A uccidere il 23enne Qamil Hiraj fu un proiettile sparato dal suo datore di lavoro, il 43enne Giuseppe Roi. L’uomo fu condannato in primo grado a 30 anni e in secondo a 21, ma la sentenza d’appello venne annullata con rinvio
Non fu omicidio volontario, ma colposo. Reato che, a distanza di 10 anni dal fatto, è ormai prescritto. La Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha messo fine alla vicenda della morte di Qamil Hiraj, il pastore albanese ucciso da un colpo di pistola la mattina del 6 aprile 2014 a Porto Cesareo, in Salento.
A processo era finito il suo datore di lavoro, il 43enne Giuseppe Roi, condannato a 30 anni in primo grado e a 21 in appello per omicidio volontario (con dolo eventuale), con quest’ultima sentenza annullata con rinvio ai giudici tarantini. La Corte d’Assise d’Appello ha ora riqualificato il fatto in omicidio colposo e dichiarato il reato prescritto.
Cosa accadde nel 2014
Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, quel giorno di 10 anni fa Roi (definito «un appassionato di armi»), mentre era nelle campagne di sua proprietà, avrebbe sparato un colpo in pistola verso un frigorifero che aveva preso come bersaglio; aveva poi esploso un secondo colpo, che aveva colpito Hiraj alla testa, uccidendolo.
Nei primi due gradi di giudizio, l’uomo era stato ritenuto colpevole di omicidio volontario. Ma la Cassazione – nel disporre un nuovo processo di secondo grado – aveva ritenuto che non fosse stato dimostrato che l’imputato sapesse esattamente dove si trovava la vittima al momento del secondo sparo.
«La Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha correttamente ritenuto che la vicenda che vede imputato Giuseppe Roi sia stata una tragica fatalità e non un omicidio volontario», commentano i suoi avvocati, Roberto Eustachio Sisto e Francesca Conte. «Un riconoscimento – aggiungono – che sotto il profilo giuridico restituisce a questa storia, pur nella sua drammaticità, la sua naturale collocazione».
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