Pubblichiamo di seguito il testo della relazione tenuta dal Prof. Emilio Dolcini in occasione dell’incontro dedicato al Prof. Giorgio Marinucci della rassegna “Maestri di giustizia penale Le radici del passato nella rotta per il futuro”, tenutosi a Napoli il 18 novembre 2024.
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0. Una premessa sui contenuti di questa relazione, definiti d’intesa con gli altri relatori. Aprirò con una nota biografica; tratterò successivamente di alcuni contributi di Giorgio Marinucci alla teoria generale del reato, nonché di alcuni princìpi che il Maestro pone al centro del sistema penale; concluderò con qualche considerazione relativa al nostro rapporto personale.
1. Per iniziare, dunque, una breve nota biografica.
Giorgio Marinucci nasce nel 1934 a L’Aquila: il legame con la sua città sarà sempre molto forte. È figlio d’arte: il padre Gustavo è un importante avvocato. Giorgio è l’ultimo di tre fratelli, tutti dotati di grande personalità: alla sorella Elena (che diventerà senatore della Repubblica, sottosegretario alla Sanità, e poi parlamentare europeo) sarà sempre unito da un profondo affetto, ma anche contrapposto da diverse scelte ideali e soprattutto da una diversa visione della politica.
Giorgio studia dai gesuiti, per i quali nutre, anche ad anni di distanza, un misto di ammirazione e di diffidenza. Eccelle non solo negli studi, ma anche nelle attività sportive, dal rugby al tennis.
Svolge gli studi universitari a Roma, alla Sapienza. Tra i compagni di studi, Stefano Rodotà e Natalino Irti. Alla Sapienza Giorgio incontra Giacomo Delitala, che insegna nella capitale per un solo anno accademico, nel 1958-1959, per fare ritorno subito dopo alla sua patria adottiva, Milano, e all’Università Statale. L’incontro con Delitala decide i destini di Giorgio: Delitala coglie immediatamente i talenti di quel giovane e gli propone di seguirlo a Milano, affiancandolo, come assistente, all’Università.
Nel 1965 Giorgio Marinucci vince un concorso a cattedra. Le sue sedi sono, in successione, Sassari, Ferrara, Pavia e da ultimo Milano Statale: qui insegna e fa ricerca fino al collocamento a riposo, nel 2010.
Tra il 1977 e il 1979 Giorgio Marinucci è giudice costituzionale aggregato per il processo Lockheed: un processo relativo a reati ministeriali, all’epoca di competenza della Corte costituzionale in composizione allargata (come è noto, tale competenza verrà meno nel 1989, allorché l’art. 96 Cost. sarà portato all’attuale formulazione).
Dal 2000 è direttore responsabile della Rivista italiana di diritto e procedura penale: un compito al quale si dedica con passione, continuando l’opera di Delitala, Crespi e Pedrazzi.
Nel 2011 Giorgio Marinucci è nominato professore emerito nell’Università di Milano; successivamente diventa socio dell’Accademia dei Lincei.
All’Accademia dei Licei il 19 aprile 2013 Giorgio Marinucci fa la sua ultima apparizione in pubblico: durante una pausa dei lavori ci lascia per sempre.
2. Se oggi siamo qui, a oltre dieci anni dalla scomparsa, a parlare di Giorgio Marinucci, la ragione prima risiede nella sua dimensione scientifica: di maestro di giustizia penale, secondo la felice intitolazione di questo ciclo di incontri promosso e organizzato dagli amici dell’Università di Firenze e dell’Università Federico II di Napoli, ai quali va il mio vivissimo ringraziamento.
Mi soffermo, in particolare, sullo straordinario contributo fornito da Giorgio Marinucci alla teoria generale del reato.
Non tratterò di Marinucci teorico della colpa (ne parlerà Francesco Viganò), ma mi concentrerò innanzitutto sulla monografia “Il reato come azione. Critica di un dogma” (1971): un’opera che, in Italia e nell’intera Europa, si è imposta come un classico della letteratura penalistica.
La più evidente portata innovativa di questa monografia riguarda la proposta di superare la trattazione unitaria del reato, che prendeva le mosse, a sua volta, da un concetto unitario di azione (quest’ultimo, il dogma contro il quale si appunta la critica di Marinucci, annunciata nel sottotitolo della monografia): rompendo con la tradizione, il Maestro propone una trattazione separata del reato commissivo doloso, del reato omissivo doloso, del reato commissivo colposo e del reato omissivo colposo.
Sottolineo non tanto il merito di questa proposta, quanto il suo fondamento. Immune da qualsiasi ontologismo, altrettanto lontano dalla pretesa di affermare la superiorità logica di questo o di quello schema di analisi del reato, Marinucci motiva la sua scelta di campo soprattutto con l’improduttività del concetto unitario di azione: con il rischio, cioè, ampiamente dimostrato nella monografia, che per effetto di quel concetto risultino oscurate importanti peculiarità del reato omissivo, appiattito sull’archetipo del reato commissivo, nonché peculiarità del reato colposo, deformato per effetto della supremazia esercitata dal modello del reato doloso. Ciò che consente a Marinucci di presentare la svolta sistematica di cui è fautore come una “razionalizzazione” sono, da un lato, “gli insuccessi della teoria dell’azione”, dall’altro “i vantaggi della costruzione separata”.
Basti ricordare — a titolo di esempio — la messa a fuoco della problematica delle scusanti, alla quale è largamente dedicato il capitolo finale della monografia.
Le scusanti sono una sorta di filo rosso — non l’unico, evidentemente — nella produzione scientifica del Maestro. Sia il “Corso di diritto penale”, nell’edizione del 2001, sia la prima edizione del “Manuale di diritto penale. Parte generale” (2004), trattano delle scusanti in forma sintetica: diversamente, nella seconda edizione del “Manuale” (2006) — sulla falsariga delle proposte formulate dal Maestro, molti anni prima, nella monografia “Il reato come azione” —, all’interno della trattazione delle scusanti ricompare l’espressa distinzione tra scusanti nei reati dolosi e scusanti nei reati colposi, che in questa sede vengono analizzate una ad una. A riprova del significato che Giorgio Marinucci attribuisce alla ‘costruzione separata’: non un idolo, non un imperativo inderogabile, ma uno strumento flessibile, da utilizzarsi tutte le volte, e le sole volte, in cui appare realmente utile.
Il “Manuale” dà conferma di questa scelta metodologica: la trattazione separata è ampiamente adottata nel capitolo relativo al fatto di reato; altrove, quanto ai rapporti tra reato commissivo e reato omissivo, troviamo soltanto paragrafi dedicati agli aspetti peculiari che questo o quell’istituto (ad es., il dolo o il tentativo) presenta in relazione al reato omissivo.
3. Contributi altrettanto importanti sono venuti da Giorgio Marinucci in relazione alla sistematica del reato, attraverso un percorso che ha le proprie tappe principali nel saggio “Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali” (Riv. it. dir. proc. pen., 1983, p. 1190 ss.), nelle voci di enciclopedia “Antigiuridicità” (Dig. disc. pen., I, 1987, p. 172 ss.) e “Cause di giustificazione” (Dig. disc. pen., II, 1988, p. 130 ss.) e nel capitolo finale del “Corso di diritto penale” (ed. 2001): il punto d’approdo è l’analitica trattazione contenuta nel “Manuale”, al quale il Maestro ha lavorato – e io con lui – fino alla IV ed. (2012).
Per Giorgio Marinucci, contro ogni suggestione che possa essere esercitata da una visione totalizzante del reato (proposte in questo senso erano venute negli anni Trenta da una parte della dottrina tedesca), nel reato è necessario individuare una pluralità di elementi strutturali, collocati secondo un preciso ordine logico imposto dall’ordinamento (in primo luogo, nel nostro ordinamento, dalla Costituzione): solo la scomposizione analitica consente di evidenziare le specifiche funzioni proprie di ciascun elemento del reato. Di qui l’opzione a favore di una sistematica quadripartita: una sistematica, cioè, che individui gli elementi del reato nel fatto, nell’antigiuridicità del fatto, nella colpevolezza per il fatto antigiuridico e nella punibilità del fatto antigiuridico e colpevole.
Punti caratterizzanti di questa proposta (non posso andare oltre una esemplificazione, che potrà apparire arbitraria) riguardano il rapporto tra fatto e cause di giustificazione e la collocazione della punibilità tra gli elementi del reato.
3.1. Quanto ai rapporti tra fatto e cause di giustificazione, Giorgio Marinucci confuta la tesi che colloca le cause di giustificazione all’interno del fatto, quali elementi negativi. Porta molteplici argomenti contro questa tesi; tra gli altri, un argomento ricavato dalla disciplina che espressamente il codice penale italiano dedica all’errore sulle cause di giustificazione (art. 59 co. 4 c.p.): a conferma che per Giorgio Marinucci la dogmatica non è mai fine a sé stessa, ma è sempre strettamente correlata al diritto positivo.
3.2. Il quesito relativo alla collocazione sistematica della punibilità (una categoria in continua espansione, per effetto dell’introduzione di nuove cause di esclusione della punibilità) è il più controverso in dottrina.
Oggi come ieri la dottrina maggioritaria non condivide l’inquadramento della punibilità tra gli elementi del reato, ritenendo che la punibilità appartenga ad un diverso capitolo del diritto penale: secondo questo orientamento, perché sussista un reato è sufficiente un fatto antigiuridico e colpevole. Una posizione ribadita di recente da una voce particolarmente autorevole, quella di Mario Romano. In un saggio intitolato “Non punibilità, estinzione del reato, riforma Cartabia” (Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 437 ss.) Romano rileva che “la dimensione del divieto o dell’obbligo sanciti dalla norma incriminatrice, la ‘sostanza’ o ‘materia’ del precetto, viene logicamente prima… rispetto alla pena, … senza che il disvalore di azione e di evento, sancito dalla norma, ne sia… scalfito”: “la pena… viene dopo e… per ragioni varie può non venire affatto”. Condivido questa premessa, non però il passaggio successivo: per Romano, le ragioni di opportunità che decidono dell’applicabilità della pena “sono ‘esterne’ al reato, che è già ‘integro’, perché completo di tutti i suoi elementi costitutivi”.
Vi propongo, da parte mia e del Maestro, la motivazione portata nel nostro “Manuale” (ed. I, 2004, p. 105 s.; ed. XIII, 2024, p. 248) a sostegno dell’inclusione della punibilità tra gli elementi del reato: “La pena è ciò… che caratterizza il reato rispetto ad ogni altra figura di illecito… Il reato in astratto è individuato dalla comminatoria legale di una pena: del pari, di reato potrà parlarsi in concreto solo in presenza di un fatto antigiuridico, colpevole e punibile”.
4. Qualche riflessione, ora, sui princìpi che ispirano la visione del sistema penale di Giorgio Marinucci.
4.1. In primo piano spicca il principio di offensività, che esprime l’esigenza — vincolante sia per il legislatore (offensività in astratto), sia per il giudice (offensività in concreto) — che il diritto penale sia strumento di tutela di beni giuridici: un principio liberale, teso a limitare il controllo penale.
A proposito del principio di offensività, soltanto due flash (farò ancora un cenno al tema del bene giuridico tra poco, trattando del principio della rieducazione del condannato).
Il primo flash sul saggio “L’abbandono del codice Rocco: tra rassegnazione e utopia” (Quest. crim., 1981, p. 297 ss.). Nel cinquantenario del codice Rocco, Giorgio Marinucci prende posizione sia contro ogni forma di rassegnazione alla perdurante sopravvivenza del codice del 1931, sia contro l’utopia di un ‘superamento del diritto penale’, che a sua volta non può che generare immobilismo nel breve e nel medio periodo: ciò premesso, il Maestro propone una politica dei beni giuridici imperniata sulla Costituzione e integrata con la ricerca criminologica.
Tutti i beni costituzionalmente rilevanti sono meritevoli di tutela penale (per altro verso, anche beni privi di rilievo costituzionale possono essere meritevoli di tutela penale). Alla ricerca criminologica spetta invece il compito di far emergere nuovi beni giuridici e nuove forme di aggressione a beni già tutelati, nonché il compito di verificare se il ricorso alla pena si giustifichi al vaglio dei criteri di meritevolezza e di bisogno di pena: “un insufficiente know how sull’offensività dei fatti da incriminare impone la rinuncia alla pena,… le conoscenze empiriche sull’efficacia generalpreventiva e/o sulla dannosità condizionano il ricorso o l’abbandono legislativo della pena o di determinati tipi di pena”. Il principio di offensività, ribadisco, vive di un complesso intreccio tra Costituzione e empiria.
Il secondo flash ha per oggetto un saggio intitolato “Soggettivismo e oggettivismo nel diritto penale. Uno schizzo dogmatico e politico-criminale” (Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1 ss.).
Secondo Giorgio Marinucci, un legislatore liberale non può muovere che dall’insegnamento di Cesare Beccaria (un “penalista contemporaneo”, come scriveva Marinucci nel 2002), del quale, in questo scritto, richiama una lapidaria affermazione: “La vera misura dei delitti è il danno alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette”. Fatta questa premessa, e dopo richiami a Francesco Carrara e a Vincenzo Manzini, così Marinucci entra in medias res: “Puniamo l’uomo per quel che fa, oppure per quel che ha intenzione di fare, ovvero per quel che è?” Accanto, e in antitesi al diritto penale del fatto, che pone al centro del reato l’offesa a un bene giuridico, Marinucci illustra il soggettivismo nelle sue diverse accezioni, quale diritto penale della volontà (che vede nella volontà delittuosa “il cuore e perno del diritto penale”) o quale diritto penale d’autore (dove l’autore può essere una figura criminologica – il ladro, l’assassino, etc. – o una figura normativa, che si caratterizza sul piano dei rapporti con la comunità: “un nemico del popolo e dello Stato”).
La ricostruzione sistematica, nell’approccio di Giorgio Marinucci, sottolineo ancora, non è fine a sé stessa. Viene messa alla prova della legislazione penale del tempo in relazione a due specifici fenomeni: il terrorismo e l’immigrazione irregolare. Marinucci fornisce penetranti indicazioni sulla lettura che, nel quadro di un diritto penale del fatto, deve trovare la legislazione antiterroristica introdotta nel 2005 (a partire dalla norma – l’art. 270 bis c.p. – che incrimina l’associazione con finalità di terrorismo). Sposta poi la sua attenzione sui pilastri della normativa penale, introdotta pochi anni dopo (nel 2008), in materia di immigrazione: l’aggravante comune della clandestinità (art. 61 n. 11 bis c.p.) e il reato c.d. di clandestinità (art. 10 bis t.u. immigrazione). Della prima disposizione, segnala come – doverosamente – sia caduta sotto la scure della Corte costituzionale nel 2010; quanto alla seconda, altrettanto patente espressione di un ‘diritto penale del nemico’, prende atto della sua sopravvivenza (allora come oggi), additandone peraltro gli effetti perversi, che si sostanziano nell’imporre all’immigrato irregolare – in palese contrasto con la Costituzione – di vivere costantemente nell’ombra.
Osserva Giorgio Marinucci: “Fortunatamente da noi non vi è una Guantanamo, ma quanto a principi strapazzati vi è solo una differenza quantitativa”. Professando fedeltà a Beccaria e a Verri, così conclude il Maestro: “Seguiteremo a difendere a denti stretti il baluardo della Costituzione che segna limiti invalicabili al ricorso all’arma della pena per combattere qualsivoglia fenomeno dannoso o pericoloso per i beni della società”. Giurista di sconfinata cultura, Marinucci è maestro anche per passione e impegno civile.
4.2. Nell’approccio di Giorgio Marinucci il principio di legalità dei reati e delle pene è un ulteriore fondamentale anello di congiunzione con Beccaria. Tra i profili più rilevanti nella riflessione del Maestro sul principio di legalità segnalo: la strenua rivendicazione della riserva di legge come riserva di legge formale – i cui corollari in ordine alla riforma del codice penale italiano sono lumeggiati in “Note sul metodo della codificazione penale” (Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 385 ss.) –, su una linea che, pur minoritaria in dottrina, ricollega idealmente Marinucci ad un altro grande, Franco Bricola; l’affermazione della necessità di distinguere tra interpretazione e analogia, contro ogni suggestione proveniente dagli apologeti del c.d. diritto giurisprudenziale – in questo senso, in particolare, “L’analogia e ‘la punibilità svincolata dalla conformità alla fattispecie penale’” (Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 1254 ss.) –; la rigorosa delimitazione degli spazi che fonti sublegislative possono occupare nella norma penale; il forte richiamo all’esigenza di una legge penale che ‘parli una lingua comprensibile al popolo’, secondo quello che nel “Manuale” viene designato come ‘principio di precisione’; ancora, il richiamo, non meno forte, all’esigenza di fondare le incriminazioni su verificabili tipologie empirico-criminali, così da assicurare il rispetto di un’altra componente del principio di legalità, non sempre adeguatamente valorizzata dalla dottrina, espressa dal principio di determinatezza.
4.3. Vengo al principio di colpevolezza. In proposito, mi riporto in particolare ad uno scritto di Marinucci apparso per la prima volta oltre trent’anni fa (“Probleme der Reform des Strafrechts in Italien”, ZStW 94, 1982, p. 349 ss.; per la traduzione italiana, v. “Diritto penale in trasformazione”, a cura di G. Marinucci e E. Dolcini, 1985), in una fase in cui la Corte costituzionale non era ancora approdata a riconoscere la rilevanza costituzionale del principio. Già in questo saggio, in poche righe, il Maestro traccia l’intero percorso che sarebbe stato aperto dalla Corte costituzionale nel 1988, con le sentenze n. 364 e n. 1085, e che tuttora è in atto. A fronte dell’eliminazione ex lege di alcune forme di responsabilità oggettiva, molto è ancora rimesso all’interprete: e nel superamento in via interpretativa della responsabilità̀ oggettiva non sono mancati da parte della Corte di cassazione chiari riconoscimenti del contributo venuto da Giorgio Marinucci. Ma il Maestro non si limita ad indicare il da farsi per un pieno adeguamento del diritto penale italiano al principio di colpevolezza: individua anche alcune insidie che potrebbero opporsi a quel processo, quali si annidano, ad esempio, in discutibili scelte interpretative in tema di condizioni obiettive di punibilità. E la comparazione giuridica — in questo caso, con l’ordinamento tedesco — suggerisce indicazioni importanti da trasmettere al legislatore italiano, in particolare a proposito di una riforma dei delitti aggravati dall’evento.
Per Giorgio Marinucci i princìpi — princìpi liberali, di derivazione illuministica, in gran parte riconducibili, oggi, alla Costituzione repubblicana, della quale Giorgio ha più volte sottolineato la lungimiranza — non sono un orpello, oggetti da esibire nella vetrinetta del penalista: nella visione del Maestro, i princìpi forgiano l’intero sistema, senza possibilità di compromessi. La Costituzione è – deve essere – la stella polare di ogni riforma del diritto penale: indica l’impervio cammino verso un diritto penale che rappresenti l’extrema ratio della politica sociale.
Aspirazioni alte, quelle espresse dal Maestro, che però – in assenza di un’autentica riforma del codice penale – dovevano fare i conti con una legislazione che appariva “schizofrenica e controproducente”. Così si esprime Giorgio Marinucci in uno scritto (“Politica criminale e riforma del diritto penale”, Jus, 1974, p. 463 ss.) nel quale denuncia una politica del diritto penale segnata dalla frenetica oscillazione in direzioni opposte, tra una sconfinata mitezza e una forsennata severità: direzioni incarnate, la prima da “interventi clemenziali sui meccanismi della parte generale”, la seconda da interventi sulla parte speciale (nuove incriminazioni, inasprimenti di pene) ispirati a un vero e proprio terrorismo sanzionatorio. Quella politica penale era il frutto del “divario tra la visione ‘scientifica’ e la ‘percezione sociale’ della criminalità e del diritto penale come strumento per combatterla: un divario in parte creato dalle manifestazioni più vistose di certe forme di delittuosità in aumento che generano una diffusa insicurezza e una domanda irrazionale di severità repressiva, ma che viene accentuato proprio dai gruppi sociali – alcune forze politiche e i mezzi di comunicazione di massa – che istituzionalmente dovrebbero agevolare il processo di razionalizzazione del ‘problema penale’ e che invece sono spesso artefici di una penetrante manipolazione della ‘opinione pubblica’”.
Mi sono permesso questa lunga citazione testuale, perché presenta tratti, a mio avviso, di straordinaria attualità, soprattutto per quanto riguarda la paura generata nella pubblica opinione da alcune forze politiche e da alcuni mass media, una paura alla quale – oggi come ieri – il legislatore risponde con norme simboliche, e talora criminogene.
4.4. Ultimo, non però per importanza, il principio della rieducazione del condannato. In proposito faccio riferimento soprattutto al già citato saggio “Politica criminale e riforma del diritto penale” e al saggio “Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma” (Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 160 ss.).
Il principio enunciato nell’art. 27 co. 3 Cost. viene tradotto da Giorgio Marinucci, senza esitazioni, in termini di funzione risocializzatrice della pena: “funzione primaria per rango costituzionale”, afferma il Maestro, anticipando un riconoscimento che dalla stessa Corte costituzionale verrà solo molti anni dopo: mi riferisco, in particolare, alla sentenza n. 149 del 2018, relativa all’art. 58 quater co. 4 ord. penit., in tema di accesso ai benefici penitenziari da parte dei condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione o per il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo che abbiano cagionato la morte della vittima, nella quale la Corte afferma “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (punto 7 del Considerato in diritto).
Per Marinucci, la funzione della pena investe “l’intero arco dei problemi penali”: dalla struttura del reato al catalogo degli illeciti. Questi i corollari del principio costituzionale: impone “la presenza, nei fatti minacciati, del connotato della colpevolezza”; impone di individuare i beni giuridici nelle “condizioni minime di esistenza della convivenza civile”: in beni, cioè, per i quali “ci si può attendere… che vengano considerati dalla stragrande maggioranza dei cittadini come valori essenziali da coltivare e da rispettare”.
Con tutta evidenza, il terreno su cui il principio della rieducazione/risocializzazione è grado di fornire le indicazioni più ampie e penetranti rimane comunque quello della sanzione penale. In proposito, Giorgio Marinucci osserva che “ogni privazione della libertà personale in qualunque tipo di stabilimento… provoca danni psicologici e sociali così certi da rendere difficile, se non derisorio, qualunque obiettivo di risocializzazione”. Nel contempo, però, con sano realismo, rileva che “per molto tempo ancora sarà la pena detentiva a fungere da pietra angolare di ogni sistema sanzionatorio”: l’obiettivo da perseguire, nel breve periodo, è dunque quello di una progressiva riduzione del dominio della pena carceraria. Momenti fondamentali di tale percorso, lungo la rotta segnata dalla funzione risocializzatrice della pena, dovranno essere: l’eliminazione dell’ergastolo; un drastico ridimensionamento del ruolo delle pene detentive brevi, affidato all’introduzione di una clausola di parte generale che conservi alle pene detentive brevi uno spazio solo residuale, come ultima ratio all’interno del sistema sanzionatorio penale; il potenziamento della pena pecuniaria, che dovrà essere strutturata per quote giornaliere; la trasformazione della sospensione condizionale della pena da atto di grazia giudiziale in vera e propria sanzione.
Marinucci traccia, dunque, un esauriente programma di riforma del sistema sanzionatorio modellato sull’idea di risocializzazione: un programma che ad oggi è stato solo parzialmente attuato dal legislatore. L’ergastolo è tuttora presente nel catalogo delle pene, benché fortemente contestato da una parte della dottrina; la lotta alla pena detentiva breve ha segnato significativi progressi con la riforma Cartabia, ma il problema rimane aperto: tuttora si registrano troppe presenze in carcere in esecuzione di pene brevi (tra coloro che sono in esecuzione di una condanna definitiva, circa 1500 persone sono in carcere per scontare una pena inflitta inferiore a un anno, mentre quasi 3000 eseguono una pena compresa tra uno e due anni); la pena pecuniaria si è ampiamente evoluta, da ultimo, nella disciplina dell’esecuzione e della conversione, ma non ancora nella struttura, che ha adottato il modello delle quote giornaliere soltanto per la pena pecuniaria sostitutiva e non per la pena pecuniaria principale; la sospensione condizionale e l’affidamento in prova al servizio sociale sono tuttora in cerca di un assetto razionale, in assoluto e sul piano dei rapporti reciproci.
Sono passati cinquant’anni da quando Giorgio Marinucci indicava al legislatore le linee di un sistema sanzionatorio penale conforme a Costituzione: le sue indicazioni, a mio avviso, sono tuttora pienamente valide.
5. Per finire, qualche notazione personale.
Con Giorgio ho trascorso una parte importante della mia vita. Il nostro primo incontro risale al lontano 1972 (Giorgio non aveva ancora 40 anni); subito dopo, negli anni pavesi, abbiamo cominciato a lavorare fianco a fianco, nell’insegnamento e nella ricerca; il nostro sodalizio si è fatto più stretto dal 1989, quando — proprio per lavorare meglio e di più con lui — ho accolto l’invito (suo e di Alberto Crespi) a trasferirmi nell’Università di Milano. Da allora, quasi ogni giorno ci siamo visti, ci siamo seduti l’uno di fronte all’altro, ci siamo scambiati idee, giudizi, impressioni su tutto, su temi nobili e meno nobili.
A visibile testimonianza degli anni vissuti insieme, rimane una grande quantità di lavori scritti a quattro mani. Una mole di lavori in comune che, riguardata ora, va oltre le mie iniziali aspettative. Come ho detto più volte, lavorare con Giorgio Marinucci per me era un fine, non un mezzo. Se poi il nostro lavoro si traduceva in scritti, tanto meglio: non era però l’aspetto essenziale, per me, di quell’esperienza.
Non tutto, nel nostro lavoro, andava a perfezione, in totale armonia. Talora nascevano contrasti sulla soluzione da dare a questo o a quel problema giuridico: poteva accadere che si passasse un’intera giornata, o quasi, senza scrivere nulla. Si discuteva, nel tentativo di convincerci l’un l’altro.
Un elemento di dissenso quasi costante riguardava poi l’orario di lavoro: nordico il mio, squisitamente meridionale il suo. Non di rado accumulavo un po’ di malumore, mentre lo aspettavo, nella mattina che si faceva sempre più tarda: al suo arrivo, però, dopo un attimo, la tensione si risolveva in un sorriso, o addirittura in una risata. E si cominciava — tardi — a lavorare.
Un altro motivo di dissenso, emerso in discorsi pubblici e privati, verteva sul ruolo di ciascuno di noi nelle opere a quattro mani: a ciascuno sembrava nettamente preponderante il ruolo dell’altro. Né io, né Giorgio ci siamo mai smossi dalla nostra idea.
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