro e risanamento conservativo” o di “manutenzione straordinaria”, in base alle categorie di interventi di cui all’art 3 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).
La sanatoria è ammessa per opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Affinché gli abusi siano sanabili, è comunque fondamentale che gli interventi siano stati conseguiti in riferimento a fabbricati già esistenti, e che risultino rispettate le norme urbanistiche e le prescrizioni degli strumenti urbanistici e si tratti di interventi minori, rientranti nelle categorie di “restauro e risanamento conservativo” o di “manutenzione straordinaria”, in base alle categorie di interventi di cui all’art 3 del d.P.R n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).
Viceversa, non possono essere sanate le opere che hanno comportato la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, o comunque di inedificabilità
La normativa relativa al terzo condono, in particolare all’art. 32 (“Misure di repressione dell’abusivismo”), prevede quindi la totale impossibilità di rilascio del titolo in sanatoria per gli abusi edilizi realizzati in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, se sussistono congiuntamente due condizioni:
il vincolo di inedificabilità è stato imposto in data antecedente alla realizzazione degli abusi;
le opere sono state conseguite senza permessi o in difformità dagli stessi, e non risultano conformi ai regolamenti urbanistici.
Il Consiglio sottolinea che, in presenza di tali violazioni, l’abuso non potrebbe beneficiare del condono edilizio neanche se l’Autorità preposta alla tutela del vincolo dovesse dare parere positivo al rilascio.
Nel caso in esame, l’unità abitativa è stata costruita senza il permesso di costruire, senza il rispetto dei regolamenti urbanistici e all’interno di un’area sottoposta non solo a vincolo paesaggistico, ma anche sottoposto a tutela per rischio idrogeologico.
In riferimento al vincolo paesaggistico esistente sull’immobile, peraltro, è del tutto irrilevante il fatto che il vincolo di inedificabilità abbia carattere assoluto oppure relativo, e non risulta applicabile neanche la procedura di sanatoria mediante rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del d.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), perché le opere abusive insistono all’interno di un’area in cui, in base ad apposita legge regionale, non possono essere conseguite opere di modifica dell’assetto urbanistico-edilizio esistente mediante la realizzazione di nuovi volumi e superfici. Il ricorso è stato dunque respinto.
Condono, agli edifici rurali non si possono applicare le regole dettate per le case
Il Tar Campania accoglie il ricorso del proprietario contro il Comune. In questi casi si possono considerare ultimati anche gli immobili non rifiniti
di Davide Madeddu
Nel caso di istanze di condono per fabbricati rurali non può applicarsi la disciplina che riguarda gli immobili a uso residenziale che (ai fini del condono) impone l’obbligo del completamento funzionale. Con questa motivazione il Tar della Campania (sezione staccata di Salerno), con la sentenza n.236/2024 ha accolto il ricorso di una persona contro il Comune di Positano che aveva respinto due istanze di condono e due istanze di accertamento di compatibilità paesaggistica e ordinato la demolizione.
Nuovo condono edilizio, potrebbe essere nel 2024
Le ultime notizie dalla politica ci prospettano un possibile nuovo condono edilizio per il 2024. Non esiste ancora alcuna certezza in merito, ma si parla sempre più insistentemente della possibilità per i contribuenti di sanare alcuni abusi edilizi minori anteriori al 1977, individuati dal D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia).
L’abusivismo edilizio in Italia è un problema piuttosto diffuso, concentrato principalmente al meridione e lungo le zone costiere. Nel periodo che va dal 2004 al 2022, nelle regioni più a rischio – Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio – le demolizioni messe in atto hanno riguardato circa il 15% degli immobili abusivi per cui è stato ordinato l’abbattimento (in totale più di 70.000), cioè solo il 24,5% del totale. I dati giungono dal terzo report di Legambiente sull’abusivismo edilizio.
Vediamo quindi nel dettaglio cosa sono i condoni edilizi e cosa dovrebbe prevedere la nuova sanatoria. Condono o sanatoria?
Cosa si intende precisamente per abuso edilizio? In poche parole, si ha un abuso edilizio quando si interviene su un immobile o si effettuano dei nuovi lavori edilizi senza ottenere prima il permesso di costruire.
In un’eventualità del genere bisogna riparare l’errore assicurando la conformità dell’edificio rispetto a quanto dichiarato. La legislazione italiana offre ai cittadini due possibili soluzioni: la sanatoria e il condono. Cosa differenzia queste opzioni?
Nel caso della sanatoria, si tratta del pagamento di una sanzione: una volta riscossa la somma, il cittadino è in grado di rimuovere le irregolarità rispetto alla normativa in vigore.
Il condono edilizio è, invece, più complesso da ottenere perché dipende da una concessione del Parlamento che, mediante una legge apposita e con delle tempistiche limitate, permette di sanare gli abusi edilizi.
Ma cosa può essere sanato? Non a tutte le difformità edilizie si possono applicare questi due iter di riparazione dell’illecito. Esistono, infatti, anche degli abusi edilizi non sanabili, che non possono essere messi in regola in alcun modo, neanche dietro pagamento di una sanzione amministrativa. L’unica procedura permessa in tali casi è la demolizione: gli immobili edificati in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, per esempio, devono essere necessariamente smantellati.
La proposta di Salvini sul condono edilizio
La proposta di questo nuovo condono per gli abusi edilizi, teoricamente previsto per il 2024, è stata messa in campo dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini. Il ministro ha infatti parlato dell’esistenza di migliaia di violazioni urbanistiche e architettoniche minori, che potrebbero essere regolarizzate portando diversi benefici allo stato italiano.
Salvini ha tenuto a precisare che il condono non riguarderebbe indistintamente tutti gli edifici non conformi alla normativa vigente. Se la misura fosse approvata e trasformata in legge, tramite il “Decreto Anticipi”, porterebbe ad una sanatoria automatica di alcuni abusi estremamente specifici. In primo luogo, le irregolarità posteriori alla data del 30 gennaio 1977 non sarebbero coinvolte in questo ipotetico condono. Inoltre, il ministro ha ribadito che la regolarizzazione non si applicherebbe a ville, abitazioni in aree sismiche o edifici sulle spiagge.
In sostanza, l’intervento sanatorio coinvolgerebbe solamente “irregolarità non essenziali” e lascerebbe fuori tutte le violazioni edilizie nelle zone a rischio idrogeologico.
Il blocco delle opposizioni e di alcuni partiti di maggioranza
La proposta ha suscitato moltissime critiche e polemiche, sia all’interno della stessa maggioranza di governo che tra le opposizioni politiche. Nell’acceso dibattito che è scaturito in seguito alle dichiarazioni di Salvini, è emersa l’opinione di molti commentatori secondo cui la misura non avrebbe alcuna utilità pubblica, se non quella di agevolare chi commette abusi edilizi contravvenendo alle norme.
D’altra parte, un altro gruppo di politici sostiene che simili condoni fiscali, se limitati a difformità minime, siano in realtà un beneficio per le finanze statali. Alcuni membri dell’opposizione, hanno invece definito la proposta del ministro “criminogena”. Anche diversi rappresentanti della maggioranza si sono allontanati dalla linea espressa dalla Lega dicendosi più propensi a lavorare sul tema della rigenerazione urbana, adottando una strategia a lungo termine.
Insomma, la proposta sembrerebbe ancora lontana da una possibile attuazione futura in un clima politico così teso e traballante sulla questione dell’abusivismo edilizio.
Condono edilizio per il 2024: cosa aspettarsi
Il condono edilizio 2024 ha prodotto, naturalmente, molta curiosità in merito. Ci si domanda quali saranno i requisiti per ottenerlo e quali norme saranno previste. È necessario quindi muoversi per tempo, tenendosi sempre aggiornati sulla normativa e sulle procedure individuate dal legislatore per sanare gli eventuali abusi edilizi.
Distanze, 1444 derogabile solo in caso di gruppi di edifici previsti in un piano particolareggiato
La Cassazione precisa che la deroga prevista dall’articolo 9, comma 3 non può valere per un solo fabbricato inserito in un contesto edificato
di Massimo Frontera
«Agli effetti dell’art. 9, comma 3, del d.m. n. 1444 del 1968, sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi di tale norma soltanto a condizione che sia stato approvato un apposito piano particolareggiato o di lottizzazione esteso alla intera zona, finalizzato a rendere esecutive le previsioni dello strumento urbanistico generale, contenente le disposizioni planivolumetriche degli edifici previsti nella medesima zona.
Il carcerato è un lavoratore privato e i suoi crediti non si prescrivono
La condizione di soggezione in cui si trova il detenuto, rispetto al suo datore di lavoro, impedisce il decorso della prescrizione
di Patrizia Maciocchi
La condizione di soggezione nella quale il lavoratore carcerato si trova rispetto al suo datore di lavoro, impedisce il decorso della prescrizione per i crediti che vanta nei confronti del ministero della Giustizia. Nè via Arenula può costituirsi nel giudizio contro di lui, avvalendosi di un suo funzionario, come può fare quando la causa riguarda dei pubblici dipendenti, perché il rapporto che si instaura con il detenuto-lavoratore è di tipo privato.
La Corte di cassazione, respinge così il ricorso del ministero, contro la sentenza della Corte d’Appello che lo aveva condannato a pagare circa 5.200 euro, come differenze retributive dovute ad una carcerato che, all’interno dell’istituto di pena, aveva svolto molti ruoli, dallo scopino allo spesino, dall’aiuto cuciniere all’addetto alle pulizie. Attività per le quali non era stato adeguatamente retribuito. L’amministrazione ricorrente, che si era costituita in giudizio con un suo funzionario, non negava di essere inadempiente ma sosteneva che il diritto del detenuto-lavoratore era prescritto perché erano passati più di cinque anni dalla domanda, senza che lui avesse fatto alcun atto per interrompere il countdown.
Il ministero contestava anche la decisione della Corte territoriale di considerare irrituale la sua costituzione in giudizio attraverso un funzionario, senza essere difesa da un avvocato. Una possibilità che via Arenula rivendicava, perché nella cause di lavoro con i pubblici dipendenti è possibile per l’amministrazione essere rappresentata dai funzionari, senza difesa tecnica.
Carcere come struttura aziendale
Per la Suprema corte entrambi i motivi sono infondati. I crediti del lavoratore che si trova ristretto in carcere, infatti, non si prescrivono nei 5 anni, proprio in considerazione della condizione di privazione della libertà e di soggezione in cui si trova rispetto al suo datore.
Responsabilità e accertamento d’ufficio nei confronti del liquidatore
L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’azione di responsabilità
Qual è la natura dell’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore giudiziale?
Qual è il rapporto tra la responsabilità del liquidatore e l’obbligazione tributaria della società rimasta inadempiuta? Con la recente pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente delineato gli aspetti e i presupposti connessi all’azione di responsabilità intrapresa nei confronti del liquidatore di una società.
La disciplina penalistica del nostro Paese punisce con la reclusione fino a 6 mesi chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per ‘petulanza’ o per altro biasimevole motivo, reca ad altri molestie. Molestie e seccature che a causa della moderna tecnologia, che ha trasformato i telefoni cellulari in vere e proprie centrali operative di social e corrispondenza mail.
Ancora riconoscimenti da Montecarlo per l’artista Ettore Giulio Resta
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