A metà della scadenza naturale del primo mandato in assoluto per una presidente del consiglio donna, è possibile fare un bilancio delle politiche di genere e sociali del governo di destra.
La premier, è noto, si declina al maschile e ha fatto di questo un forte elemento di propaganda al pari del suo slogan «sono una donna, madre e cristiana». Entrambi sono una sintesi efficace dell’ideologia ultra cattolica e nazionalista che identifica la donna in quanto madre e confina i suoi eventuali bisogni tra le mura domestiche. Il tutto in una società in cui non esiste il patriarcato ma «solo residui di maschilismo» negli uomini italiani mentre quelli stranieri sono artefici di violenza.
Questa è la visione del ministro dell’Istruzione (e merito) Valditara rivendicata interamente da Meloni. «A dispetto delle femministe che pensano che la parità si faccia definendosi la presidenta o l’assessora, io mi faccio volutamente chiamare ‘il presidente’ ma sono fiera che, sotto il primo governo guidato da una donna, il tasso di disoccupazione femminile sia il più alto di sempre», aveva dichiarato la premier solo 10 giorni fa.
Una gaffe che aveva suscitato comprensibile ironia, dato l’aumento costante della povertà femminile, al netto della propaganda.
Secondo i dati dell’Ufficio studi della Camera, il tasso di occupazione femminile in Italia è il più basso d’Europa, indietro di 14 punti rispetto alla media dei paesi Ue. Le poche donne occupate hanno un lavoro povero, precario o part time, per lo più involontario (il 57,9% secondo l’elaborazione della Cgil), hanno una retribuzione inferiore a quella dei colleghi (il reddito medio annuo femminile è di 11.451 euro, ancora meno al Sud) e in molti casi sono costrette a lasciare il lavoro dopo la gravidanza.
Il divario di genere riguarda anche la previdenza: le pensioni delle donne italiane sono in media più basse del 33.2% rispetto a quelle degli uomini. Questo per quanto riguarda lo svantaggio economico strutturale. Negli ultimi anni, il combinato tra pandemia, inflazione, definanziamento di welfare e servizi sanitari e abolizione del reddito di cittadinanza hanno esposto ancora di più le donne al rischio di scivolare nella povertà, come è stato indicato da diversi rapporti, a partire da Eurostat.
La violenza economica abbraccia più sfaccettature, comprende ogni comportamento che limita l’indipendenza economica della donnaAnna Fasano, presidente di Banca Etica
«La violenza economica abbraccia più sfaccettature, non si tratta soltanto di non avere un conto corrente – spiega Anna Fasano, presidente di Banca Etica – ma comprende ogni comportamento che limita l’indipendenza economica della donna. L’assenza di un reddito proprio o dignitoso è uno dei primi fattori, poi va tutto a cascata». E poi: «Le donne sono ancora fasce vulnerabili perché la crisi economica ha un maggiore impatto su di loro e i modelli organizzativi imprenditoriali sono conformati in modo da limitare i percorsi professionali delle donne. Per questo – specifica ancora Fasano – si può parlare di violenza economica. Anche se non è perpetrata da un singolo su una persona». Per la presidente di Banca Etica sarebbe necessario «uscire dalla logica dell’emergenza e investire nel dare alla donne rudimenti di conoscenza finanziaria fondamentali per l’indipendenza economica, anche nel caso di donne con reddito familiare adeguato». Un problema culturale enorme: «Non si affronta né con una norma né lasciando la lotta solo alle donne».
«Una donna che ha messo al mondo almeno due figli ha già dato un contributo importante alla società»Giorgia Meloni
Il governo Meloni invece anche in questo campo continua ad agire solo in un’ottica panpenalista, concentrandosi sulla repressione degli atti violenti, ma a reato compiuto. Per tutto il resto la donna esiste solo nella famiglia («Una donna che ha messo al mondo almeno due figli ha già dato un contributo importante alla società», ha detto la premier lo scorso anno).
Le politiche di genere, se così possono essere chiamate, dell’esecutivo di destra si sono ridotte a bonus e una tantum. Misure per lo più simboliche e propagandistiche che riguardano madri privilegiate. Come il bonus di mille euro per i nuovi nati, senza politiche attive per incrementare il lavoro femminile. O il bonus asili nido, che però mancano soprattutto al sud: i 264.480 posti previsti dal Pnrr sono stati ridotti a 150.480 dal governo. Un maquillage che non affronta in nessun modo le cause profonde della disuguaglianza di genere.
«Gli sgravi fiscali sono indirizzati alle donne con un impiego a tempo indeterminato, che hanno tre o più figli (anche se una parte delle agevolazioni inizia dal secondo) – hanno scritto in un’analisi della finanziaria pubblicata da InGenere le studiose Barbara Leda Kenny, senior gender expert della Fondazione Brodolini e Sabrina Marchetti, docente alla Ca’ Foscari di Venezia -. Si tratta di una platea piuttosto ristretta, le lavoratrici con tre figli in Italia sono l’eccezione, limitata alle lavoratrici con contratto di lavoro a tempo indeterminato, la misura rischia di coprire solo chi gode di maggior sicurezza, mentre sappiamo che il lavoro femminile è caratterizzato da una maggiore precarietà».
Il resto delle misure concepite negli ultimi due anni potrebbe essere liquidato come folklorico, ma è altrettanto insidioso. L’Iva sugli assorbenti e sui prodotti per l’infanzia è tornata al 10% (era scesa al 5%) ma è stata tolta quella sulla chirurgia estetica e sugli integratori alimentari. Il ritratto della donna che ha in mente la destra: madre e cristiana, certo, ma anche benestante e dedita all’aspetto estetico. Non sono contemplate, in particolare, 2 milioni 277 mila donne che vivono in condizioni di indigenza, dati Istat.
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