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Addio a Giuseppe De Luca, il senso per l’etica di un giurista gentiluomo #finsubito prestito immediato

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Si è spento ieri, all’età di 98 anni, il professor Giuseppe De Luca, uno dei più autorevoli giuristi e avvocati del nostro Paese. È stato uno dei padri della moderna Procedura Penale, materia che ha insegnato a Trieste, a Bologna e alla Sapienza di Roma. E’ stato protagonista di centinaia di processi famosi, dal caso Montesi a Mani Pulite, passando per il processo Lockheed e per la strage del Vajont. Le esequie saranno celebrate domani, mercoledì 16 ottobre, a Roma nella Chiesa Stella Matutina, in via Lucilio 2.

Ha attraversato un secolo di storia d’Italia quasi sempre con la toga sulle spalle. Con l’eleganza e la signorilità che solo un elevato senso etico e una cultura vastissima possono regalare. Se n’è andato ieri, il professor Giuseppe De Luca, con la rispettosa discrezione che riservava alle persone che nel corso della sua carriera hanno bussato alla sua porta per avere il conforto di un giurista al di sopra delle parti. Capi di Stato, imprenditori, giornalisti, artisti di fama internazionale e semplici cittadini: per lui erano tutti sullo stesso piano, con gli stessi diritti da tutelare. Aveva 98 anni, lascia la moglie, due figli e molti nipoti e bis nipoti. E un bagaglio di ricordi che meriterebbe di essere squadernato. «Soprattutto negli ultimi anni, mio padre ha raccontato decine di episodi che hanno riguardato la sua vita professionale, alcuni divertenti altri più significativi – racconta Alessandro De Luca, suo figlio, che ha preferito abbracciare la carriera artistica e oggi è un pianista di fama –. Ma si tratta di racconti personali, che non possono essere divulgati».

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Il giurista

Una carriera cominciata nel tempio della giustizia, quella di Giuseppe De Luca, quando neanche trentenne mosse i primi passi da avvocato all’ombra del grande Francesco Carnelutti. Era la fine degli anni Cinquanta, quando si definivano i contorni di quello che sarebbe stato il meccanismo che sovrintende al rispetto delle leggi, cioè il processo penale. E Carnelutti, affiancato da un giovanissimo Giuseppe De Luca contribuiva fattivamente al dibattito in corso nel Paese. 
Il punto di svolta, come raccontato in un saggio dall’ex presidente di Cassazione Mirella Cervadoro, fu un convegno voluto dallo stesso Carnelutti nel settembre del ’61. In quella occasione, alla presenza dell’allora Guardasigilli Guido Gonella, nacque l’idea di disegnare il perimetro del nuovo processo penale affidandone la responsabilità ad una speciale Commissione, con Carnelutti presidente. Il celebre giurista friulano volle al suo fianco alcuni giovani che avrebbero percorso tanta strada: Giovanni Conso, Franco Cordero, Pietro Nuvolone, Giuliano Vassalli e lo stesso Giuseppe De Luca. Un anno dopo, da quella Commissione uscì la prima bozza di riforma del rito penale, in 227 articoli. «Si trattava di un documento di eccezionale importanza per le sorti della procedura penale italiana – ricorda Mirella Cervadoro nel suo saggio – perché sull’idea ispiratrice del progetto (separare la fase investigativa da quella dibattimentale per esaltare il contraddittorio nella formazione della prova) si imbastirà la riforma processuale destinata a sfociare nel codice del 1988». Che poi porterà la firma di Giuliano Vassalli, stavolta nelle vesti di ministro della Giustizia.
Il contributo scientifico di Giuseppe De Luca va avanti. Nel 1963, a 37 anni, pubblica per Giuffrè un testo ancora oggi considerato fondamentale da molti giuristi di fama, “I limiti soggettivi della cosa giudicata penale”, in cui sono contenuti con dieci anni di anticipo gli stessi principi affermati dalla Corte Costituzionale, che in nome del diritto di difesa ha ridotto l’effetto vincolante del giudicato penale in altri giudizi penali ed extra-penali. Un principio innovativo che eleva il diritto del singolo imputato sul formalismo della sentenza. 

L’avvocato

La carriera di Giuseppe De Luca come avvocato penalista comincia di fatto con uno dei processi più clamorosi degli anni Cinquanta: il caso Montesi. Era la storia di una giovane donna, Wilma Montesi, che fu trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica la mattina del 9 aprile del ‘53. Le indagini imboccarono la pista del festino finito male e nel registro degli indagati finì Piero Piccioni, che era figlio del ministro degli Esteri, Attilio Piccioni. In quegli anni del dopoguerra, in cui non c’erano serie tv, rotocalchi rosa e siti di gossip, un processo del genere catalizzava l’attenzione della popolazione. Le udienze venivano seguite con attenzione morbosa da un pubblico variegato, che aumentava quando il processo era reso pruriginoso dall’ambiente e dal tipo di personaggi coinvolti. E in un contesto del genere, pressato dall’opinione pubblica, il padre dell’imputato decise di dimettersi dal governo. Giuseppe De Luca difese con coraggio il giovane Piero Piccioni e riuscì a farlo assolvere.
Nel frattempo scoppia il caso De Chirico, con il celebre pittore che – assistito da De Luca – chiede il sequestro di un suo quadro definendolo un falso. E poi il processo per la terribile devastazione provocata dal crollo della diga sul Vajont. E ancora – e siamo già nei primi anni Settanta – il processo per il film “Ultimo Tango a Parigi”, con De Luca che fa assolvere il regista Bernardo Bertolucci dall’accusa di offesa alla morale pubblica. «Uno straordinario caso di diritto al servizio dell’arte, un ricorso che ancora oggi è un piacere leggere» ricorda l’avvocatessa Maria Rosaria Gradilone che per molti anni ha lavorato con De Luca. Il resto è storia recente: Giuseppe De Luca è stato presente in quasi tutti i processi importanti per reati contro la pubblica amministrazione degli anni Ottanta e poi in Mani Pulite. Mantenendo sempre il suo piglio elegante, flemmatico, ma al tempo stesso coraggioso, si è trovato a rappresentare gli interessi di persone diversissime, come Silvio Berlusconi e Romano Prodi, quando uno era premier e l’altro capo dell’opposizione. Dunque lontani. Ma consapevoli che avere in comune un professionista che aveva fatto dell’etica e della morale la sua cifra non avrebbe pregiudicato gli interessi di nessuno dei due. 

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Il filosofo del diritto

Docente a Trieste, Bologna e poi alla Sapienza di Roma, Giuseppe De Luca era dotato di una cultura sconfinata, anche dovuta alla sua passione per la letteratura – soprattutto quella francese – e per le arti. Questa apertura mentale, unita alla straordinaria semplicità del suo essere, lo aveva portato negli anni a formulare alcune profonde riflessioni sulle dinamiche processuali e quelle della vita di tutti i giorni: «C’è differenza tra “il grande gioco della vita” di cui parlava Nietzsche e il gioco dei bambini all’angolo della strada? Viviamo in una società di gioco? – si chiedeva Giuseppe De Luca in un intervento di pochi mesi fa su “Diritto Giustizia e Costituzione” – Il concetto di gioco infatti sembra, a mio avviso, il più adatto a specificare dall’interno l’idea di processo, in quanto il gioco presuppone regole e aspettative, prefigurazioni, possibilità, alternative, contraddizioni e tensioni, ogni gioco è un processo. Ma è anche vero che ogni processo, in quanto contiene connotazioni ludiche e rituali, è a sua volta un gioco». E ancora, nelle ultime settimane di vita, aveva scritto un intervento affidato al figlio, Alessandro: «Ha affrontato il tema dell’autopoiesi applicato al diritto. Sono riflessioni che saranno pubblicate postume e che non potranno non suscitare un dibattito sui principi di legalità e diritto positivo».

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