Era la fine di novembre del 2011, quando gli uomini della Dda di Reggio Calabria svegliarono – ben prima dell’alba – l’avvocato Vincenzo Minasi, studio in via Varesina a Breccia, per portarlo in prigione con la pesantissima accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ci sono voluti tredici anni perché la giustizia concludesse che quell’arresto non s’aveva da fare. La corte d’Appello di Reggio Calabria ha infatti assolto con formula piena (perché il fatto non sussiste) il penalista originario di Palmi, ma da decenni residente e operativo sul Lario. Tredici anni di attesa per dimostrare di non aver agevolato la cosca Gallico di Palmi, ma di aver semplicemente fatto il proprio lavoro da avvocato.
Le accuse
In estrema sintesi la vicenda ruota tutta attorno alle consulenze che l’avvocato diede ad alcuni esponenti di quella famiglia per intestare un terreno di loro proprietà a una società estera. Nella lettura degli atti degli investigatori della Dda, quella consulenza era un’ingerenza illecita da parte dell’avvocato che, così facendo e ben oltre il proprio mandato, avrebbe di fatto contribuito a sottrarre un bene mafioso alla giustizia attraverso un’intestazione fittizia del terreno. In realtà, per i giudici della Cassazione prima e per quelli della corte d’Appello di Reggio Calabria ora, tutto ciò non sussiste.
La Cassazione annulla tutto
L’assoluzione è figlia del pronunciamento del 2018 della Cassazione, che ha annullato la condanna comminata in primo grado e in appello dall’avvocato comasco. I giudici della Suprema Corte demolirono le convinzioni dei colleghi di Palmi prima e di secondo grado poi sui reati contestati all’avvocato Minasi.
Già all’epoca l’arresto scatenò un dibattito molto ampio sui confini del mandato professionale di un avvocato. La Cassazione ha avuto modo di spiegare che «il professionista che non si limiti a fornire al proprio cliente» affiliato ai clan «consigli e pareri, ma si trasformi nel consigliere di fiducia del capo di una associazione mafiosa in quanto conoscitore delle leggi e dei modi per eluderle, risponde del delitto di partecipazione all’associazione». Ma perché ciò sia contestabile «il contributo del concorrente» deve aiutare a «conservare o rafforzare le capacità operative dell’associazione e non soltanto gli interessi personali di alcuni suoi appartenenti». La condanna dell’avvocato Minasi, per contro, «non contiene un puntuale raffronto fra i vari segmenti di condotta» contestati «e i canoni deontologici da rispettare e, fondamentalmente, la individuazione della rilevanza causale dei suoi comportamenti per la realizzazione, anche parziale, del programma della associazione criminale». In parole povere, così com’era motivata la sentenza il reato non esisteva neppure. Ed è quanto ha confermato la Corte d’Appello di Reggio Calabria, chiamata a tornare a riunirsi sul caso dopo l’annullamento della Cassazione. Processo fissato però ben sei anni dopo la sentenza della Suprema Corte.
Ed è proprio sui tempi biblici della giustizia che interviene l’avvocato Alberto Minasi, figlio di Vincenzo: «Ha dimostrato ed i giudici lo hanno confermato che mai ha inteso aiutare l’associazione mafiosa Gallico avendo svolto il ruolo da professionista lontano da ogni connivenza.Il rammarico è sapere che per dimostrare la sua innocenza sono occorsi ben 13 anni».
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