La sharing economy, o economia della condivisione, è un concetto che si è affermato negli ultimi decenni, trovando applicazione in diversi settori economici e sociali. Sin dai suoi albori, il termine sharing economy ha suscitato dibattiti a livello internazionale.
Rappresenta un fenomeno relativamente recente e si riferisce a un’ampia e variegata area concettuale.
Sono emerse diverse definizioni contigue o analoghe, come peer-to-peer economy , economia collaborativa, gig economy, economia on-demand e consumo collaborativo. Questi termini, sebbene talvolta usati in modo intercambiabile, indicano attività leggermente o sostanzialmente diverse, secondo gli esperti.
Negli ultimi anni ha preso piede il fenomeno della sharing mobility, che potremmo considerare un sottoinsieme della sharing economy.
La possibilità di muoversi da un luogo ad un altro attraverso mezzi e veicoli condivisi come car sharing, bike sharing, scooter sharing. Ma anche car pooling e analoghe modalità di condivisione.
Per renderci conto di quanto siano diffuse nel tessuto sociale odierno la cultura e la pratica della sharing economy – che si basa proprio su valori specifici e opposti al tradizionale modo di concepire il possesso e la vendita di beni – basta riflettere su alcune abitudini quotidiane: se sto usando una bici in città con il servizio di bike sharing o se utilizzo uno spazio di coworking per lavorare sto beneficiando dell’economia condivisa.
Con economia della condivisione ci si riferisce a un concetto nuovo e diverso da quello del business tradizionale – fondato sulla concezione di vendita di beni e servizi di cui si ha possesso – e del consumo come lo intendiamo di solito. Per esercitare la sharing economy, infatti, è necessario:
- mettere a disposizione degli altri beni o servizi che sono sotto-utilizzati;
- favorire l’accesso a un bene o servizio a cittadini della stessa comunità;
- facilitare un risparmio di tipo economico nell’uso di quei beni e servizi;
- fare in modo che un bene non diventi proprietà a uso esclusivo di un altro, ma sia disponibile per un utilizzo constante e di più persone
Come spiegato dalla letteratura e da studi che hanno negli anni seguito l’evoluzione della sharing economy, con essa di passa dal concetto di possesso a quello di accesso.
Gli esempi ormai da manuale per spiegare l’economia condivisa sono quelli di Uber e di Airbnb, nati entrambi dall’idea proprio di condividere un’auto con più persone (senza sprecare quindi i posti vuoti) o una casa vuota per chi cerca affitti brevi attraverso l’offerta di semplici cittadini privati.
In sostanza con l’economia condivisa non si compra un bene che passa di proprietà, ma si beneficia di un oggetto (per esempio una macchina, una bicicletta, un appartamento o una sola stanza) per il tempo necessario. Poi, lo si lascia a disposizione di altri.
Le piattaforme digitali consentono una condivisione pratica, veloce, facile da utilizzare per qualsiasi tipo di utente. In pratica, un sito web o una app dedicate al servizio o al prodotto condiviso fungono da intermediario tra chi concede il bene o chi ne usufruisce.
Per esempio, collegandomi al sito di Airbnb posso direttamente accedere alle case messe online dai proprietari. Non c’è un’azienda che i vende il servizio.
Quali sono le tipologie di sharing economy
Nata principalmente nel settore della mobilità, con l’esperimento della francese Blablacar considerato pioniere nel settore, negli anni l’economia condivisa si è ampliata in diversi ambiti.
Oggi possiamo individuare varie tipologie di questo fenomeno economico e tra queste:
- sharing mobility: condivisione di mezzi di trasporto per la mobilità urbana;
- home sharing: condivisione di una casa non utilizzata, con stanze da affittare per alloggi brevi;
- coworking: condivisione di un unico spazio per lavoratori che affittano una postazione ufficio:
- vendita/scambio oggetti: piattaforme online nelle quali vendere o scambiare oggetti di ogni tipo;
- food sharing: ridistribuzione di cibo in eccesso che andrebbe buttato
Foto: Shutterstock
Questi elencati sono soltanto alcuni tipi di sharing economy conosciute e seguite dalla società. Tuttavia, l’economia condivisa ha talmente esteso il suo campo di azione che si possono trovare oggi molti altri esempi di questa rivoluzione del consumo e dell’uso di beni, servizi, risorse.
In ambito urbano non è così raro trovare uno spazio fisico usato da più persone che se ne occupano e possono condividerne i frutti: sono gli orti condivisi. Oppure, esistono piattaforme online dove poter mettere a disposizione la propria professionalità (es. idraulici, copywriter, avvocati, medici) direttamente agli utenti.
Obiettivi e sfide dell’economia di condivisione
La sharing economy è nata e si è sviluppata nel tempo con obiettivi specifici:
- favorire il consumo più consapevole;
- incentivare la razionalizzazione nell’uso di oggetti e servizi;
- aumentare la sostenibilità ambientale;
- fare rete tra le persone
Non solo. Attraverso le tante buone pratiche di economia condivisa gli utenti riescono a risparmiare denaro e chi offre beni o servizi può ottenere una fonte di guadagno.
Il tutto, senza ripercorrere il tradizionale schema di business vendita/acquisto che di fatto consiste nel passaggio di proprietà di un oggetto tramite il pagamento. Qui, invece, c’è la facilitazione di accesso a beni o servizi, senza che nessuno se ne appropri pagando.
Il vero e proprio boom della sharing economy ha però evidenziato anche sfide aperte e tutte da affrontare. Per capire di che tipo di fenomeno stiamo parlando basta accendere un faro sui numeri.
A livello mondiale, stando ai dati di Statista, si prevede che il valore totale dell’economia condivisa globale aumenterà a 794 miliardi di dollari USA entro il 2031, rispetto ai 150 miliardi di dollari USA del 2023. Ciò si è tradotto in un tasso di crescita annuale composto di circa il 32%.
La resilienza della sharing economy alla pandemia e prospettive future
La pandemia iniziata nel 2020 ha avuto un inevitabile impatto sulla sharing economy. La “condivisione” alla base del concetto della nuova modalità di economia è stata resa più difficile, se non impossibile, dalle norme di igiene e distanziamento sociale necessarie a contrastare il Covid19.
Ne hanno risentito vari settori e business, da BlaBlaCar (condivisione auto) a Airbnb (affitti brevi), anche se quest’ultima ha saputo affrontare l’emergenza meglio di altri, riuscendo anche a quotarsi con successo al Nasdaq a fine 2020.
Tuttavia nel 2021 la sharing mobility ha dimostrato un’inattesa capacità di resilienza. Come riporta l‘Osservatorio Nazionale sulla sharing mobility (OSM), pur sperimentando un calo annuale complessivo delle percorrenze del 30,6%, la diminuzione dei servizi di mobilità condivisa è risultata inferiore rispetto ad altri servizi di mobilità.
Ad esempio il servizio ferroviario regionale o ad alta velocità o il servizio di trasporto aereo, calati rispettivamente del 38%, 66% e 69%.
Secondo l’ISO Foresight Trend Report, per i prossimi anni la sharing economy dovrebbe crescere a un ritmo del 25%.
In fondo la sharing economy è uno dei capitoli di una sorta di grande romanzo collettivo sull’innovazione che si sta scrivendo giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, e che può ancora riservare sorprese. Ecco un rapido excursus delle definizioni più significative fornite fino ad oggi.
Cos’è la sharing economy
La sharing economy, conosciuta anche come economia della condivisione, rappresenta un concetto di grande rilevanza nell’era di Internet. Uno dei primi esempi di sharing economy nell’era digitale è eBay, il noto sito di vendita e aste online fondato il 3 settembre 1995 da Pierre Omidyar a San Jose, California.
In Italia, eBay ha fatto il suo ingresso nel 2001 e, l’anno successivo, ha avuto luogo la fusione con l’istituto di credito PayPal.
Questo marketplace, che permette la compravendita di oggetti e prodotti, è considerato uno dei primi facilitatori dell’economia della condivisione durante l’epoca di trasformazione tecnologica.
Il prestigioso dizionario ha introdotto il termine sharing economy solo nel 2015. La voce dell’Oxford Dictionary dedicata alla sharing economy recita: «È un sistema economico in cui beni o servizi sono condivisi tra individui privati, gratis o a pagamento, attraverso Internet. Grazie alla sharing economy, si può agevolmente noleggiare la propria auto, il proprio appartamento, la propria bicicletta o persino la propria rete wifi quando non li si utilizzano».
Da questa definizione si potrebbe dedurre che è sharing economy è il fulcro dell’attività, per esempio, di BlaBlaCar, la startup che consente agli utenti di scambiarsi passaggi in auto.
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Stesso discorso vale per Uber. In fondo, gli autisti di Uber utilizzano la propria auto per offrire servizi di trasporto ai viaggiatori, sebbene tramite l’applicazione fornita dalla società californiana. Il dizionario non specifica questo dettaglio.
La sharing economy secondo Rachel Botsman
Rachel Botsman è una figura di spicco nel campo della collaborazione e della condivisione, utilizzando la tecnologia per trasformare il mondo.
Autrice di What’s Mine is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the Way We Live (Harper Collins, 2010) e contributor di importanti testate internazionali, Botsman sostiene che: «La sharing economy è un’idea destinata a durare, ma nel tempo si è dispersa l’idea di cosa sia e di cosa non sia. Il quadro sta diventando sempre più confuso e questo è un problema».
Secondo la sua visione, la sharing economy rappresenta un sistema economico basato sulla condivisione di beni o servizi sottoutilizzati, gratis o a pagamento, direttamente dagli individui.
Buoni esempi: Airbnb, Cohealo, BlaBlaCar, JustPark, Skillshare, RelayRides, Landshare. Significativa è l’introduzione dell’aggettivo “underused” per descrivere i beni e i servizi da condividere.
In un articolo intitolato Defining the sharing economy: what is collaborative consumption and what isn’t, pubblicato su FastCompany, Botsman espone anche altre terminologie comunemente utilizzate per definire i modelli economici di condivisione
La sharing economy secondo Arun Sundararajan
Arun Sundararajan, docente alla Stern School of Business della New York University, ha pubblicato un libro intitolato The Sharing Economy- The End of Employment and the Rise of Crowd-Based Capitalism.
Nell’intervista a EconomyUp ha spiegato il suo concetto di crowd-based capitalism, capitalismo basato sulle folle.
Indica come l’organizzazione delle attività economiche si stia trasferendo dall’imprenditore alle ‘folle’, ovvero come l’imprenditoria sia distribuita tra la popolazione.
«Continuo ad usare questo termine – ha spiegato – perché sono un professore universitario, ma il mio editore mi ha chiesto di intitolare il libro ‘Sharing Economy’ perché è la parola conosciuta dalla maggior parte delle persone, che le coinvolge di più e che loro riconoscono quando si parla di questi temi».
Le sfumature dell’economia collaborativa
Il termine sharing economy è generico e omnicomprensivo. Esistono definizioni più specifiche e circoscritte. Come i servizi on demand, noti anche come economia on demand, rappresentano piattaforme che consentono di soddisfare direttamente le esigenze dei consumatori attraverso la consegna immediata di beni e servizi.
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All’inizio del 20esimo secolo, cita un articolo dell’Economist intitolato Workers on tap, Henry Ford ha rivoluzionato l’industria automobilistica.
Ha combinato la catena di montaggio con la forza lavoro, rendendo le automobili più economiche e veloci, trasformando così l’auto da un giocattolo per ricchi a un mezzo di trasporto accessibile a tutti.
Oggi, sempre più imprenditori stanno cercando di fare lo stesso con i servizi. Offrono beni di lusso che un tempo erano riservati a pochi privilegiati, sfruttando la potenza dei computer e dei lavoratori freelance.
A questo proposito viene menzionato Uber, che mette a disposizione autisti con berlina, ma anche Handy, una startup americana che offre servizi di pulizia a domicilio, e SpoonRocket, specializzata nella consegna di pasti. Secondo l’autore dell’articolo «un giovane programmatore di San Francisco potrebbe già vivere come un principe utilizzando questi servizi».
Rientrano nella categoria dei servizi on-demand, senza necessariamente essere legate al lusso, anche altre startup: ad esempio Medicast, un’applicazione che permette di chiamare un medico a domicilio e Axiom che fornisce legali e consulenti.
Cos’è la Gig economy
La gig economy, letteralmente economia dei lavoretti, indica solitamente tutti quei modelli di business in cui la forza lavoro è rappresentata principalmente da appaltatori indipendenti e liberi professionisti invece che da impiegati a tempo indeterminato.
In questo senso, rientrano nella categoria sia i fattorini (rider) che gli autisti (driver) di Uber. I primi perché vengono pagati per lo più a consegna e considerati appaltatori indipendenti. I secondi perché i proprietari delle macchine vengono pagati per una prestazione professionale.
Ma anche le persone che fanno le pulizie per Helpling, o i virtual assistant, gli sviluppatori software e i data scientist che si possono ingaggiare su UpWork. In tutti i casi si tratta di lavori temporanei.
L’economia Peer-to-Peer o (P2P) economy
Il termine economia peero-to-peer è stato coniato da Michel Bauwens, un teorico, scrittore e ricercatore belga nato nel 1958, fondatore della Foundation for Peer-to-Peer. Da anni, Bauwens si dedica a diffondere la conoscenza sulle pratiche peer-to-peer e sulla crescita della economia della condivisione.
La definizione è spesso usata in parallelo con quella di sharing economy. L’approccio di Bowens appare più macro-economico e meno legato ad esempi pratici, a differenza dell’americana Botsman, che segue una metodologia più pragmatica.
Per Bowens la Peer-to-Peer Economy è un modello decentralizzato dove individui interagiscono per comprare o vendere beni e servizi direttamente l’uno con l’altro, senza intermediazione di una terza parte, o senza l’uso di un’azienda.
Il compratore e il venditore eseguono le transazioni direttamente l’uno con l’altro. A causa di questo il produttore possiede sia gli strumenti (o mezzi di produzione) sia il prodotto finito.
Questo approccio si contrappone al tradizionale capitalismo, in cui i proprietari delle aziende detengono il controllo sui mezzi di produzione e sul prodotto finito, assumendo forza lavoro per il processo produttivo.
Economia P2P: un esempio
Uno degli esempi più interessanti di economia peer-to-peer citati da Bauwens è il modello di Curto Café di Niteroi, nello Stato di Rio de Janeiro. Questa comunità si impegna a produrre caffè di alta qualità in modo sostenibile, evitando lo sfruttamento dei produttori primari.
Curto Café è una comunità non gerarchica, senza uno staff permanente, che ha adottato una catena produttiva aperta, condividendo pubblicamente la ricerca sulla composizione dei prodotti e le prenotazioni.
Inoltre, utilizza il crowdfunding per espandere la distribuzione e apporta modifiche alle macchinette del caffè attraverso l’hacking, al fine di accogliere diverse tipologie di capsule.
Un altro modello interessante è Wikispeed, società dell’automotive fondata a Seattle, Washington. Nel campo dell’economia peer-to-peer, questa società ha sviluppato un metodo di produzione estremamente flessibile, che consente di rilasciare nuovi design per automobili settimanalmente, grazie allo sviluppo parallelo del design aperto.
Wikispeed produce le automobili all’interno di micro-fabbriche, sfruttando al massimo le risorse e riducendo gli sprechi.
Che cos’è la rental economy
Il termine rental economy ha guadagnato popolarità negli anni 2013 e 2014, come sinonimo di sharing economy, dal quale è stato poi in parte soppiantato. La rental economy sottolinea il concetto del “rent”: “dare o prendere in affitto o a noleggio”.
Le startup che operano nella rental economy includono Uber e AirBnb, la piattaforma internazionale che permette agli utenti di affittare temporaneamente appartamenti o case private.
Secondo gli esperti di marketing del ConvergEx Group, la cui società oggi è stata acquisita da Cowen: rent is becoming the new own, il concetto di affitto sta diventando il nuovo è di mia proprietà.
A proposito di rental economy, Negli Stati Uniti, in particolare, la proprietà – della casa, della macchina o di altri beni – sta cedendo il passo al fenomeno dell’affitto condiviso.
Questo perché, spiegano gli esperti: «prendere in affitto e condividere ci permette di vivere la vita che vogliamo senza effettuare spese al di sopra delle nostre possibilità».
Sharing economy: il caso Airbnb
Airbnb viene spesso citato come esempio di sharing economy. Di fatto si è trasformato negli anni in qualcosa di altro, anche se il punto di partenza è stata la condivisione di spazi abitativi.
La storia di Airbnb ha origine a San Francisco nel 2007, quando Brian Chesky e Joe Gebbia, due coinquilini appena laureati in difficoltà finanziarie, decisero di affittare alcuni posti letto nella loro casa durante il meeting dell’Industrial Designers Society of America. Questo evento aveva completamente riempito gli hotel della città californiana.
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Da quel momento, l’home sharing e gli affitti a breve termine hanno iniziato a diffondersi rapidamente, diventando un business di successo grazie alla vasta gamma di alloggi disponibili e alle molteplici opzioni di prezzo.
Partendo dalla sharing economy, AirBnb ha cambiato il mondo in cui si condividono gli spazi abitativi e causato una disruption nel mondo dell’accoglienza e dell’hotellerie.
La pandemia del 2020 ha messo a dura prova le attività turistiche e la condivisione di spazi abitativi.
Nonostante ciò Airbnb ha fatto un brillante debutto al Nasdaq, il mercato azionario di New York per le imprese tecnologiche, nel dicembre dello stesso anno. La società è riuscita a convincere gli investitori grazie alla sua capacità di adattarsi ai tempi, concentrandosi sul turismo locale, e alla leadership affidabile del Ceo Brian Chesky.
Altri esempi di sharing economy
Abbiamo già accennato che tra gli esempi di sharing economy più apprezzati tra il pubblico ci sono quelli di mobilità condivisa. Ma non sono i soli che si sono sviluppati e affermati negli anni.
Di seguito, le piattaforme e app che hanno segnato la storia e continuano a farlo dell’economia condivisa.
Blablacar
Blablacar nasce in Francia nel 2013 sull’intuizione di tre giovani che avevano notato quante persone viaggiassero in macchina da sole, sprecando posti vuoti che potevano essere condivisi per percorrerre lo stesso tratto di strada.
Da questa semplice idea è nata la piattaforma che oggi è leader mondiale nel settore, offrendo mezzi per viaggiare in 22 Paesi del mondo e con un’infinita rete di tratte, anche in autobus.
Uber
L’idea della piattaforma Uber nasce negli Usa e lo scopo è mettere direttamente in contatto autisti e passeggeri per il trasporto in macchina.
Difronte a problemi nel trovare un taxi disponibile in giornate particolarmente affollate, il servizio di prenotazione di un’auto Uber, lanciato attraverso una app comodamente gestibile da smartphone ha rivoluzionato il servizio di trasporto.
Oggi Uber è presente in tutto il mondo e anche in Italia, dove però il braccio di ferro legale tra l’azienda e il Governo continua. Una riforma sul servizio di conducenti a chiamata, che coinvolge anche Uber, è nel mirino della app.
WeWork
Il colosso del coworking è nato nel 2010 con l’obiettivo di rivoluzionare l’idea di spazio del lavoro e, quindi, del modo stesso di lavorare.
Creando aree condivise da adibire a uffici per professionisti di ogni genere, si è espansa nel mondo con l’idea di noleggiare postazioni in uffici condivisi.
Tuttavia, la storia di WeWork è controversa. Nel 2023 ha dichiarato bancarotta, complice anche il post-Covid che ha accentuato il lavoro da remoto e diminuito l’esigenza di spostarsi in un ufficio. Oggi la rete di coworking sta riorganizzando il suo assetto, anche in Italia.
La sharing mobility: cos’è e come si sta sviluppando
La sharing mobility è il fenomeno in base al quale i trasferimenti da un luogo ad un altro, ovvero la mobilità, avvengono con mezzi e veicoli condivisi. Car sharing, bike sharing, scooter sharing, condivisione di mezzi della micromobilità come monopattini elettrici. Ma anche car pooling e analoghe modalità di condivisione. La mobilità condivisa e sostenibile contribuisce alla smart mobility di una città.
La sharing mobility sta prendendo piede con l’emergere del problema relativo alla logistica dell’ultimo miglio. Spesso, soprattutto nelle grandi città, pendolari e residenti sono costretti a prendere mezzi diversi, pubblici e privati, per raggiungere il luogo di lavoro e rientrare a casa. I veicoli in condivisione (soprattutto biciclette e scooter) possono essere utili per riuscire a ultimare questo tratto di strada non coperto da altri mezzi.
Nel 2019 il protagonista della sharing mobilità italiana è stato il monopattino elettrico. Sono state infatti stabilite dal ministero dei Trasporti nuove regole per i monopattini elettrici e altri mezzi della micromobilità.
La regolamentazione della micromobilità
In base al decreto Toninelli, dal 27 luglio 2019 i Comuni italiani hanno avuto un anno di tempo per regolamentare la circolazione di questi e altri veicoli leggeri come segway, hoverboard e monowheel. Da allora questi mezzi della micromobilità si sono moltiplicati sulle strade urbane delle grandi città e di alcuni centri di medie dimensioni.
Dopo la mannaia della pandemia, la sharing mobility ha superato lo shock e ha ripreso a crescere. Nel 2021 scooter, bike e monopattini in condivisione hanno superato i valori del 2019 pre-pandemia e il car sharing li ha raggiunti nell’ultima parte dell’anno.
L’evoluzione della sharing mobility nelle città italiane
La mobilità condivisa è in continua crescita nelle nostre città, Milano e Roma in testa. Nel 2021 – riporta il “Rapporto sulla sharing mobility” presentato il 10 ottobre 2022 a Roma nel corso della Sesta Conferenza Nazionale della Sharing Mobility – i livelli di utilizzo dei servizi di vehicle sharing (car sharing, scooter sharing, bike sharing, monopattino-sharing) sono tornati a salire come nel periodo pre-pandemia.
I viaggi realizzati in sharing mobility sono stati in tutto 35 milioni circa, + 61% rispetto al 2020 e il 25% in più del 2019 e l’83% dei noleggi è avvenuto su un veicolo di micromobilità.
Continuano a crescere anche le flotte di sharing mobility che diventano sempre più “leggere”, piccole ed elettriche: passano dagli 84,6 mila veicoli del 2020 ai circa 89 mila veicoli nel 2021, ripartiti tra monopattini (51%), bici (31%), scooter (10%) e auto (7%).
I veicoli elettrici vanno dal 63% al 77% nell’ultimo anno. La sharing diventa sempre più green con il 94,5% dei veicoli in condivisione a zero emissioni.
Regole dell’economia condivisa, la trasformazione digitale e tutela dei lavoratori
La sharing economy pone un problema di regole. La condivisione di beni e mezzi è sempre esistita nella storia dell’umanità, ma l’impatto disruptive della tecnologia ha reso necessaria un’adeguata regolamentazione.
La sharing economy è infatti un fenomeno con radici antiche e richiede una revisione delle regolamentazioni obsolete per adeguarsi alla trasformazione digitale.
Pensiamo solo agli attacchi che Uber ha affrontato in diverse parti del mondo. In Italia, il 2 marzo 2016, alcuni deputati dell’Intergruppo Parlamentare per l’Innovazione Tecnologica hanno presentato una proposta di legge per regolamentare il settore, che però non ha mai visto la luce.
La Gig economy, i rider e la politica
La gig economy è diventata, nel giugno 2018, un tema centrale nel dibattito del nuovo governo guidato da Giuseppe Conte.
Inizialmente sembrava che il governo stesse per approvare un decreto legge che avrebbe apportato significative modifiche alle norme che regolano il settore delle consegne a domicilio. Settore in cui operano aziende come Foodora e Deliveroo.
Foodora ha minacciato di abbandonare il mercato italiano. In risposta, Luigi Di Maio, all’epoca ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, ha proposto un tavolo di contrattazione. L’obiettivo del vicepresidente del Consiglio e capo del Movimento 5 Stelle era migliorare le condizioni di lavoro e i salari dei rider.
Dopo un periodo di stallo, oltre un anno dopo, il 7 agosto 2019, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge. Questo mira a garantire la tutela economica e normativa di alcune categorie di lavoratori particolarmente vulnerabili, tra cui i rider. Nel frattempo, il governo è cambiato e Di Maio non è più ministro del Lavoro.
La precarietà persistente dei rider
Tuttavia, la situazione dei rider non sembra essere migliorata molto. Nonostante i tentativi di regolamentazione, il loro status rimane precario. Le norme previste nel “decreto salva imprese” dell’estate 2019 si concentrano principalmente sul problema delle assicurazioni.
Esse non modificano il rapporto di forza sbilanciato tra azienda e lavoratore, in quando non riconoscono la necessità di un contratto subordinato per i rider e non affrontano adeguatamente la loro precarietà retributiva.
Con la pandemia, le consegne di cibo a domicilio da parte dei rider si sono moltiplicate. Secondo l’osservatorio Just Eat, prima dell’emergenza sanitaria il 34% degli utenti non aveva mai ordinato cibo tramite consegna digitale. Purtroppo, insieme all’aumento delle consegne a domicilio, sono emersi anche comportamenti scorretti da parte dei datori di lavoro, accusati di sfruttamento e “schiavismo”.
È fondamentale trovare soluzioni che garantiscano una maggiore tutela per i lavoratori della gig economy e promuovano una sharing economy equa e sostenibile.
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